La massima
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assume specifico rilievo la violazione del dovere di astensione gravante sui pubblici ufficiali e sugli incaricati di pubblico servizio, non rilevando la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento dell'interesse pubblico costituisca l'obiettivo esclusivo o primario dell'agente. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva escluso la configurabilità del reato in relazione alla condotta di un sindaco che aveva disposto la proroga dei rapporti di lavoro a tempo determinato, anche in favore del coniuge, in quanto indispensabile a garantire l'effettivo esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza su tutto il territorio comunale, per le gravi carenze di organico del comando di polizia municipale.
Fonte: CED Cassazione Penale 2020
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La sentenza integrale
Cassazione penale , sez. V , 02/10/2020 , n. 37517
FATTO E DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Messina riformava parzialmente, in senso più favorevole agli imputati, la sentenza con cui il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, in data 30.3.2017, aveva condannato D.G., P.F., D.P., G.E., D.G.N., ciascuno alle pene, principiai ed accessorie, ritenute di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, comune di San Pier Niceto, in relazione ai reati ex art. 479 c.p., art. 81 c.p., comma 2, artt. 110 e 323 c.p., loro rispettivamente ascritti nei capi A) e C) dell'imputazione.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l'annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti imputati, per mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, con autonomi atti di impugnazione.
2.1. In particolare il D., condannato perchè, in qualità di responsabile del servizio finanziario del comune di San Pier Niceto, aveva attestato falsamente nella relazione tecnica datata 14.9.2010, che non risultavano debiti fuori bilancio e che non emergeva nessun disavanzo della gestione corrente, nè che tale disavanzo appariva prevedibile, quando in realtà, esistevano debiti fuori bilancio per Euro 73.897,07, derivanti da due sentenze e dalla parcella di un legale, articola tre motivi di ricorso.
Con il primo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto la corte territoriale ha fondato l'affermazione di responsabilità del D. addebitandogli una condotta di culpa in vigilando ovvero di negligente assolvimento delle sue funzioni, ontologicamente incompatibile con il dolo richiesto per l'integrazione dell'elemento soggettivo del delitto di falso ideologico in atto pubblico, la cui sussistenza, in realtà i giudici di merito non hanno dimostrato, se non considerandolo, indebitamente, in re ipsa, essendo la motivazione carente con particolare riferimento al profilo della consapevolezza da parte del reo di rendere una falsa attestazione circa l'inesistenza di debiti fuori bilancio, la cui non rispondenza al vero è stata accertata solo ex post, dalla Corte dei Conti, nel parallelo giudizio contabile, e dalla nuova amministrazione comunale insediatasi nel maggio del 2012.
Rileva, sul punto, il ricorrente che il D. non ha mai attestato di avere compiuto controlli amministrativi dai quali sarebbe emerso che non esistevano debiti fuori bilancio, nè, in ogni caso, è risultato che i debiti fuori bilancio siano mai stati portati a sua conoscenza ovvero siano stati riconosciuti come tali D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 194.
I giudici di appello, inoltre, avrebbero dovuto indicare il comportamento alternativo lecito la cui omissione è addebitata al D., per poi dimostrare che tale condotta, ove posta in essere, avrebbe consentito al pubblico ufficiale di conoscere il reale stato delle cose, evenienza, quest'ultima, da escludere posto che i soggetti che quella penetrante indagine e verifica hanno compiuto (il segretario comunale V.C., i revisori dei conti S.M. e M.A., la funzionaria comunale L.D., subentrata all'imputato) sono pervenuti alle stesse conclusioni certificate dal D. nella relazione del 14.9.2010.
In questo contesto si inserisce un vero e proprio travisamento della prova dichiarativa rappresentata dalla deposizione del revisore dei conti M., il quale, a differenza di quanto affermato dalla corte territoriale, non ha rappresentato di essersi limitato a recepire le indicazioni fornite dal D., ma ha descritto i controlli da egli autonomamente compiuti, che gli hanno consentito di attestare la inesistenza di debiti fuori bilancio.
Con il secondo motivo di ricorso l'imputato deduce violazione di legge e vizio di motivazione in quanto i giudici di appello non si sono confrontati con lo specifico motivo di impugnazione riguardante l'inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie di S.A., responsabile dell'ufficio affari generali e contenzioso del comune, trattandosi di un soggetto portatore di un concreto interesse ad allontanare da sè possibili profili di responsabilità, in quanto dai registri interni di "trapasso" e dal protocollo risultava che proprio al suo ufficio erano stati trasmessi per competenza, per poi "arenarsi", i tre titoli giustificativi dei debiti, dedotti in imputazione, senza che nessun ulteriore passaggio sia stato in essi annotato in modo da prefigurare la conoscenza di quelle voci di spesa in capo al D..
Mai inoltre la S., a differenza di quanto affermato dalla corte territoriale, ha dichiarato di avere trasmesso al prevenuto i documenti attestanti i debiti fuori bilancio, non essendo stata raggiunta la prova che il D. abbia avuto fisicamente la disponibilità di tali documenti, costituiti dalla sentenza Catanese, dalla sentenza Savoja (entrambe esecutive) e dalla nota di credito dell'avv. S.C..
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria, volta ad ottenere l'espletamento di una perizia grafologica avente ad oggetto la sottoscrizione apposta sulla proposta di delibera del 21.7.2010 sotto la dicitura dattiloscritta "Il Responsabile del Settore Dott. D.G.", con la quale si proponeva al consiglio comunale di impugnare la sentenza pronunciata in favore di C.R., perizia, ad avviso del ricorrente, necessaria, perchè, come dimostrato documentalmente, l'imputato aveva ottenuto sette giorni di ferie, con decorrenza dal 19.7.2010, ragione per la quale non poteva avere sottoscritto, perchè assente, la suddetta proposta di delibera.
