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Abuso d'ufficio: l'ingiustizia del danno può consistere anche nella lesione di diritti politici


Corte di Cassazione

La massima

In tema di abuso d'ufficio, l'ingiustizia del danno può consistere anche nella lesione di diritti politici conseguente alla violazione dei doveri di imparzialità e terzietà del pubblico ufficiale. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza di condanna del sindaco che, assunta la presidenza della seduta del consiglio comunale che doveva esaminare una mozione di minoranza mirata a sollecitare la costituzione di parte civile del Comune in un processo a suo carico, aveva omesso di astenersi ed, in seguito, sospeso e sciolto la seduta.



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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. fer. , 25/08/2020 , n. 32174

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d'appello di Cagliari ha confermato la sentenza emessa in data 27/04/2018 dal Tribunale di Cagliari con cui D.A. è stato condannato alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione per il reato di cui all'art. 323 c.p. per avere in qualità di sindaco del Comune di Domusnovas, avendo assunto la presidenza della seduta del Consiglio Comunale che doveva esaminare, tra gli altri temi all'ordine del giorno, la mozione presentata dai consiglieri di minoranza volta a sollecitare la costituzione di parte civile del Comune nel processo nei confronti dello stesso sindaco D., omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio, con la condotta consistita nel sospendere e poi sciogliere la seduta stessa, cagionava ai consiglieri presentatori della mozione ed al Comune di Domusnovas l'ingiusto danno consistito nell'impedire che il Consiglio Comunale discutesse e si pronunciasse sulla anzidetta mozione ai fini della successiva costituzione di parte civile nel processo pendente nei suoi confronti per i reati di maltrattamenti, violenza sessuale e concussione in danno di dipendenti del Comune stesso (in data 15/10/2012).


2. Tramite i propri difensori di fiducia, D.A. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.


2.1. Con il primo motivo si deduce vizio della motivazione e violazione di legge per avere la Corte di appello, in violazione degli artt. 323 e 78 T.U.E.L., ritenuto gravante sul ricorrente l'obbligo di astensione ed avere omesso di valutare gli specifici rilievi addotti al riguardo con i motivi di appello.


Più specificamente lamenta il ricorrente:


- l'erronea qualificazione come "mozione" anzichè come "interrogazione" della istanza dei consiglieri di minoranza, tenuto conto che l'oggetto della decisione non rientrava nelle materie di competenza del Consiglio Comunale ma in quelle proprie della Giunta cui spettava ex art. 30 dello Statuto Comunale deliberare in materia di liti attive e passive, e dovendo prevalere la natura dell'atto rispetto al nomen juris dato alla richiesta dai consiglieri, rilevato che l'art. 19 del regolamento consiliare espressamente stabilisce che la mozione implica "una proposta concreta di deliberazione inerente le materie proprie del Consiglio Comunale";


- l'insussistenza di un dovere di astensione del D., poichè,non trattandosi di una mozione non sussisteva il diritto della minoranza alla discussione e votazione;


- l'assenza del dovere di astensione discenderebbe dalla natura prettamente politica del tema del dibattito cheiessendo attinente ad un atto di mero indirizzo politico, che presupponeva una deliberazione di competenza di altro organo, non avrebbe potuto esplicare alcun effetto di rilievo giuridico nella sfera dei destinatari (ovvero nei confronti del sindaco quale imputato nel processo in cui il Comune avrebbe dovuto costituirsi parte civile), come tale anche inidoneo a cagionare un danno ingiusto o a consentire l'acquisizione di un ingiusto profitto;


alcuna lesione dei diritti della minoranza era rilevabile con riferimento ad una decisione del presidente del Consiglio che avesse negato la discussione e votazione di una decisione che non rientrava nelle competenze di detto organo;


erronea interpretazione del contenuto precettivo dell'art. 78 TUEL che, nel regolare l'obbligo di astensione degli amministratori locali, avrebbe come presupposto l'adozione di delibere non di mero indirizzo politico, come intesa dalla Corte di appello quella di competenza del Consiglio comunale nel caso di specie, ma solo le delibere rivolte ad adottare decisioni in grado di incidere direttamente sulla sfera giuridica dei destinatari;


erronea applicazione dell'art. 323 c.p. per essere il reato di abuso di ufficio configurabile solo con riferimento ad atti amministrativi esterni e non ad atti del procedimento amministrativo privi di rilevanza esterna, cui possono assimilarsi gli atti di mero impulso politico come quello rilevato nel caso di specie, essendo tali atti inidonei ad arrecare un danno o un ingiusto profitto.


