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Abuso d'ufficio: non può configurarsi il concorso con il reato di atto contrario ai doveri d'ufficio


Corte di Cassazione

La massima

Il reato di abuso d'ufficio (art. 323 cod. pen.) e quello di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (art. 319 cod. pen.), non possono formalmente concorrere fra loro giacché, quando il vantaggio economico del pubblico ufficiale sia da questi conseguito in dipendenza di un'erogazione altrui e di un proprio comportamento, attivo od omissivo, contrario ai doveri d'ufficio, trova applicazione, per il principio di specialità, la più grave delle due figure criminose in questione, e cioè quella della corruzione, caratterizzata, rispetto all'altra, dalla presenza del soggetto erogatore di un'utilità collegata da nesso teleologico al suindicato comportamento del pubblico ufficiale.

Fonte: CED Cassazione Penale 2019



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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 24/11/2016 , n. 4459

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 29 maggio 2015 la Corte d'appello di Perugia ha parzialmente riformato la decisione di primo grado - che all'esito di giudizio abbreviato aveva ritenuto S.G., St.Al. e P.M. responsabili per il concorso in una serie di episodi di corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio posti in essere da F.S. nella sua qualità di medico incaricato presso la Casa di reclusione di Spoleto - assolvendo il F. e S.G. dal reato loro ascritto sub H) perchè il fatto non sussiste, riqualificando il reato contestato al F. e a P.M. sub F) ai sensi dell'art. 318 c.p. e rideterminando inoltre le pene irrogate al F. in anni tre e mesi sei di reclusione, allo S. in anni due, mesi undici e giorni dieci di reclusione ed al P. in un anno di reclusione.


La Corte d'appello, infine, ha dichiarato inammissibile l'appello proposto dal P.M. presso il Tribunale di Spoleto e rigettato la richiesta di revoca del sequestro conservativo, confermando nel resto l'impugnata sentenza.


2. Avverso la su indicata pronunzia hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di F.S., deducendo quattro motivi di doglianza.


2.1. Con il primo motivo si deducono l'erronea applicazione della legge penale e vizi di manifesta illogicità della motivazione in relazione alla qualificazione giuridica di corruzione "propria" attribuita ai fatti contestati nei capi sub A), B), C), D), E) e G), che avrebbero dovuto ricondursi alla diversa e meno grave previsione di corruzione "impropria" di cui all'art. 318 c.p., per avere la Corte d'appello riferito la nozione di dovere d'ufficio ai generici canoni di esercizio della discrezionalità amministrativa (imparzialità, onestà e correttezza nello svolgimento della pubblica funzione), senza considerare che la precedenza temporale accordata alla trattazione di una pratica rispetto ad altre non può integrare, di per sè, il delitto di corruzione propria, poichè non realizza alcuna sostanziale alterazione della par condicio, nè una reiterata e indebitamente retribuita prescrizione di esami medici nei confronti di detenuti la cui pregressa storia clinica risultava comunque contrassegnata da particolari patologie può dirsi contraria ai doveri d'ufficio, poichè è compito del medico penitenziario assicurarsi costantemente della idoneità psico-fisica del paziente alla sua condizione di reclusione, indipendentemente dalla circostanza per cui l'attività del direttore sanitario del carcere sia influenzata dall'intenzione del detenuto di ottenere benefici penitenziari (tanto è vero che una circolare ministeriale individua, tra i doveri del direttore sanitario delle Case circondariali, quello di effettuare frequenti e periodici riscontri della salute dei detenuti). In alcuni casi (capi sub E) e C), peraltro, è stato provato che - anche in assenza di un patto corruttivo - solo l'adozione di un atto identico, per contenuto e modalità, a quello posto in essere dal F. avrebbe consentito di scoprire gravissime forme di patologia (come, ad es., l'inizio di una semicecità conseguente ad una pregressa e già nota forma grave di diabete), con la conseguente esigenza di ricondurre l'intera vicenda ai caratteri della corruzione impropria. Nel caso in esame, dunque, la Corte ha preteso di ricavare la contrarietà ai doveri d'ufficio dalla violazione di canoni e principi generali di esercizio della discrezionalità amministrativa, senza individuare alcuna specifica norma di legge o prassi interna o direttiva idonea a identificare, sul piano funzionale, un preciso dovere d'ufficio.