2.2 Il P.F., imputato di una serie di abusi d'ufficio indicati nel capo C) dell'imputazione, commessi, in qualità di sindaco pro tempore del comune di San Pier Niceto e di istigatore, in favore del coniuge P.A., legata da un rapporto di lavoro con il suddetto comune, e di F.N., nominato esperto del sindaco in materie amministrative, articola quattro motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto, tenuto conto che in relazione a tutti i fatti costituenti reato addebitati al P., i giudici di merito hanno pronunciato sentenza di assoluzione, in primo grado, ovvero di non doversi procedere per sopravvenuta estinzione per prescrizione, risulta del tutto priva di giustificazione la rideterminazione dell'entità del trattamento sanzionatorio nei confronti dell'imputato, operata dalla corte territoriale.
Con il secondo motivo di ricorso l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al reato di abuso di ufficio contestato con riferimento alla delibera comunale n. 5 del 18.1.2010, in quanto la responsabilità dell'imputato è stata affermata solo in virtù della sua partecipazione in qualità di sindaco alla delibera di giunta n. 5 del 18.1.2010 con cui la lavoratrice contrattista P.A. era stata autorizzata a svolgere prestazioni aggiuntive di dodici ore settimanali, rispetto a quelle previste dal contratto di diritto privato stipulato con l'ente territoriale, pur in assenza, secondo l'assunto accusatorio, dei presupposti di legge, che, anzi, vietavano di procedere ad assunzioni sotto qualsivoglia forma, per esigenze di compatibilità finanziaria, secondo quanto previsto dalle norme del patto di stabilità, D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 242, comma 1 e 2, in relazione all'allegato "B" del punto 6 del D.M. Interni 24 settembre 2009.
Il ricorrente, in particolare, rileva che i giudici di merito non hanno considerato come non sia configurabile alcun obbligo giuridico in capo al sindaco, quale componente della giunta comunale, di procedere al necessario controllo contabile e finanziario, affidato, invece, alla competenza degli organi tecnici.
Sicchè, una volta intervenuto il parere endoprocedimentale favorevole, reso dal responsabile della ragioneria comunale, sulla regolarità contabile, indicato specificamente nella deliberazione n. 5 del 18.1.2010, nessun addebito può essere mosso al sindaco per avervi fatto affidamento, in assenza di un preciso obbligo di controllo contabile e finanziario, imposto dall'ordinamento in capo all'organo politico.
Senza tacere che, come emerso dall'istruttoria dibattimentale, la delibera di cui si discute non è stata assunta su invito del sindaco, ma su pressioni poste in essere dal comandante del corpo di polizia municipale, C.F., come riferito da quest'ultimo.
Con il terzo motivo di ricorso l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al reato di abuso di ufficio contestato in ordine alla delibera comunale n. 5 del 18.1.2010, in quanto, non solo risulta del tutto indimostrato, ma viene smentito proprio dalle dichiarazioni rese dal teste C. che la contestata proroga della durata del rapporto di lavoro sia stata disposta per favorire la P., in quanto moglie del sindaco e non perchè rispondente all'oggettiva necessità di sopperire alle carenze di organico, che non consentivano di assicurare l'erogazione del servizio minimo di base nel settore della pubblica sicurezza, rimanendo, inoltre, del tutto indimostrata la sussistenza dell'elemento psicologico del reato.
Con il quarto motivo di ricorso l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al reato di abuso di ufficio contestato in relazione alle determine sindacali n. 1 del 4.1.2010 e n. 15 dell'1.4.2010, con le quali il P. aveva confermato per ulteriori periodi la nomina di F.N. quale esperto del sindaco in materie amministrative, pur in assenza, secondo l'assunto accusatorio, dei presupposti di legge, che, anzi, vietavano di procedere ad assunzioni sotto qualsivoglia forma, per esigenze di compatibilità finanziaria, secondo quanto previsto dalle norme del patto di stabilità, D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 242, comma 1 e 2, in relazione all'allegato "B" del punto 6 del D.M. Interni 24 settembre 2009.
Rileva, al riguardo, il ricorrente, che i giudici di merito, ed, in particolare, il tribunale, posto che sul punto la corte territoriale si è limitata a dichiarare estinti i fatti-reato per prescrizione, non ha considerato che l'incarico conferito al F. non ha determinato la costituzione di un rapporto di pubblico impiego, trovando, piuttosto, il suo legittimo presupposto nella previsione della L.R. Sicilia 26 agosto 1992, n. 7, art. 14, come confermato anche dal segretario comunale, Dott.ssa V.C., senza tacere che anche in questo caso le determine di conferimento dell'incarico recavano il parere del responsabile dell'ufficio ragioneria, che ne attestava la regolarità contabile e la copertura finanziaria, con imputazione delle somme al relativo capitolo di bilancio.
Nessun danno ingiusto per l'amministrazione o vantaggio ingiusto in favore del F., appare, inoltre, configurabile, non solo perchè le indagini avviate al riguardo dal servizio ispettivo del competente assessorato regionale e dalla procura della Corte dei Conti non hanno avuto alcun esito, ma, soprattutto, perchè è stato accertato e documentato che all'esperto è stato corrisposto il giusto e legittimo compenso pattuito.
Carente appare anche la motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato, che i giudici di merito hanno dedotto solo sulla base della presunta violazione della norma di legge contestata, senza alcuna indagine ulteriore; nè va taciuto che, ove anche si volesse ritenere configurabile la suddetta violazione di legge, essa sarebbe pur sempre il frutto di una falsa rappresentazione della realtà contabile non ascrivibile all'imputato, che, dunque, essendo caduto in errore a causa del giudizio favorevole del dirigente contabile, non può essere ritenuto responsabile, alla luce del disposto dell'art. 48 c.p..
2.3 Il D.P., imputato di una serie di abusi d'ufficio indicati nel capo C) dell'imputazione, commessi, in qualità di assessore e di componente della giunta comunale del comune di San Piero Niceto, in favore della citata P.A., articola tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai reati di abuso di ufficio contestati con riferimento alla delibera comunale n. 5 del 18.1.2010 e n. 53 del 6.7.2010, in quanto la responsabilità dell'imputato è stata affermata solo in virtù della sua partecipazione in qualità di assessore alle suddette delibere con cui la lavoratrice contrattista P.A. era stata autorizzata a svolgere prestazioni lavorative aggiuntive, rispetto a quelle previste dal contratto di diritto privato stipulato con l'ente territoriale, pur in assenza, secondo l'assunto accusatorio, dei presupposti di legge, che, anzi, vietavano di procedere ad assunzioni sotto qualsivoglia forma, per esigenze di compatibilità finanziaria, secondo quanto previsto dalle norme del patto di stabilità, D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 242, comma 1 e 2, in relazione all'allegato "B" del punto 6 del D.M. Interni 24 settembre 2009.