2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio della motivazione in merito al requisito della c.d. doppia ingiustizia, che è stato ravvisato erroneamente dalla corte territoriale poichè alla violazione dell'obbligo di astensione si è aggiunta la lesione dei diritti dei consiglieri di minoranza (Mullano e St.), compressi illegittimamente insieme al danno arrecato al Comune come ente, per essere stata impedita la discussione e votazione del tema oggetto della mozione di minoranza.


Lamenta nello specifico il ricorrente due diversi profili, uno afferente la ricostruzione del fatto e l'altro una questione di diritto, che così si possono sintetizzare:


a) la Corte di appello non ha verificato, incorrendo in un travisamento del fatto, che dalla registrazione della seduta consiliare e dal relativo verbale e dalle dichiarazioni di svariati testimoni emergeva che la deliberazione era stata posta all'ordine del giorno, pur se non rientrava nelle competenze del Consiglio, ed era stata comunque aperta la discussione, essendo stato consentito al consigliere M. di illustrarla, mentre la sospensione della seduta era stata determinata dalle intemperanze dell'altro consigliere St., che aveva preteso di parlare senza esserne stato autorizzato dal presidente.


b) la compressione delle prerogative della minoranza era comunque giustificata perchè la decisione sollecitata dalle stesse (la costituzione di parte civile del Comune) non rientrava nelle materie di competenza del Consiglio comunale, e quindi non poteva essere ritenuta di per sè "ingiusta", escludendosi con ciò la ingiustizia del danno che per costante giurisprudenza di legittimità deve essere tale in sè e non come riflesso della violazione di legge ravvisabile nella condotta posta in essere da parte del pubblico ufficiale.


2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in merito all'elemento del dolo intenzionale, richiesto per la configurabilità del reato in esame. Rileva il ricorrente nello specifico:


- la Corte di appellofavendo espressamente affermato che la finalità del ricorrente era quella di scongiurare una discussione sgradita sul suo caso, e quindi non certo di perseguire un interesse pubblico, avrebbe contraddittoriamente ravvisato il dolo intenzionale anche rispetto al diverso scopo, in cui si sarebbe concretizzato il danno ingiusto, ovvero quello di impedire ai consiglieri di minoranza di esercitare i propri diritti ritenuti di rango costituzionale, della discussione e votazione della mozione da essi proposta. In tal modo sarebbe stato violato il principio di diritto secondo cui il richiesto dolo intenzionale presuppone "la rappresentazione e la volizione dell'evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito" (Cass. Sez. 2, 14/06/2012, n. 26625) e che detto evento di danno costituisca obiettivo diretto della condotta e "...non risulti realizzato come risultato accessorio di questa" (Cass. Sez. 6, 17/11/2009, n. 4979);


- la Corte avrebbe poi travisato le risultanze istruttorie affermando che il ricorrente aveva predisposto insieme ai consiglieri di maggioranza il documento con cui veniva data risposta scritta alla mozione presentata dai consiglieri di minoranza e con cui la maggioranza si era già espressa contro l'accoglimento della mozione di minoranza, come si evincerebbe dalle trascrizioni delle deposizioni testimoniali rese dai testi V.M. e Mo.Ma., allegate al ricorso, che escludono che tale documento sia stato frutto di una iniziativa del Sindaco, e che è stato invece utilizzato come argomento di prova a riscontro della sussistenza del dolo intenzionalmente diretto a comprimere la discussione della mozione medesima.


- si ribadisce, di nuovo in fatto, che la discussione è stata sospesa legittimamente per le intemperanze delle minoranze ed a causa della bagarre che si era creata in aula come riferito dal teste Secci, segretario comunale (di cui si allega la trascrizione della deposizione testimoniale).


2.4. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione in merito alla sussistenza di un errore su norma extra-penale come errore di fatto idoneo ad escludere il dolo sulla base del travisamento della testimonianza resa da S.M.C..