2.2. Con il secondo motivo si deducono vizi della motivazione con riferimento alla censura di omessa riqualificazione giuridica, ai sensi dell'art. 323 c.p., di tutti i reati contestati all'imputato, censura dalla difesa sollevata nell'atto di appello principale, ma dalla Corte d'appello non specificamente affrontata, sebbene il fatto di avere identificato la contrarietà ai doveri d'ufficio a prescindere dall'individuazione di un atto concreto, ed anche nell'ipotesi di una determinazione volitiva lesiva dei canoni di fedeltà, imparzialità ed onestà che presidiano l'esercizio delle pubbliche funzioni, abbia di fatto descritto non certo la fattispecie di cui all'art. 319 c.p., quanto invece il tipo di reato sanzionato dall'art. 323 c.p., ossia lo sfruttamento privato del pubblico ufficio ovvero del pubblico servizio. Nel caso in esame, al più, la condotta tenuta dall'imputato avrebbe comportato la violazione di un semplice "dovere giuridico" (rinvenibile nel codice deontologico delle professioni mediche e sanitarie) attinente al modo di assolvere il proprio ufficio di medico, ossia una violazione comune a più reati contro la P.A. e sussistente in ogni caso in cui il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio agiscano in ragione di una privata utilità.


2.3. Con il terzo motivo, inoltre, si deducono vizi di manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta inapplicabilità al procedimento in esame dell'art. 270 c.p.p., comma 1, nonchè in relazione alla ritenuta esclusione della eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni ex art. 407 c.p.p., comma 3, atteso che il collegamento reale tra i procedimenti non può essere supportato da generici riferimenti all'ambito delle indagini svolte da altra Autorità giudiziaria, ovvero alla inclusione di presunti fatti corruttivi coinvolgenti il ricorrente nell'oggetto delle conversazioni intrattenute da persone indagate per fatti diversi da parte di altra Autorità. Riguardo all'eccezione proposta ex art. 407 c.p.p., comma 3, si rileva, in particolare, che gli elementi conoscitivi a base delle successive iscrizioni ex art. 335 c.p.p. non hanno di per sè stesse integrato compiute notitiae criminis, ma hanno rappresentato solo lo spunto per ricercare e formare in seguito una compiuta notizia di reato da iscrivere nell'apposito registro, con la conseguenza che gli stessi, pertanto, non potevano essere utilizzati.


2.4. Con il quarto motivo, infine, si deducono vizi di manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla conferma del provvedimento di sequestro conservativo di somme di denaro e beni disposto dal G.u.p. presso il Tribunale di Spoleto in data 30 novembre 2010 in capo al solo imputato F., atteso che le spese di giustizia concernenti le attività d'indagine costituiscono fonte di un'obbligazione solidale il cui dovere di pagamento grava su ogni condannato per l'intero e non pro quota, trattandosi di spese che hanno ad oggetto il procedimento e non la persona, come quelle di mantenimento negli Istituti di pena; nè alcun rilievo possono avere, inoltre, i contesti nei quali vengono espletate le relative attività di indagine.


3. I difensori di S.G. hanno proposto nel suo interesse ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi.


3.1. Con il primo motivo si lamentano l'erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione in punto di affermazione della responsabilità, con riferimento agli artt. 110, 319 e 321 c.p., per quel che attiene alla atipicità della condotta concorsuale di "co-mediatore" attribuita allo S. ex art. 110 c.p. nei capi d'imputazione sub C), G) ed E). Al ricorrente, infatti, si rimprovera, unitamente a tale M.V., di avere sollecitato e/o rassicurato il Direttore sanitario del Carcere di Spoleto, F.S., con la precipua finalità di voler preservare le precarie condizioni di salute di alcuni detenuti, tutti affetti da gravi e invalidanti patologie, senza chiarire, tuttavia, quale sia stato il movente delle relative condotte illecite, non avendo lo S. percepito alcuna utilità o vantaggio, diretto o indiretto, per l'attività asseritamente prestata. La Corte d'appello, in altri termini, si è limitata ad attribuire al ricorrente un ruolo di intermediario necessario, senza riuscire ad individuare gli specifici e determinanti apporti causali, materiali e/o morali, forniti alla consumazione delle condotte contestate nei su indicati temi d'accusa, con la conseguenza che le stesse, al più, potrebbero configurare una forma di mera connivenza non punibile, rimanendo del tutto estranee alla sua sfera di responsabilità.