Il ricorrente, in particolare, rileva che i giudici di merito non hanno considerato come non sia configurabile alcun obbligo giuridico in capo al sindaco, quale componente della giunta comunale, di procedere al necessario controllo contabile e finanziario, affidato, invece, alla competenza degli organi tecnici.
Vengono, in realtà, reiterate le stesse doglianze rappresentate dal medesimo difensore di fiducia, nel secondo motivo del ricorso proposto nell'interesse del P..
Con il secondo motivo di ricorso l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto non solo risulta del tutto indimostrato, ma appare smentito proprio dalle dichiarazioni rese dal teste C. che la contestata proroga della durata del rapporto di lavoro sia stata disposta per favorire la P., in quanto moglie del sindaco e non perchè rispondente all'oggettiva necessità di sopperire alle carenze di organico, che non consentivano di assicurare l'erogazione del servizio minimo di base nel settore della pubblica sicurezza, rimanendo, inoltre, del tutto indimostrata la sussistenza dell'elemento psicologico del reato. Con il terzo motivo di ricorso l'imputato eccepisce l'intervenuta estinzione per prescrizione del reato, anche nella parte relativa alla delibera n. 53 del 6.7.2010.
2.4 G.E. e D.G.N., imputati di una serie di abusi d'ufficio indicati nel capo C) dell'imputazione, commessi, in qualità di assessori e di componenti della giunta comunale del comune di San Piero Niceto, in favore della citata P.A., articolano tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso i prevenuti lamentano violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai reati di abuso di ufficio contestati con riferimento alle delibere comunali n. 5 del 18.1.2010 e n. 53 del 6.7.2010, in quanto la loro responsabilità è stata affermata solo in virtù della loro partecipazione in qualità di assessori alle suddette delibere con cui la lavoratrice contrattista P.A. era stata autorizzata a svolgere prestazioni lavorative aggiuntive, rispetto a quelle previste dal contratto di diritto provato stipulato con l'ente territoriale, pur in assenza, secondo l'assunto accusatorio, dei presupposti di legge, che, anzi, vietavano di procedere ad assunzioni sotto qualsivoglia forma, per esigenze di compatibilità finanziaria, secondo quanto previsto dalle norme del patto di stabilità, D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 242, comma 1 e 2, in relazione all'allegato "B" del punto 6 del D.M. Interni 24 settembre 2009.
Rilevano i ricorrenti che in realtà le suddette delibere non avevano ad oggetto proroghe del contratto di lavoro, ma una semplice autorizzazione concessa a due lavoratori, tra cui la P., a svolgere prestazioni lavorative aggiuntive di 12 ore settimanali.
Reiterando le doglianze indicate in precedenza in ordine ai pareri favorevoli sulla regolarità contabile espressi dagli organi tecnici competenti ed alle pressioni esercitate per l'approvazione delle delibere dal C., i ricorrenti evidenziano come i suddetti atti deliberativi, allo stesso modo di quello per il quale è intervenuta pronuncia di assoluzione, avevano come unica finalità il soddisfacimento di un interesse pubblico.
Con il secondo motivo di ricorso gli imputati deducono l'insussistenza di un danno suscettibile di risarcimento.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce la mancata declaratoria di cui all'art. 157 c.p., in relazione alla seconda delibera di giunta del 6.7.2010.
3. Ciò posto, occorre passare ad esaminare le posizioni dei singoli ricorrenti.
Al riguardo va ribadito il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. "doppia conforme" quando la sentenza di appello, come nel caso in esame, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218).
4. Iniziando dal ricorso del D., ne va rilevata la inammissibilità per le seguenti ragioni.
Ed invero manifestamente infondato appare il primo motivo di ricorso, concentrato sull'elemento soggettivo del reato.
Come affermato con insegnamento costante dalla giurisprudenza di legittimità ai fini della configurabilità del reato di falsità ideologica in atto pubblico è sufficiente il dolo generico, da ritenersi sussistente in presenza della falsa attestazione, contenuta nell'atto, di un accertamento in realtà mai compiuto, dolo che consiste nella rappresentazione e nella volontà dell'immutatio veri", mentre non è richiesto l'animus nocendi nè l'animus decipiendi", con la conseguenza che il delitto sussiste sia quando la falsità sia compiuta senza l'intenzione di nuocere, sia quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno. (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 12547 del 08/11/2018, rv. 276505; Cass., Sez. 5, n. 17929 del 20/01/2020, rv. 279214).
Di conseguenza, da un lato, non può non ritenersi idonea ad integrare il dolo generico del delitto di falsità ideologica in atto pubblico la falsa attestazione contenuta nell'atto di un accertamento in realtà mai compiuto (cfr. Cass., Sez. 6, n. 39010 del 10/04/2013, Rv. 256594); dall'altro, il dolo generico risulta integrato in presenza di complessive ed immediatamente percepibili risultanze contabili di cui non venga data contezza dall'agente nelle attestazioni di cui sia investito (cfr. Cass., Sez. 5, n. 35548 del 21/05/2013, rv. 257040).
Orbene il percorso motivazionale seguito dalla corte territoriale si colloca esattamente all'interno del richiamato alveo giurisprudenziale, di cui rappresenta puntuale applicazione.
Il giudice di merito, infatti, ha correttamente rilevato, innanzitutto, come sarebbe stato precipuo compito del D., in considerazione del ruolo rivestito di responsabile del servizio finanziario del comune San Pier Niceto, procedere alla verifica dei debiti fuori bilancio, la cui sussistenza non ha formato oggetto di contestazione.