Il ricorrente si duole che la Corte non abbia apprezzato tale errore affermando che il sindaco non sarebbe stato indotto a tale sua decisione dal parere del segretario comunale S.M.C., avendo costei negato di avere avuto alcuna interlocuzione al riguardo con il sindaco, che avrebbe perciò agito di propria iniziativa, senza consultarla.


Al contrario dalla deposizione resa dalla teste S. emerge che la stessa ha invece affermato che a suo giudizio non esisteva un obbligo di astensione da parte del sindaco, anche se vi era solo una ragione di opportunità, ma ha negato di aver mai detto al sindaco della necessità di ammettere la discussione e la votazione della mozione.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Tutti i motivi di ricorso sono inammissibili perchè ripropongono questioni già adeguatamente affrontate con argomentazioni ineccepibili nel giudizio di merito, con censure che, seppure afferenti anche l'interpretazione di norme penali ed extra-penaliy non evidenziano alcun profilo di dubbia o problematica soluzione sia per la genericità delle doglianze che per la palese e manifesta infondatezza delle prospettazioni difensive.


In via preliminare, deve farsi un breve cenno alla modifica normativa dell'art. 323 c.p. introdotta di recente dal D.L. 16 luglio 2020, n. 76, in attesa di conversione, ma unicamente e solo per quanto serve ad evidenziarne la totale ininfluenza rispetto al caso qui in decisione.


Per effetto di tale modifica, nel testo dell'art. 323 c.p. le parole "in violazione di norme di legge e di regolamento" sono state sostituite dalle seguenti: "in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".


Si tratta di una modifica che investe solo uno dei due segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio che punisce con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne disciplinano l'esercizio e sia quella, del medesimo soggetto qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti.


Per effetto di tale modifica l'abuso di ufficio nella prima opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di "regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge", cioè da fonti primarie, con esclusione dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna discrezionalità amministrativa.


Ma siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non dovessero intervenire ulteriori modifiche in sede di conversione, e sebbene medio tempore abbia notevolmente ristretto l'ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d'ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 2, non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l'inosservanza dell'obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione.


Nel caso di specie, pertanto, vertendosi nell'ipotesi di un abuso di ufficio riferito alla specifica violazione dell'obbligo di astensione, la modifica normativa non produce alcun effetto, permanendo la rilevanza penale della condotta in esame anche rispetto alla violazione dell'art. 78 del T.U.E.L. oltre che del precetto contenuto nella stessa norma penale.


2. Passando ora, più nello specifico, all'esame dei motivi di ricorso si deve rilevareiquanto al primo motivo, la manifesta infondatezza della dedotta violazione dell'art. 323 c.p. e art. 78 T.U.E.L., poichè entrambe le norme prevedono l'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio nella decisione da assumere, sia pure con un diverso ambito applicativo di riferimento.


Più precisamente l'art. 323 c.p. nel descrivere la condotta del delitto di abuso d'ufficio stabilisce, con norma immediatamente precettiva, che vi è l'obbligo di astenersi per il soggetto attivo del reato, sia esso pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, "in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto", oltre poi a prevedere, "negli altri casi prescritti", il rinvio ad altre disposizioni normative extra-penali che impongano il medesimo obbligo.


L'art. 78, comma 2, T.U.E.L. prevede per gli amministratori - nella cui nozione rientrano anche il presidente del Consiglio comunale ed il sindaco per come specificato dall'art. 77, comma 2, del medesimo testo normativo - che gli stessi "devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado.


La stessa disposizione chiarisce e specifica, inoltre, che "L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado".


La questione circa l'erronea qualificazione come "mozione" anzichè come "interrogazione" della istanza dei consiglieri di minoranza, sul rilievo che l'oggetto della decisione non rientrava nelle materie di competenza del Consiglio Comunale ma in quelle proprie della Giunta cui spettava ex art. 30 dello Statuto Comunale deliberare in materia di liti attive e passive, è manifestamente infondata oltre che irrilevante per le ragioni indicate tanto dal giudice di primo grado che dalla Corte di appello.