3.2. Con il secondo motivo, inoltre, si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento all'applicazione degli artt. 49, 110, 319 e 321 c.p., per l'irrilevanza del contributo che il ricorrente avrebbe prestato alla consumazione dei reati: sul punto, infatti, la Corte d'appello non ha tenuto conto delle censure formulate in sede di gravame, ignorando il fatto che la concessione dei benefici penitenziari era manifestamente estranea alle competenze funzionali del F., con la conseguente indisponibilità dell'oggetto del ritenuto pactum sceleris e la conseguente inidoneità dell'azione finalizzata al suo conseguimento.


Il F., dunque, non poteva in alcun modo intromettersi nell'iter procedurale finalizzato a far conseguire benefici ai detenuti: benefici, peraltro, che non risultano, in effetti, mai essere stati conseguiti per il tramite della "intercessione" del predetto Direttore sanitario, e la cui concessione costituisce un profilo strutturalmente autonomo e "neutro" rispetto ai dati clinici dei detenuti.


3.3. Con il terzo motivo si deducono vizi di inosservanza delle su indicate disposizioni di legge, sotto il profilo che gli accertamenti medici e gli esami diagnostici prescritti dal F. configuravano atti dovuti a tutela del primario diritto alla salute delle persone detenute, con la conseguente carenza strutturale dell'atto contrario ai doveri d'ufficio quale elemento indefettibile della fattispecie di cui all'art. 319 c.p., poichè se le richieste dei detenuti risultavano esorbitanti dal perimetro delle legittime aspettative di cura dei pazienti, il Direttore sanitario si rifiutava di assecondare le loro sollecitazioni. Il F., infatti, non poteva sottrarsi dal disporre approfonditi accertamenti diagnostici, nonchè i necessari trattamenti terapeutici, poichè il diritto alla salute dei detenuti, costituzionalmente garantito, non può essere oggetto di discrezionalità amministrativa, nè può essere bilanciato e comparato con altri interessi.


3.4. Con il quarto motivo, infine, si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione con riferimento alla ritenuta insussistenza delle attenuanti generiche e alla configurabilità della contestata recidiva reiterata, non avendo la Corte di merito considerato il ruolo del tutto marginale e atipico di "co-mediatore" al riguardo svolto dallo S..


4. Nell'interesse di P.M. il suo difensore ha proposto ricorso deducendo tre motivi di doglianza.


4.1. Con il primo motivo si eccepiscono, in termini analoghi a quelli già dedotti nel terzo motivo di ricorso del F. (v., supra, il par. 2.3.), vizi di inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali ex art. 270 c.p.p., sul rilievo che, almeno inizialmente, le operazioni di captazione sono avvenute nell'ambito di un diverso procedimento penale, ovvero quello pendente presso l'Autorità giudiziaria milanese, con la conseguenza che gli iniziali, ma anche i successivi (almeno sino alla restituzione degli atti alla Procura della Repubblica di Spoleto), decreti autorizzativi venivano emessi dall'Autorità giudiziaria di Milano nell'ambito di un diverso procedimento (tanto è vero che le operazioni di intercettazione telefonica, una volta che gli atti di indagine sono stati restituiti all'Autorità di Spoleto, sono proseguite, con la conseguenza che il loro antecedente logico e processuale è rinvenibile nell'ambito di altro procedimento).