Sicchè, non avere proceduto a tale verifica è già elemento di fatto logicamente valutabile come sintomatico del dolo generico, tenuto conto della natura del bilancio comunale, cui era funzionalmente connessa la relazione della cui falsità si discute, trattandosi di documento, anche a valenza esterna, che assolve alla pubblica funzione di illustrare quali siano state le spese sostenute e gli introiti realizzati, al fine di rappresentare non solo il risultato economico dell'ente nell'anno precedente, ma anche gli scopi amministrativi e politici perseguiti dall'amministrazione (cfr. Cass., Sez. 5, n. 24878 del 14/03/2017, rv. 270461).
La corte territoriale, inoltre, ha puntualmente indicato e valutato con intrinseca coerenza logica tutte le evidenze processuali, dalle quali è possibile desumere con assoluta certezza la conoscenza da parte dell'imputato dei debiti fuori bilancio, omessi nella sua relazione sulla base, dunque, di una scelta volontaria e consapevole: dichiarazioni di S.A., funzionaria del comune, che ha riferito come "i documenti comprovanti l'esistenza dei debiti fuori bilancio erano stati trasmessi al prevenuto quando pervenuti al comune e comunque prima della relazione in contestazione"; partecipazione del D. "alla seduta del consiglio comunale del 6 ottobre 2010, successiva di circa tre settimane alla relazione di cui si discute", nel corso della quale, sollevato da più parti il tema dei debiti fuori bilancio, anche con specifico riferimento a due dei debiti indicati nell'imputazione, il ricorrente aveva dimostrato di avere contezza dei titoli giudiziari su cui si fondavano i debiti in questione, "dei quali aveva negato l'esistenza in un atto formale qualche settimana prima"; dichiarazioni di N.D., vice presidente del consiglio comunale, il quale "ha confermato di aver sollevato la questione nel corso della richiamata seduta come pure di aver appreso dalla Dott.ssa S. che i documenti attestanti i debiti erano stati regolarmente trasmessi al responsabile del Servizio finanziario" (cfr. pp. 7-9 della sentenza impugnata).
Nel resto i motivi di ricorso del D. devono ritenersi inammissibili, perchè di natura eminentemente fattuale.
Il ricorrente non tiene nel dovuto conto il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale anche a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal menzionato ricorrente, che si risolve in una mera e generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione, come si è detto, su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica.
Giova peraltro rammentare che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza della Suprema Corte, non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando ne risulti il rigetto dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5 n. 6746 del 13/12/2018, Rv. 275500).
Ne consegue l'evidente inammissibilità della censura volta a mettere in discussione la credibilità della teste S., già valutata positivamente dal giudice di primo grado, in mancanza di elementi di segno contrario idonei a configurare in capo alla funzionaria comunale un intento calunniatorio (cfr. p. 15 della sentenza del tribunale).
Appare, pertanto, evidente come la corte territoriale abbia implicitamente rigettato il rilievo difensivo, ritenendo le dichiarazioni della S. corroborate dal contenuto della testimonianza del N. e dalla condotta serbata dallo stesso imputato in sede di consiglio comunale, in assenza, per l'appunto, di elementi concreti in grado di inficiare l'attendibilità della deposizione della teste.
Elementi, peraltro, che nemmeno il ricorrente fornisce, limitandosi, per l'appunto ad una mera prospettazione alternativa dei fatti, che si riduce ad una pura e semplice supposizione.
Proprio perchè risulta esaustivamente dimostrata la conoscenza dei debiti fuori bilancio da parte del ricorrente, ad identiche conclusioni deve pervenirsi a proposito della richiesta di rinnovazione istruttoria, rigettata dalla corte territoriale stante l'irrilevanza dell'accertamento sulla effettiva paternità della firma, contestata dal D., apposta all'atto con cui si proponeva al consiglio comunale di impugnare la sentenza pronunciata in favore di C.R..
Come chiarito, dall'orientamento da tempo dominante nella giurisprudenza della Suprema Corte, stante l'eccezionalità dell'istituto processuale contemplato nell'art. 603 c.p.p., il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale può essere censurato in sede di legittimità solo quando risulti dimostrata l'esistenza, nel tessuto motivazionale che sorregge la decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità ricavabili dal testo del medesimo provvedimento (come previsto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello (cfr. Cass., sez. III, 23/05/2013, n. 45647), lacune e manifeste illogicità che, nel caso in esame non appaiono configurabili e che l'imputato non ha specificamente indicato, presentandosi, in realtà, come già detto, le sue doglianze come censure che propongono una diversa lettura dei fatti e del materiale probatorio, non consentita in sede di legittimità.
5. Passando ad esaminare la posizione del P.F., non appare revocabile in dubbio la fondatezza del primo motivo di ricorso.
Al riguardo si osserva che al P., nella sua qualità di sindaco pro-tempore del comune di San Pier Niceto, sono stati contestati nel capo C) dell'imputazione una pluralità di fatti di abuso d'ufficio commessi in concorso, unificati sotto il vincolo della continuazione, con riferimento ad una serie di atti amministrativi, consistenti in diverse deliberazioni della giunta comunale ovvero in determine sindacali.
Orbene, come si evince dalla lettura delle sentenze di primo e di secondo grado, i giudici di merito hanno reso decisioni diverse in ordine ai singoli fatti in addebito.
In relazione alla deliberazione della giunta comunale del 5.1.2010, il P. veniva assolto in primo grado con la formula perchè il fatto non costituisce reato.
Con riferimento alla proposta di deliberazione del 14.1.2010, alla deliberazione della giunta comunale del 18.1.2010, alle determinazioni sindacali del 4.1.2010 e dell'1.4.2010, la corte territoriale dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere il reato estinto per prescrizione.
Il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, inoltre, aveva assolto il P. anche dal reato di abuso d'ufficio contestato come commesso in concorso con il D. nel capo B) dell'imputazione, con la formula perchè il fatto non sussiste.