Il rilievo del ricorrente che l'art. 19 del regolamento consiliare espressamente stabilisce che la mozione implica "una proposta concreta di deliberazione inerente le materie proprie del Consiglio Comunale" è del tutto inconferente, atteso che) dalla ricostruzione dei verbali della seduta è emerso pacificamente che la decisione su cui verteva la mozione non era quella di deliberare la costituzione di parte civile del Comune interessato (pacificamente rimessa alla Giunta), ma la decisione della opportunità di dare un indirizzo politico alla decisione di competenza della Giunta, ovvero di sollecitarla a disporre la costituzione di parte civile, quindi una deliberazione di impulso delle decisioni di competenza della Giunta, che rientrava senza dubbio alcuno tra le attribuzioni del Consiglio Comunale che è per legge organo di indirizzo politico.


In ogni caso, come già evidenziato nella sentenza impugnata, la decisione una mozione, una volta ammessa all'ordine del giorno delle decisioni del Consiglio Comunale andava affrontata senza la partecipazione del sindaco, parte in causa, che avrebbe dovuto astenersi.


3. Manifestamente infondata è anche l'interpretazione invocata dal ricorrente che restringe l'ambito del dovere di astensione alle delibere relative ad atti "esterni", produttivi di effetti giuridici sulla sfera dei destinatari.


La normativa sopra richiamata (art. 78 TUEL), come correttamente rilevato dalla Corte di appello, riguarda ogni Delib. con le sole eccezioni ivi indicate (delibere relative ad atti generali ed astratti).


Quindi, il sindaco, come parte direttamente e personalmente interessata dalla decisione relativa alla valutazione circa l'opportunità del Comune di costituirsi parte civile nel processo penale pendente a suo carico, doveva senz'altro astenersi dal partecipare alla seduta nel momento in cui veniva trattata la specifica mozione di minoranza messa all'ordine del giorno.


Come affermato ed accertato nel giudizio di merito, il D.)anzichè astenersi dal presiedere la seduta del consiglio, affidandone la direzione ad altri, ha utilizzato la sua posizione di presidente della seduta per interrompere ed impedire la discussione e la votazione della mozione, con ciò abusando dei relativi poteri connessi a detta veste pubblica.


Le altre questioni dedotte con riferimento alla natura politica della decisione da prendere e della sua inidoneità ad incidere sulla costituzione di parte civile, perchè di spettanza di altro organo del Comune, sono palesemente irrilevanti, trattandosi di argomentazioni calibrate rispetto ad una fattispecie del tutto diversa da quella considerata nel giudizio di condanna e prima ancora nella imputazione contestata al ricorrente.


L'effetto di rilievo giuridico nella sfera dei destinatari oggetto dell'imputazione non è quello riguardante il sindaco, imputato nel processo in cui il Comune avrebbe dovuto costituirsi parte civile, e che poteva scaturire dalla decisione di competenza della Giunta (organo della maggioranza), ma quello prodotto dalla indebita attività svolta come presidente del Consiglio Comunale, che il sindaco ha proseguito a svolgere invece di astenersi, arrecando il danno ravvisato nell'impedire ai consiglieri di minoranza l'esercizio del diritto di mettere ai voti la loro mozione.


Quindi, il danno ingiusto prodotto dalla condotta illegittima del presidente del Consiglio Comunale, considerato rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio, prescinde totalmente nel caso in esame dalla decisione (ipotetica ed eventuale) circa la costituzione di parte civile del Comune.


In altre parole, per come coerentemente già evidenziato nel giudizio di merito, il danno ingiusto considerato nella imputazione non si correla alla mancata costituzione di parte civile nel processo penale a carico del sindaco, ma più semplicemente alla lesione delle prerogative della minoranza.


Giova, inoltre, rammentare per completezza che secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità il reato di abuso di ufficio, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, è configurabile anche con riferimento ad atti del procedimento amministrativo privi di rilevanza esterna (come per i pareri anche non vincolanti), cui possono assimilarsi gli atti di mero impulso politico come quello rilevato nel caso di specie, essendo tali atti idonei ad arrecare un danno o un ingiusto profitto, attraverso il concorso nell'atto esterno.