4.2. Con il secondo motivo si lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione in punto di affermazione della responsabilità, avendo la Corte d'appello sorvolato sull'aspetto inerente alla prova dell'accordo criminoso, senza specificare in qual modo il ricorrente sarebbe intervenuto nella definizione del pactum sceleris, avuto riguardo sia alla marginalità della sua posizione, sia al fatto che egli non aveva accesso diretto all'infermeria, oltre che al dato della concomitanza delle molteplici condotte poste in essere dal F. in un ristretto arco temporale. In tal senso, l'unica conversazione diretta tra P. e F. non consente una interpretazione univoca dell'esistenza di un pactum sceleris fra gli stessi.


4.3. Con il terzo motivo si lamentano vizi di motivazione circa il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e la mancata esclusione della recidiva, tenuto conto della marginalità della posizione del ricorrente.


5. Avverso la su indicata pronunzia, infine, ha personalmente proposto ricorso per cassazione St.Al., che ha dedotto vizi di inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 319 e 321 c.p. (capo sub G), sul rilievo che gli accertamenti medici e gli esami diagnostici prescritti dal F. configuravano atti dovuti a tutela dell'interesse costituzionalmente garantito alla salute del detenuto, con la conseguente carenza strutturale del requisito dell'atto contrario ai doveri d'ufficio. Il diritto alla salute dei detenuti non può essere oggetto di discrezionalità amministrativa, nè può essere comparato e bilanciato con interessi contrapposti, sicchè il direttore sanitario del carcere non poteva esimersi dal disporre approfonditi accertamenti diagnostici e adeguati trattamenti terapeutici, mentre l'apparente cautela mostrata negli incontri con i parenti, la presunta accortezza volta ad impedire la captazione delle conversazioni e le utilità che si assumono da lui conseguite per la propria attività non risultavano affatto sintomatiche della ritenuta contrarietà ai doveri d'ufficio (tanto è vero che se le richieste dei detenuti andavano al di là delle legittime aspettative di cura dei pazienti, egli si rifiutava di assecondare le loro sollecitazioni).


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto dal F. è inammissibile per manifesta infondatezza. Nel ricostruire i tasselli del quadro probatorio univocamente delineato a sostegno delle diverse vicende storico-fattuali descritte nei temi d'accusa oggetto del procedimento de quo, i Giudici di merito hanno posto in evidenza come egli, nella sua qualità di medico penitenziario, si sia avvalso dell'intermediazione fiduciaria di taluni detenuti (in particolare, S.G. e M.V.), stabilendo una prassi operativa consolidata, e del tutto avulsa dai doveri professionali e dalle specifiche funzioni di dirigente responsabile della struttura sanitaria del su indicato Istituto di reclusione, in forza della quale stabiliva un iniziale contatto con il detenuto che, dietro la promessa di versamento di un lauto corrispettivo in denaro, in taluni casi anche eseguita, usufruiva dei suoi favori.


Raggiunto l'accordo con il detenuto previa conferma - da parte dei "fiduciari" interni alla struttura (ossia dei detenuti che svolgevano la propria attività di lavoro quali addetti all'infermeria) - della sua affidabilità sul piano economico, il predetto ricorrente iniziava a predisporre in suo favore un quadro sanitario compiacente, sì da supportarne le richieste finalizzate al conseguimento dei benefici penitenziari (colloqui, attività lavorativa, misure alternative al regime detentivo, ecc.), a prescindere dalle reali condizioni di salute dell'interessato e senza farsi carico di garantirne un sicuro risultato.


Al riguardo, inoltre, le decisioni di merito hanno individuato una serie di passaggi costanti ed uniformi seguiti nei rapporti intercorsi con taluni detenuti (prescrizioni di accertamenti diagnostici di natura psichiatrica, cardiologica e urologica presso presidi sanitari esterni; suggerimenti al detenuto di richiedere con frequenza, a prescindere da effettive esigenze cliniche, visite mediche da parte di altri sanitari operanti all'interno del medesimo Istituto; consigli circa il contegno da tenere in tali occasioni; prescrizioni di terapie che invitava espressamente a non seguire e che venivano disposte esclusivamente al fine di rappresentare una situazione clinica diversa da quella effettiva), salva la predisposizione di eventuali adeguamenti di tale modus operandi in relazione alla specifica situazione di volta in volta considerata, prospettando se del caso un aggravamento del quadro, attraverso prescrizioni di determinate terapie ovvero di ulteriori accertamenti specialistici.