Ciò posto, la corte territoriale ha operato una rideterminazione del quantum della pena inflitta al P., in senso favorevole al reo, sul presupposto che, nonostante l'intervenuta dichiarazione di estinzione per prescrizione dei reati innanzi indicati, egli debba ritenersi responsabile del delitto ex art. 323 c.p., relativo alla delibera di giunta comunale del 6.7.2010, per il quale il termine di prescrizione non era ancora perento, in considerazione del suo ruolo di istigatore, pur non risultando che il sindaco avesse partecipato alla seduta della giunta comunale in cui tale deliberazione venne approvata (cfr. p. 11 della sentenza di appello).
Si tratta, tuttavia, di un evidente errore di diritto, in quanto, come si evince dalla lettura del capo C) dell'imputazione, il fatto di abuso d'ufficio contestato in relazione alla delibera di giunta comunale del 6.7.2010 non risulta addebitato, nemmeno in fatto, al P., ma solo a G.E., D.P. e D.G.N., in qualità di assessori e componenti della giunta municipale, nonchè a P.A., in qualità di beneficiaria dell'atto.
Ascrivere tale fatto al P. solo in virtù della sua dimostrata ingerenza in favore della moglie P.A., in relazione ad atti amministrativi (proposta di deliberazione e deliberazione) adottati in tempi diversi, materialmente riconducibili al P., trascurando che ciascun episodio di abuso d'ufficio in continuazione mantiene la sua autonomia ai fini del rispetto delle regole che governano l'esercizio dell'azione penale, significa aggirare il principio ne procedat iudex ex officio, che risulta compromesso ogniqualvolta dovesse verificarsi la mancanza di iniziativa o l'esercizio dell'azione penale in violazione del modello legale.
Si è in presenza, pertanto, di una nullità assoluta, di ordine generale, ai sensi dell'art. 178 c.p.p., lett. b) e art. 179 c.p.p., comma 1, rilevabile, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, riguardando l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale, che, in ordine a tale singolo episodio non risulta essere stata esercitata nei confronti del ricorrente.
Ne consegue che nei confronti del P. la sentenza va annullata senza rinvio, in ordine al reato di abuso d'ufficio relativo alla deliberazione di giunta comunale del 6.7.2010, per non aver commesso il fatto, con conseguente eliminazione della relativa pena.
5.1. Nel resto, il ricorso del P., da esaminare comunque, ai sensi del disposto dell'art. 578 c.p.p., è inammissibile, perchè fondato su motivi manifestamente infondati, di natura meramente fattuale e generici.
Come si è visto il ricorrente aggredisce la motivazione della sentenza impugnata innanzitutto in relazione al reato di abuso d'ufficio contestato con riferimento alla delibera di giunta comunale n. 5 del 18.1.2010, con cui P.A., moglie del P., dipendente a contratto del comune di San Pier Niceto, veniva autorizzata "a svolgere prestazioni lavorative aggiuntive di ore 12 settimanali rispetto a quelle previste dal contratto di diritto privato sottoscritto dalla stessa per il periodo 1/01/2010 30/06/2010.
Nel secondo e nel terzo motivo di ricorso, l'imputato non contesta la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato, ma eccepisce, innanzitutto, che, in ragione del parere endoprocedimentale favorevole, reso dal responsabile della ragioneria comunale, sulla regolarità contabile, indicato specificamente nella deliberazione n. 5 del 18.1.2010, nessun addebito può essere mosso al sindaco per avervi fatto affidamento, in assenza di un preciso obbligo di controllo contabile e finanziario, imposto dall'ordinamento in capo all'organo politico.
Tale assunto risulta manifestamente infondato, in quanto incidente sul profilo dell'elemento soggettivo del reato, eccependo il ricorrente, in definitiva, l'insussistenza del requisito del dolo intenzionale richiesto dalla fattispecie incriminatrice, su cui i giudici di primo e di secondo grado si sono, invece, puntualmente soffermati.
Trascura, il ricorrente, di considerare che sul sindaco grava un generale dovere di controllo e direttiva nei confronti degli uffici tecnici ed amministrativi del comune, affinchè sia assicurata la corretta osservanza delle norme che disciplinano l'azione amministrativa dell'ente territoriale (per un'applicazione di tale principio, cfr. Cass., Sez. 6, n. 21085 del 28/01/2004, Rv. 229805) ed un più generale dovere di imparzialità, che trova il suo fondamento, non solo nel disposto dell'art. 97, comma 2, Cost., ma anche nella previsione dell'art. 78, del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (cfr. Cass., Sez. 6, 12.6.2012, n. 25180, Rv. 253118).
Sul punto la giurisprudenza di legittimità, con insegnamento assolutamente uniforme, ha affermato da tempo il condivisibile principio, secondo cui in tema di abuso d'ufficio, il requisito della violazione di legge può essere integrato anche dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A. nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione (cfr., Cass., Sez. 6, n. 27816, del 02/04/2015, Rv. 263933; Cass., Sez. 6, n. 38357 del 12/06/2014, Rv. 260472; Cass., Sez. 6, n. 37373 del 24/06/2014, Rv. 261748).
L'elemento soggettivo, in questa prospettiva, partendo dalla inequivoca formulazione della norma, si atteggia in termini di dolo intenzionale, che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità con uniforme e costante indirizzo, non richiede, sul piano probatorio, la dimostrazione dell'accordo collusivo concluso con la persona che si intende indebitamente preferire o favorire, ma può essere desunto anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo, a titolo di mero esempio non dovendo necessariamente coesistere, l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni; la competenza dell'agente; i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente stesso (cfr. Cass., Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Rv. 267633; Cass., Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Rv. 274580; Cass., Sez. 6, n. 31594 del 19/04/2017, Rv. 270460; Cass., Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Rv. 264280).
Ed invero l'intenzionalità del dolo non è esclusa dalla compresenza di una finalità pubblicistica nella condotta del pubblico ufficiale, dovendosi ritenere necessario, perchè venga meno la configurabilità dell'elemento soggettivo, che l'agente persegua esclusivamente la finalità di realizzare un interesse pubblico ovvero che egli, pur nella consapevolezza di favorire un interesse privato, sia stato mosso esclusivamente dall'obiettivo di perseguire un interesse pubblico, con conseguente degradazione del dolo di procurare a terzi un vantaggio da dolo intenzionale a mero dolo diretto o eventuale e con esclusione, quindi, di ogni finalità di favoritismo privato (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 10224 del 23/01/2019, Rv. 276094 Cass., Sez. 2, n. 10224 del 23/01/2019, Rv. 276094).