Questa Corte di cassazione (Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016, Menna, Rv. 269820) ha già affermato che la fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (fattispecie relativa all'illegittimo rilascio di una autorizzazione per la realizzazione di un alloggio abitativo antisismico temporaneo, la cui istruttoria era stata illecitamente svolta da un professionista esterno che sostituiva il tecnico comunale, mentre il relativo titolo edilizio era stato emesso dal sindaco).


Ma si tratta, come già osservato, di una questione non pertinente al caso in esame.


In questo caso il danno non si correla all'atto di indirizzo politico che è stato omesso, atteso che la mozione non è stata neppure messa ai voti.


Pertanto, non è pertinente al caso concreto neppure la questione della partecipazione al voto da parte del consigliere interessato personalmente dalla Delib. che abbia prodotto l'effetto ingiusto a lui favorevole - ravvisato nel mancato impulso alla costituzione di parte civile del Comune nel processo a suo caricar perchè l'evento-danno conseguente alla condotta illegittima del Sindaco che è oggetto del giudizio di responsabilità nel presente procedimento, è un altro, ed attiene alla decisione del presidente del consiglio comunale di sospendere la seduta e bloccare la decisione sulla mozione, quindi riguarda il danno arrecato attraverso la lesione dei diritti della minoranza, correlati alla presentazione della mozione ed alla conseguente legittima pretesa di iniziare e chiudere la discussione con la votazione finale.


Va anche osservato, avendone fatto cenno la difesa nel corso della discussione, che non è assolutamente pertinente al caso in esame neppure il condivisibile orientamento di legittimità (Sez. 6, n. 17628 del 12/02/2003, Pinto, Rv. 224683), che qui si ribadisce, secondo cui/perchè si configuri il delitto di abuso di ufficio di cui all'art. 323 c.p.,non è sufficiente che il pubblico ufficiale abbia emesso un atto violando il proprio dovere di astensione, ma è necessario che tale atto abbia arrecato o un indebito vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno anche non di carattere patrimoniale; poichè, se l'atto è invece conforme al trattamento riservato a tutte le altre istanze di identico contenuto presentate dagli altri cittadini, esso non è idoneo a configurare l'illecito nonostante la violazione dell'obbligo di astensione (fattispecie relativa al Sindaco che in violazione al dovere di astensione riconosceva all'istanza di sospensione di pagamento presentata dalla moglie l'esenzione dall'imposta di bollo conformemente a tutte le altre istanze presentate da altri cittadini).


Orientamento che è stato di recente ribadito (Sez. 6, n. 12075 del 06/02/2020, Stefanelli, Rv. 278723) con riferimento al caso di un sindaco che aveva preso parte alla Delib. di giunta di riconoscimento di un debito fuori bilancio in favore di un'impresa, dalla quale era stato convenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 191 T.U.E.L., per il soddisfacimento di un credito derivante dall'effettiva esecuzione di lavori pubblici, risultati utili per il comune.


Nel caso in esame è, invece, evidente come alla violazione dell'obbligo di astensione abbia fatto seguito anche l'ingiustizia del danno arrecato, attraverso l'indebito esercizio del potere di sospendere la seduta del consiglio, impedendo in tal modo che i consiglieri di minoranza potessero discutere prima e poi votare la mozione ritualmente messa all'ordine del giorno nel corso di quella medesima seduta.


4. Manifestamente infondato, per quanto già detto, è anche il secondo ordine di motivi in merito al requisito della c.d. doppia ingiustizia, che il ricorrente ha posto al centro delle proprie censure sempre riproponendo il medesimo argomento correlato alla negazione della violazione dell'obbligo di astensione sulla base dell'erroneo rilievo che la decisione sollecitata dalle minoranze (la costituzione di parte civile del Comune) non rientrasse nelle materie di competenza del consiglio comunale.


La compressione dei diritti della minoranza costituisce, invece, per come già sopra illustrato, la ulteriore violazione che connota come "ingiusto" il danno arrecato ai consiglieri che avevano richiesto ed ottenuto che la questione venisse discussa e votata dal consiglio comunale nel rispetto delle forme che disciplinano l'istituto della mozione.


In particolare il presidente, sospendendo la discussione in violazione della norma regolamentare consiliare (nella sentenza impugnata si indica l'art. 19 del regolamento del consiglio comunale che disciplina la mozione e che prevede che la mozione debba essere messa ai voti e discussa entro trenta giorni), ha cagionato l'ingiusto evento costituito dal mancato svolgimento della discussione e della votazione della predetta mozione.