A fronte di tali prestazioni, che davano luogo a vere e proprie "corsie preferenziali" in favore di taluni detenuti e a discapito di altri che vantavano ben più urgenti esigenze e, ciò nonostante, venivano del tutto trascurati, il sanitario conseguiva in tutto o in parte il corrispettivo previamente pattuito, che veniva materialmente consegnato dai familiari dei detenuti nel corso di incontri presso il suo ambulatorio privato, ovvero utilizzando una farmacia limitrofa, ove i parenti lasciavano la somma convenuta, non prima che il titolare di quell'esercizio venisse avvertito del loro arrivo dal predetto imputato.


1.1. Sulla base della su esposta ricostruzione dei fatti oggetto dei correlativi temi d'accusa deve rilevarsi, in ordine alla prima ragione di doglianza, come i Giudici di merito abbiano fatto buon governo del quadro di principii al riguardo affermati da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 6677 del 03/02/2016, Maggiore, Rv. 267187; v. inoltre, in motivazione, Sez. 6, n. 23354 del 04/02/2014, Conte, Rv. 260533; Sez. 6, n. 18707 del 09/02/2016, Balducci; Sez. 6, n. 40237 del 07/07/2016, Giangreco), secondo cui, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 319 c.p. e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge, poichè la fattispecie incriminatrice de qua è chiamata a sanzionare anche l'uso distorto della discrezionalità amministrativa, cioè il procedimento condizionato non già da un percorso di attenta ed imparziale comparazione tra gli interessi in giuoco, ma dalla percezione di un indebito compenso affinchè venga raggiunto un esito determinato (esito che può anche essere compatibile con il sistema delle norme regolatrici, e può finanche coincidere, ex post, con quello che sarebbe stato raggiunto in assenza del pagamento corruttivo).


Nell'affermare tale principio, inoltre, questa Corte ha precisato che proprio il versamento di somme di denaro costituisce un elemento indicativo della necessità per il privato di incidere sulla formazione del provvedimento finale orientandone l'esito, mentre del tutto irrilevanti, nell'ambito della su indicata linea interpretativa, devono ritenersi l'obiezione secondo cui gli atti e i comportamenti posti essere dal ricorrente erano comunque dovuti a tutela del diritto alla salute, ovvero quella secondo cui la corruzione c.d. propria sussisterebbe solo quando sia configurabile un comportamento doveroso alternativo (sul presupposto che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, il beneficio richiesto sarebbe stato ad esse comunque riconosciuto, a prescindere dalla erogazione di denaro), poichè ciò che si richiedeva all'imputato nell'esercizio delle sue funzioni di dirigente sanitario della struttura carceraria era l'espressione di una valutazione autonoma ed imparziale, frutto di un meditato apprezzamento dell'esistenza e della fondatezza del tipo di patologie di volta in volta rilevate, oltre che della congruità dei relativi trattamenti terapeutici, sì da predisporre un'informazione clinico-sanitaria non alterata, ma coerentemente fondata sul rispetto di regole tecniche e di criteri di buona amministrazione, laddove la pattuizione di un corrispettivo destinato a far ottenere i benefici penitenziari richiesti da determinate persone preclude in radice la possibilità di un corretto esercizio dei poteri che ne regolano l'attività, impedendo, come puntualmente evidenziato nelle conformi decisioni di merito, qualsiasi apprezzamento rispondente a criteri di correttezza e di discrezionalità amministrativa o tecnica, nell'esame delle richieste avanzate dai detenuti.


Deve altresì ribadirsi che, in tema di corruzione propria, costituiscono atti contrari ai doveri d'ufficio non soltanto quelli illeciti (perchè vietati da atti imperativi) o illegittimi (perchè dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, dall'osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Sez. 6, n. 30762 del 14/05/2009, Ottochian e altri, Rv. 244530).