Sicchè il dolo intenzionale è configurabile qualora si accerti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio abbia agito con uno scopo diverso da quello consistente nel realizzare una finalità pubblica, il cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi nei quali questa manchi del tutto, ma anche laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sè o per altri (cfr. Cass., Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Rv. 258893).
Ebbene i giudici di merito hanno reso sul punto una decisione assolutamente conforme ai principi di diritto frutto di una elaborazione giurisprudenziale sedimentata nel tempo, evidenziando come il sindaco pro-tempore e gli assessori, in qualità di componenti della giunta municipale, abbiano, da un lato, scientemente "disconosciuto la condizione di ente strutturalmente deficitario in capo al comune di San Pier Niceto, di fatto sussistente, ricorrendo contestualmente, tramite le delibere n. 1, n. 5 e n. 53/2010, al rinnovo dei contratti a tempo determinato e all'aumento delle ore lavorative per P.A.", dall'altro, adottato, di conseguenza, "degli atti macroscopicamente illegittimi atteso il superamento del limite di spesa per il personale
previsto dalla L. n. 298 del 2006, art. 1, comma 562", in considerazione del divieto di nuove assunzioni stabilito per gli enti pubblici strutturalmente deficitari, come il comune di San Pier Niceto.
Il giudice di primo grado, in particolare, attraverso un articolato ed esaustivo accertamento delle condizioni finanziarie in cui versava il suddetto comune (che non ha formato oggetto di specifica doglianza da parte del ricorrente), ha dimostrato come, sia al Sindaco, sia agli assessori responsabili dei singoli servizi, fosse ben nota l'esistenza di debiti fuori bilancio, di passività e di un consistente disavanzo di gestione, per cui essi erano ben consapevoli che ogni ulteriore impegno di spesa avrebbe determinato un aggravio non consentito della situazione patrimoniale esistente.
Risulta, pertanto, compiutamente dimostrata la sussistenza del requisito della cd "doppia ingiustizia", necessario per la configurabilità del delitto ex art. 323 c.p..
Ed invero, come da tempo affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte con uniforme insegnamento, il delitto di abuso d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015, Rv. 262800).
Non è, pertanto, revocabile in dubbio che nel caso in esame entrambi i profili siano stati adeguatamente considerati dai giudici di merito, essendo stata dimostrata tanto la violazione delle norme in materia di patto di stabilità in precedenza indicate, quanto l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale di cui la P. ha goduto attraverso la proroga nel tempo dell'efficacia del rapporto di lavoro con il comune di San Pier Niceto, che ha determinato un aumento delle ore di lavoro retribuito rispetto all'originaria previsione contrattuale, con conseguente indebito arricchimento della lavoratrice e danno economico patito dall'ente territoriale.
Tornando al profilo del dolo intenzionale, va rilevato come il tribunale abbia correttamente ritenuto che la consapevolezza da parte degli imputati che ogni ulteriore impegno di spesa avrebbe determinato un aggravio non consentito della situazione patrimoniale esistente, non fosse sufficiente ad integrare il dolo intenzionale del reato di abuso d'ufficio, contestato in relazione alla delibera n. 1/2010, perchè in questo caso il P. e gli assessori competenti ( G. e D.) hanno agito al fine primario di perseguire l'interesse pubblico.
La delibera avente ad oggetto la prosecuzione della durata del rapporto di lavoro sorto sulla base di ventuno contratti a tempo determinato, tra i quali rientrava anche quello stipulato con P.A., era, infatti, indispensabile per garantire l'effettivo esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza su tutto il territorio comunale, stante la situazione di grave carenza di organico del comando di polizia municipale del comune, munito di un solo agente, come rappresentato, nel corso della sua deposizione dibattimentale, dal comandante del corpo, C.F..
Ad identiche conclusioni, invece, i giudici di merito, con motivazione dotata di intrinseca coerenza logica, non ritenevano possibile giungere con riferimento ai due episodi di abuso d'ufficio, relativi alle delibere n. 5 del 18.1.2010 (contestato non solo al P., m anche al D., al G. ed al D.G., nella loro qualità di assessori del comune di San Piero Niceto e di componenti della giunta comunale) e n. 53 del 6.7.2010 (contestato, come si è visto, ai soli D., G. e D.G., nelle richiamate qualità), con cui la P. era stata autorizzata, per due semestri consecutivi, a svolgere prestazioni lavorative aggiuntive (dodici ore settimanali), rispetto a quelle previste dal contratto base (ventiquattro ore settimanali).
In tali casi, infatti, proprio in considerazione della già intervenuta proroga dell'efficacia nel tempo dei contratti stipulati con le ventuno unità di lavoratori a tempo determinato, in precedenza indicati, la concessione in favore della sola P. (e del suo collega A.) della possibilità di aggiungere ulteriori ore di lavoro retribuito in favore del comune, non trovava razionale giustificazione e, in ogni caso, non "poteva considerarsi assolutamente indispensabile e non differibile, essendo stato comunque garantito un adeguato servizio di base".
Sicchè può ben dirsi che la prospettata esigenza di soddisfare l'interesse pubblico sotteso alla necessità di colmare i vuoti dell'organico della polizia municipale non era il fine esclusivo o primario perseguito dalle delibere in questione, ma solo l'occasione utilizzata per raggiungere la finalità illecita avuta di mira dagli imputati.
In questo contesto appare assolutamente condivisibile la valorizzazione operata dai giudici di merito della circostanza che il Petrone non abbia adempiuto al dovere, impostogli dalla previsione dell'art. 323 c.p., comma 1, di astenersi dal partecipare alla adozione della delibera n. 5 del 18.1.2010, che, anzi, lo stesso imputato aveva sollecitato formalmente con la relativa proposta del 14.1.2010, in presenza di un evidente interesse lavorativo ed economico della moglie, suo prossimo congiunto (cfr. sentenza di primo grado pp. 27-35; cfr. sentenza di appello, pp. 911).