In merito al profilo della censura che investe la ricostruzione del fatto, si osserva che il dedotto vizio della motivazione per travisamento del fatto è articolato in modo palesemente inammissibile.


La circostanza che l'interruzione della seduta sia stata determinata dal comportamento antigiuridico tenuto dal sindaco che, a fronte delle legittime rimostranze dei consiglieri di minoranza rispetto al suo obbligo di astenersi, ha reagito togliendo loro la parola e provocando le loro legittime proteste poi confluite nello scioglimento della seduta, è stata affermata concordemente nei due gradi di giudizio sulla base della complessiva valutazione delle testimonianze assunte, rispetto alle quali il ricorrente ha contrapposto la ricostruzione di parte seguita dai testi a discarico (in particolare i testi Mo., V. e S.), alla quale non è stato dato motivatamente credito, essendo stata ritenuta più coerente allo svolgimento dei fatti la ricostruzione della seduta fornita dagli altri testi escussi, tenuto conto della evidente e manifesta violazione in cui era incorso il sindaco non astenendosi dal presiedere la seduta di quel consiglio comunale (i testi M., St., Sa., F.).


La tesi dell'interruzione imposta dalle intemperanze dei consiglieri di minoranza è stata quindi ritenuta non plausibile a fronte della situazione di conflitto di interesse che avrebbe imposto al sindaco di astenersi e che ha trovato riscontro nell'annullamento da parte del TAR Sardegna della sanzione dell'interdizione a partecipare ai lavori del consiglio comunale che il D., in qualità di presidente del Consiglio Comunale, aveva applicato al consigliere di minoranza St. in relazione a quanto accaduto nel corso della seduta del 15/10/2012.


Le censure di travisamento sono, pertanto, inammissibili, perchè articolate in modo parziale dando risalto solo alle dichiarazioni dei testi a discarico, senza prendere in considerazione la totalità delle altre deposizioni testimoniali sulle quali è stata basata la ricostruzione da parte dei giudici di merito.


Si risolvono, quindi, in mere censure "in fatto", del tutto inidonee a sostenere il vizio di motivazione per travisamento della prova, deducibile ex art. 606 c.p.p. ma che si realizza nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tale ipotesi, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma solo di verificare se detti elementi sussistano o meno.


Diversamente non ricorre il vizio di "travisamento della prova ", allorchè si censuri, come nel caso in esame, la valutazione delle prove che il giudice di merito abbia operato nel raffronto tra testimonianze tra loro contrastanti, nel predicare come attendibili solo alcune di esse in palese contrapposizione alla valutazione difforme fatta dal giudice, attraverso una errata assimilazione del travisamento del fatto al travisamento della prova, senza cioè che sia stata indicata la tangibile e specifica difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto.


Analoghe considerazioni valgono anche per le censure rivolte a supportare l'altro dedotto travisamento, relativo alla vicenda del documento sottoscritto dalla maggioranza contraria alla approvazione della mozione, che non assume alcun rilievo decisivo nella motivazione della sentenza impugnata.


Invero, anche se il documento, che è stato pacificamente sottoscritto dal sindaco, non fosse stato da lui predisposto, la valutazione della rilevanza del fatto non muta, perchè lo scopo di questo documento, per come valorizzato ed apprezzato nel giudizio di merito, era soltanto quello di scoraggiare la discussione della mozione, dando prova della compattezza politica della maggioranza a sostegno del sindaco, con la conseguente totale irrilevanza della circostanza se il sindaco ne fosse stato o meno il promotore e non solo uno dei sottoscrittori.


5. A chiusura dell'argomento qui trattato, si deve rammentare che la


ingiustizia del danno può senz'altro essere ravvisata anche rispetto alla lesione di diritti politici, come avvenuto nel caso di specie, la cui lesione trova peraltro una specifica e più generale tutela penale nei delitti contro i diritti politici del cittadino di cui al capo III del Titolo I del codice penale ed in particolare nel delitto previsto dall'art. 294 c.p., ma che al di fuori di detta ipotesi, può assumere rilevanza penale, nella specie del delitto di abuso di ufficio, quando tale lesione consegua ad una violazione dei doveri di imparzialità e terzietà che connotano l'esercizio dei poteri dei pubblici ufficiali, in presenza degli altri presupposti della condotta afferenti il dolo intenzionale richiesto per l'integrazione del delitto punito dall'art. 323 c.p..