D'altra parte, è pacifico che il reato in oggetto possa essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale o meramente consultiva, quando essi costituiscano concreto esercizio dei poteri inerenti l'ufficio e l'agente sia il soggetto deputato ad emetterli o abbia un'effettiva possibilità di incidere sul relativo contenuto o sulla loro emanazione. Ed invero, l'atto di natura discrezionale o consultiva non ha mai un contenuto pienamente "libero", essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all'apprezzamento dell'interesse pubblico (Sez. 6, n. 8935 del 13/01/2015, Giusti, Rv. 262497; Sez. 6, n. 36212 del 27/06/2013, De Cecco, Rv. 256095), senza deviarne o stravolgerne il contenuto per tutelare interessi di ordine privatistico dietro la corresponsione di somme di denaro.


Muovendo da tale prospettiva ermeneutica, i Giudici di merito hanno coerentemente sottolineato il fatto che proprio la costante predisposizione di una "storia clinica artefatta" poteva servire ad aggravare falsamente, passo dopo passo, il quadro clinico dei detenuti in vista delle determinazioni dell'Autorità giudiziaria in merito alla concessione dei richiesti benefici penitenziari, logicamente escludendo, altresì, in ragione della sistematica pretermissione di analoghe istanze avanzate d'urgenza da parte di altri detenuti, la possibilità che l'interesse del F. verso alcuni soltanto di essi fosse finalizzato a risolverne i problemi di salute.


1.2. Manifestamente infondata, proprio alla luce delle conclusioni dai Giudici di merito coerentemente raggiunte in ordine al sistematico stravolgimento dell'esercizio dei poteri discrezionali del sanitario nel porre in essere condotte di favore in cambio di promesse di dazioni di denaro da parte di taluni detenuti, deve ritenersi, poi, la seconda censura dal ricorrente prospettata, ove si consideri il quadro di principii al riguardo tracciato da questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 4663 del 01/10/1998, Saccani, Rv. 211495), secondo cui, quando il vantaggio economico sia conseguito in dipendenza di una erogazione altrui e di un comportamento, attivo od omissivo, contrario ai doveri d'ufficio posto in essere dal pubblico ufficiale, si verificano azioni od omissioni, ed evento, rientranti nella previsione di entrambe le ipotesi criminose, la più grave delle quali presenta rispetto all'altra un "quid pluris", costituito dalla figura del terzo quale erogatore di una utilità collegata da nesso teleologico al comportamento del pubblico ufficiale connotato dalla contrarietà ai doveri specifici propri della funzione svolta, a differenza della violazione di norme di qualsiasi genere e della irrilevanza delle modalità di acquisizione del vantaggio, proprie dell'abuso di ufficio. Tali elementi distintivi, dunque, valgono a porre l'art. 319 in rapporto di specialità e di prevalenza rispetto all'art. 323, sia in relazione a quanto stabilito dall'art. 15 c.p., sia per la dichiarata residualità dell'abuso d'ufficio espressa dalla norma che lo prevede ("Salvo che il fatto non costituisca reato più grave...").


1.3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile, poichè si limita a riproporre una serie di censure che questa Suprema Corte - come puntualmente ricordato e specificamente argomentato dai Giudici merito nell'impugnata pronunzia - ha già esaminato e definito in sede cautelare (Sez. 6, 17 novembre 2009, n. 8706/2010, F.; Sez. 6, 2 dicembre 2009, n. 11472/2010, Paviglianiti), escludendone la fondatezza ed affermando, di contro, la piena utilizzabilità degli esiti delle disposte intercettazioni sul rilievo che: "3a - Il concetto di diverso procedimento nel quale, ai sensi dell'art. 270 c.p.p., comma 1, è vietata l'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza) non si estende fino ad escludere la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti concernenti indagini strettamente connesse e collegate, sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico, al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto. La diversità del procedimento deve assumere rilievo di carattere sostanziale e non può essere ricollegata a dati meramente formali, quali l'apparente autonomia e la mancanza di collegamento tra reati diversi. Non va sottaciuto che, nel caso in esame, le ipotesi di corruzione presentavano uno stretto collegamento con l'indagine condotta inizialmente dalla Procura della Repubblica di Milano in ordine ai reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 74 nei quali apparivano coinvolte persone detenute a Spoleto, interessate a procurarsi, attraverso la corruzione del F., benefici penitenziari proprio nella prospettiva di guadagnare una qualche libertà di azione nel settore del traffico di droga. La contestata attività captativa di conversazioni deve, quindi, ritenersi eseguita nell'ambito di un unico procedimento e non si pone, quindi, la questione relativa all'operatività dell'art. 270 c.p.p., disposto del comma 1.