La violazione del dovere di astensione, invero, pur non bastando da sola ad integrare il delitto di abuso d'ufficio, essendo sempre necessario dimostrare l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato (cfr. Cass., Sez. 6, n. 12075 del 06/02/2020, Rv. 278723), rappresenta pur sempre uno degli elementi su cui fondare la prova dell'esistenza del dolo, soprattutto quando sia accompagnata da ulteriori elementi dotati di valore sintomatico sul punto, come nella vicenda in esame.
A fronte di questo limpido ed esaustivo apparato motivazionale le censure articolate dal ricorrente nel secondo e nel terzo motivo di ricorso non solo non colgono nel segno, ma devono ritenersi manifestamente infondate, nonchè generiche, perchè acriticamente reiterative di doglianze già disattese dai giudici di merito, con le cui motivazioni il P., in realtà, non si confronta.
Identici rilievi valgono anche per le doglianze articolate dal P. in ordine alle fattispecie di abuso d'ufficio relative alle determine sindacali n. 1 del 4.1.2010 e n. 15 dell'1.4.2010, con cui l'imputato, nella sua qualità di sindaco pro tempore del comune di San Pier Niceto, aveva confermato la nomina di esperto del sindaco in materie amministrative dell'avv. F.N., per un complessivo periodo di sei mesi.
Ed invero anche in questo caso i giudici di merito hanno reso puntuale e coerente motivazione, sottolineando ancora una volta, come "benchè la legge riconoscesse al sindaco la possibilità di nominare un esperto, il conferimento di tale incarico al F. è avvenuto, analogamente a quanto già sostenuto per le altre delibere oggetto di questo giudizio, in violazione del divieto di nuove assunzioni gravante sugli enti strutturalmente deficitari", con conseguente danno patrimoniale per l'ente, derivante dal pagamento di emolumenti, ingiustamente corrisposto al F., in quanto non dovuti.
Sulla base, dunque, di un atto macroscopicamente illegittimo, in quanto adottato in violazione del patto di stabilità e del relativo divieto di nuove assunzioni in esso sancito, soffermandosi, peraltro, anche su ulteriori specifici profili, che consentono di ritenere l'atto viziato da "sviamento del potere dalla causa tipica", non formanti oggetto di specifica critica da parte del ricorrente.
Risulta, pertanto, assolutamente integrato, sotto il profilo oggettivo, con riferimento alle menzionate determine sindacali, il delitto di abuso d'ufficio, per il quale si richiede, come si è detto il requisito della cd. "doppia e autonoma ingiustizia".
Inappuntabile appare la motivazione dei giudici di merito con riferimento alla ritenuta sussistenza del dolo intenzionale, che, in conformità ai principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, è stata desunta non solo dalla evidente violazione del patto di stabilità, ma anche dalla mancanza di congruità delle motivazioni relative all'effettiva necessità del conferimento dell'incarico; dalla natura amministrativa e non già di indirizzo politico e di controllo proprie del sindaco delle funzioni conferite; dalla genericità dell'incarico stesso e dall'omessa preventiva verifica di disponibilità di risorse interne (cfr. pp. 35-39 della sentenza di primo grado).
Va, infine, disattesa per manifesta infondatezza l'ulteriore censura difensiva volta a giustificare il comportamento del ricorrente alla luce del disposto dell'art. 48 c.p., non essendo configurabile il reato di abuso di ufficio per induzione in errore del pubblico ufficiale, in quanto per l'integrazione del reato previsto dall'art. 323 c.p., è necessario il dolo intenzionale del soggetto agente (cfr. Cass., Sez. 6, n. 54536 del 15/11/2016, Rv. 268956).
6. Inammissibile deve ritenersi il ricorso presentato nell'interesse di D.P., condannato, in qualità di assessore e di componente della giunta comunale del comune di San Piero Niceto, in relazione ai reati di abuso di ufficio contestati nel capo C), con riferimento alle delibere comunali n. 5 del 18.1.2010 e n. 53 del 6.7.2010, in quanto sorretto da motivi manifestamenti infondati, di natura fattuale e generici, perchè acriticamente reiterativi di doglianze disattese dai giudici di merito, con puntuale ed esaustiva motivazione.
Il ricorso del D., in realtà, redatto dallo stesso difensore cui si deve il ricorso presentato nell'interesse del P., è sostanzialmente sovrapponibile a tale ultimo atto di impugnazione, in quanto i primi due motivi riproducono le doglianze già esaminate e disattese affrontando la posizione del sindaco pro-tempore del comune di San Pier Niceto.
Ragioni di economia redazionale, impongono, pertanto, di rinviare alle considerazioni già svolte nelle pagine che precedono, in cui, con riferimento non solo al P., ma anche al D., sono state indicate le ragioni per le quali le censure difensive appaiono inammissibili, dovendosi condividere la decisione dei giudici di merito in punto di affermazione di responsabilità degli imputati in relazione ai fatti di abuso d'ufficio contestati con riferimento alle delibere n. 5 del 18.1.2010 e n. 53 del 6.7.2010.
In particolare valgono anche per il D. le osservazioni già svolte sul dovere di imparzialità che gravava su di lui ai sensi dell'art. 97 Cost., comma 2, e dell'art. 78 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al D.Lgs. 18 agsoto 2000, n. 267, nonchè sulla sussistenza del requisito della doppia ingiustizia e del dolo intenzionale.
Al riguardo può essere opportuno limitarsi ad aggiungere che la mancata astensione del P., impostagli, come si è detto, dalla previsione normativa dell'art. 323 c.p., comma 1, in ordine alla adozione della delibera n. 5 del 18.1.2010, cui parteciparono anche il D., il G. ed il D.G., costituisce ulteriore rilevante elemento di fatto da cui desumere la sussistenza del dolo intenzionale in capo al ricorrente, essendo manifesta la violazione, da parte del sindaco pro-tempore, del dovere di astensione imposto dalla norma incriminatrice, proprio allo scopo di prevenire favoritismi a vantaggio dei prossimi congiunti del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio.