Al riguardo appare opportuno richiamare a supporto di quanto si intende qui affermare, un precedente di legittimità, seppure non recente, che ha già ravvisato la ingiustizia del danno nella lesione del diritto della minoranza con riferimento al caso di un sindaco che, in violazione del R.D. 4 febbraio 1915, n. 148, art. 127 e disattendendo specifiche e reiterate richieste della minoranza consiliare, aveva disposto sistematicamente la riunione del consiglio comunale in unica convocazione, anzichè fissare, per la seconda convocazione, come prescritto, un diverso giorno e, in tal modo, ritenendo sempre applicabile il più elevato "quorum" di presenze richiesto per la validità della prima convocazione, aveva impedito, mediante l'allontanamento dei consiglieri di maggioranza, il raggiungimento di detto "quorum" e, pertanto, la possibilità di adottare delibere (Sez. 6, n. 2173 del 30/11/1998, Parisi, Rv. 212943).


6. Manifestamente infondato è il terzo motivo dedotto in merito all'elemento del dolo intenzionale.


La sua inammissibilità, per la parte che contesta il fatto assumendo che la sospensione della seduta è stata determinata dalla bagarre provocata dalle intemperanze delle minoranze, è stata già ampiamente esaminata.


La questione in diritto è inammissibile per manifesta infondatezza perchè i due pretesi diversi eventi, interruzione della discussione sgradita, da un lato, e lesione dei diritti della minoranza alla votazione della mozione, dall'altro, oltre ad essere indissolubilmente legati tra loro, afferiscono al medesimo evento naturalistico.


L'evento in cui si è concretizzato il danno ingiusto, ovvero quello di avere impedito ai consiglieri di minoranza di esercitare i propri diritti politici di rango costituzionale, della discussione e votazione della mozione da essi proposta, coincide con l'obiettivo diretto della condotta che è stato ravvisato proprio nella finalità di non fare parlare la minoranza su una tematica sgradita al sindaco.


Quindi si tratta dello stesso evento e non di due eventi diversi, l'uno accessorio dell'altro.


Il ricorrente confonde l'evento inteso in senso giuridico (offesa dell'interesse protetto dalla norma, ovvero la tutela dei diritti di minoranza) con l'evento materiale, che è unico, e si è concretizzato con la interruzione della discussione.


Il dolo intenzionale, richiesto per la integrazione del delitto di abuso d'ufficio, va necessariamente rapportato all'evento-danno inteso in senso materiale, che vi sia poi, anche la volontà di ledere il diritto della minoranza, tale aspetto afferisce alla "colpevolezza", intesa come volontà e consapevolezza anche della lesione dell'interesse protetto dalla norma di legge violata attraverso la condotta diretta a realizzare l'unico evento materiale, obiettivo della volontà riferita alla condotta materiale.


In altri termini, come chiarito nella sentenza impugnata, la chiusura del dibattito della mozione senza votazione ha rappresentato l'obiettivo avuto di mira dall'imputato, per il personale interesse di evitare un dibattito ad esso sgradito.


Mentre la tesi dottrinale della colpevolezza, intesa come coscienza dell'antigiuridicità del fatto, non trova fondamento nel diritto positivo, in cui l'errore di diritto rileva come causa che esclude il dolo solo nei limitati casi in cui si traduca in un errore di fatto incolpevole.


Deve concludersi, pertanto, che la sentenza impugnata, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati in sede di legittimità in tema di dolo intenzionale richiesto per l'integrazione del delitto di abuso d'ufficio.


7. Manifestamente infondato è, infine, anche il quarto ed ultimo motivo in merito alla questione dell'errore su norma extra penale come errore di fatto idoneo ad escludere il dolo, argomentato sulla base del dedotto travisamento della testimonianza resa da S.M.C..