Allo stesso tempo, la consapevole partecipazione del D., del G. e del D.G. alla adozione della delibera n. 5 del 18.1.2010, finalizzata a favorire indebitamente la moglie del P., rafforza il convincimento dei giudici di merito circa la configurabilità del dolo intenzionale in capo ai suddetti D., G. e D.G. anche con riferimento al fatto di abuso d'ufficio relativo alla delibera n. 53 del 6.7.2010, posto che la beneficiaria della decisione assunta con tale delibera in violazione del divieto di nuove assunzioni posto dal patto di stabilità, era sempre la P.A..
Manifestamente infondato deve ritenersi l'ultimo motivo di ricorso, formulato in termini peraltro del tutto generici.
Alla data della pronuncia della sentenza di secondo grado il delitto di abuso di ufficio contestato con riferimento alla delibera n. 53 del 6.7.2010 non era ancora estinto per prescrizione, per cui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso del D., cristallizzando il passaggio in giudicato al momento in cui venne messa la sentenza della corte territoriale rende del tutto irrilevante il decorso del termine di prescrizione intervenuto in un momento successivo a tale pronuncia.
7. I ricorsi presentati nell'interesse di G.E. e di N.G., condannati, in qualità di assessori e di componenti della giunta comunale del comune di San Piero Niceto, in relazione ai reati di abuso di ufficio contestati nel capo C), con riferimento alle delibere comunali n. 5 del 18.1.2010 e n. 53 del 6.7.2010, vanno dichiarati inammissibili, in quanto sorretti da motivi manifestamenti infondati, di natura fattuale e generici, perchè acriticamente reiterativi di doglianze disattese dai giudici di merito, con puntuale ed esaustiva motivazione. Anche in questo caso il primo ed il terzo motivo di ricorso riproducono doglianze già esaminate e disattese affrontando le posizioni del P. e del D..
Ragioni di economia redazionale, impongono, pertanto, anche in questo caso di rinviare alle considerazioni già svolte nelle pagine che precedono, in cui, con riferimento non solo al P., ma anche al D. ed agli altri due ricorrenti, sono state indicate le ragioni per le quali le censure difensive appaiono inammissibili, dovendosi condividere la decisione dei giudici di merito in punto di affermazione di responsabilità degli imputati in relazione ai fatti di abuso d'ufficio contestati con riferimento alle delibere n. 5 del 18.1.2010 e n. 53 del 6.7.2010.
La dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi di cui si discute impedisce di rilevare il compiuto decorso del termine di prescrizione del delitto di abuso di ufficio contestato con riferimento alla delibera n. 53 del 6.7.2010, per le ragioni già indicate in sede di esame della posizione del D..
Il secondo motivo di ricorso, infine, con cui, deduce apoditticamente l'insussistenza di un diritto al risarcimento del danno in capo alla costituita parte civile e la mancanza di prova del danno da risarcire, appare del tutto generico, in violazione dell'art. 581 c.p.p., lett. c), che nel dettare, in generale, quindi anche per il ricorso in Cassazione, le regole cui bisogna attenersi nel proporre l'impugnazione, stabilisce che nel relativo atto scritto debbano essere enunciati, tra gli altri, "i motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"; violazione che, ai sensi dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), determina, per l'appunto, l'inammissibilità dell'impugnazione stessa (cfr. Cass., sez. VI, 30.10.2008, n. 47414, rv. 242129; Cass., sez. VI, 21.12.2000, n. 8596, rv. 219087).
8. Pur non essendo stata sollevata alcuna questione sul punto, va rilevato come l'intervenuta modifica legislativa dell'art. 323 c.p., comma 1, che ha parzialmente modificato la struttura oggettiva del reato di abuso d'ufficio, sia irrilevante ai fini della decisione adottata in questa sede.
Il D.L. 16 luglio 2020, n. 76, art. 23, comma 1, conv., con modif., in L. 11 settembre 2020, n. 120, in vigore dal 17 luglio 2020, ha sostituito le parole "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità" alle parole "di norme di legge o di regolamento".
Sicchè attualmente la norma incriminatrice risulta formulata nei seguenti termini: "Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sè o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni".
Tale nuova previsione non modifica le conclusioni cui è pervenuto il Collegio sulla riconducibilità della condotta degli imputati al paradigma normativo di cui all'art. 323 c.p., pur modificato nei termini innanzi evidenziati.
Da un lato, infatti, nessun cambiamento è intervenuto nella costruzione della fattispecie legale, in relazione alla necessità del dolo intenzionale ed alla previsione di uno specifico dovere di astensione in capo ai pubblici ufficiali ed agli incaricati di pubblico servizio; dall'altro, il divieto di procedere ad assunzioni sotto qualsivoglia forma, per esigenze di compatibilità finanziaria, secondo quanto previsto dalle norme del patto di stabilità, D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 242, comma 1 e 2, in relazione all'allegato "B" del punto 6 del D.M. Interni 24 settembre 2009, non ammetteva nessuna valutazione discrezionale da parte dei pubblici ufficiali imputati.
9. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna dei ricorrenti D., G. e D.G., ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere questi ultimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
Il P., invece, in considerazione della parziale fondatezza del suo ricorso non va condannato al pagamento nè delle spese processuali, nè di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende.
I ricorrenti vanno, inoltre condannati, tutti in solido, alla rifusione delle spese di giudizio in favore della parte civile costituita, che si liquidano in complessivi Euro 5000,00, oltre accessori di legge, compensate per un terzo nei confronti di P.F., non essendo stato ritenuto, quest'ultimo, penalmente responsabile del fatto di abuso d'ufficio relativo alla delibera n. 53 del 6.7.2010.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, nei confronti di P.F., limitatamente al reato di abuso d'ufficio riguardante la delibera n. 53 del 6.7.2010, per non aver commesso il fatto ed elimina la relativa pena. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Dichiara, altresì, inammissibili i ricorsi dei restanti imputati, che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro temila in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di parte civile, liquidate in complessivi Euro 5000,00, oltre accessori, compensate per un terzo nei confronti di P.F..
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2020.
Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2020