Il ricorrente si duole che la Corte d'appello non abbia apprezzato tale errore affermando che il sindaco non sarebbe stato indotto alla sua illegittima decisione di non astenersi dal parere del segretario comunale S.M.C., avendo costei negato di avere avuto una qualsivoglia interlocuzione al riguardo con il sindaco, che avrebbe perciò agito di propria iniziativa, senza consultarla.


Al contrario, dalla deposizione resa dalla teste S. emergerebbe, secondo l'assunto del ricorrente, che la stessa ha invece affermato che a suo giudizio non esisteva un obbligo di astensione da parte del sindaco, anche se vi era solo una ragione di opportunità, ma che ha negato di avere mai detto al sindaco della necessità di ammettere la discussione e la votazione della mozione.


E' palese la inconsistenza del motivo di censura come articolato dal ricorrente, che mira a confondere l'aspetto della difforme valutazione operata in fatto dal giudice con la prospettazione di una tesi alternativa, che non evidenzia alcun travisamento obiettivo del dato probatorio utilizzato dal giudice di merito.


Il dato di fatto che è stato apprezzato dal giudice, ovvero che il sindaco non sia stato indotto in errore dal parere qualificato del segretario comunale S.M.C., non è affatto contraddetto dal ricorrente che piuttosto evidenzia, sotto altro e diverso profilo, che il sindaco neppure sia stato informato da detto segretario della necessità di ammettere la discussione e la votazione della mozione.


Quindi che il sindaco, abbia agito di propria iniziativa, senza consultare il segretario comunale, rappresenta un dato incontrovertibile, ma che il ricorrente assume rilevante per basare la propria differente conclusione rispetto a quella cui è pervenuto il giudice di merito.


Secondo la tesi sostenuta dal giudice di merito, invece, il sindaco ha agito improvvisamente senza consultarsi e, quindi, senza neppure essere convinto che fosse lecita la sua partecipazione alla seduta con il ruolo di presidente, perchè il segretario comunale non lo ha in alcun modo consigliato, neppure per comunicargli quella che era la sua opinione personale, ovvero che avrebbe potuto partecipare alla seduta senza astenersi, dovendosi solo astenere dal voto.


Peraltro, opinione personale del segretario comunale in palese contrasto con il disposto dell'art. 78 TUEL che sancisce l'obbligo di astenersi anche dalla discussione.


Quindi, come rilevato dalla Corte di appello, quella del segretario comunale era una opinione sbagliata, ma che non ha assunto alcuna rilevanza nella decisione del sindaco, non potendo averlo condizionato perchè non è mai stata oggetto di interlocuzione tra i due.


Il ricorrente attraverso un artificio dialettico ribalta il ragionamento valorizzando il dato che la teste ha comunque anche negato di aver mai detto al sindaco che era vincolato per legge ad ammettere la discussione e la votazione della mozione.


Ma si tratta di una circostanza palesemente irrilevante perchè oltre a non supportare affatto la tesi che il sindaco possa essere incorso in un errore sulla legga extra penale (ovvero sull'art. 78 T.U.E.L.), essendo onere dell'imputato dimostrare di essere stato indotto in errore, neppure consente di ravvisare il dedotto travisamento della prova, che presuppone la tangibile e specifica difformità tra il senso intrinseco della singola dichiarazione assunta e quello che il giudice ne abbia inopinatamente tratto.


La corte territoriale, con argomenti logici ineccepibili, ha illustrato le ragioni per cui, trattandosi di un errore di diritto macroscopico, non fosse ipotizzabile un errore incolpevole sulla legge extra-penale idoneo ad escludere il dolo.


8. In conclusione, la manifesta infondatezza e la estraneità di tutte le censure articolate dal ricorrente al novero dei motivi consentiti in sede di legittimità impongono la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.


Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene congruo determinare in tremila Euro.


Segue, per legge, inoltre la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio in favore delle parti civili costituite che si liquidano come in dispositivo nei confronti di St.An. e che saranno liquidate nei confronti di M.R., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di Appello di Cagliari con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 disponendone il pagamento in favore dello Stato.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile St.An. che liquida in Euro tremila, oltre accessori di legge, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile M.R., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di Appello di Cagliari con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83 disponendo il pagamento in favore dello Stato.


Così deciso in Roma, il 25 agosto 2020.


Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2020

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