3b - Va esclusa, inoltre, l'eccepita inutilizzabilità delle intercettazioni per violazione dell'art. 407 c.p.p.. Nel corso delle indagini preliminari, infatti, il P.M. deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato previsto dall'art. 335 c.p.p. quando acquisisce elementi in ordine a ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona. Ne consegue che il termine per le indagini preliminari previsto dall'art. 405 c.p.p. decorre in modo autonomo da ciascuna successiva iscrizione. Deve aversi riguardo al criterio di ordine sostanziale desumibile dall'art. 335 c.p.p., comma 2, secondo cui, quando non si tratti di mutamento della qualificazione giuridica del fatto nè di diverse circostanze del medesimo fatto, non può parlarsi di aggiornamento dell'iscrizione, ma di iscrizione autonoma. Ciò posto, nel caso in esame vi sono state successive iscrizioni autonome dei vari episodi corruttivi, man mano che essi emergevano, e le corrispondenti indagini sono state contenute nel termine di legge, computato con decorrenza da ciascuna nuova iscrizione".


1.4. Parimenti inammissibile, infine, deve ritenersi l'ultimo motivo di ricorso, ivi reiterandosi questioni già ampiamente esaminate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale (pagg. 136-138), che nel motivare il rigetto dell'istanza di revoca del sequestro conservativo ha osservato, fra l'altro, come il ricorrente avrebbe dovuto, nel caso di specie, adire il Tribunale del riesame ai sensi dell'art. 318 c.p.p..


Delle implicazioni sottese al correlativo profilo di doglianza, infatti, si sono già occupate le Sezioni Unite di questa Suprema Corte (v., in motivazione, Sez. U, n. 34623 del 26/06/2002, Di Donato, Rv. 222261), là dove, risolvendo negativamente il quesito in ordine all'estensione degli effetti favorevoli conseguenti all'annullamento in sede di riesame di un provvedimento di sequestro conservativo anche nei confronti dell'indagato non impugnante, hanno esplicitamente evidenziato come "il sequestro conservativo, al contrario delle misure cautelari personali, sia misura irrevocabile", di talchè la mancata impugnazione del relativo provvedimento impositivo ai sensi dell'art. 318 c.p.p. ne determina la definitività.


La questione, peraltro, come già precisato in questa Sede (Sez. 3, n. 36359 del 19/05/2015, Testa, Rv. 264732), rientra nelle attribuzioni del giudice della esecuzione penale, in quanto organo competente a conoscere di tutte le questioni che attengono alla esistenza, validità e sufficienza del titolo per l'esercizio dell'azione di recupero delle spese processuali.


2. Integralmente richiamate le considerazioni or ora svolte in ordine al ricorso del F., inammissibili devono altresì ritenersi, per le medesime ragioni, il secondo ed il terzo motivo del ricorso proposto da S.G., siccome incentrati su tematiche di comune rilievo, mentre i profili di doglianza oggetto del primo motivo di ricorso sono inammissibili in quanto sostanzialmente orientati a riprodurre un quadro di argomentazioni già ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici di merito, ovvero a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione.


Sotto tale profilo, invero, il ricorso non è volto a rilevare omissioni ed illogicità ictu oculi percepibili, nè a sviluppare un adeguato confronto critico-argomentativo rispetto all'intrinseca coerenza dei passaggi della motivazione, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice d'appello, che ha linearmente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d'accusa e gli elementi costitutivi della correlata affermazione di responsabilità, ponendo in rilievo, segnatamente, i seguenti, dirimenti, profili ricostruttivi: a) in ordine al reato di cui al capo sub C), che fu proprio lo S. (in quanto detenuto semilibero) ad illustrare al F. la situazione carceraria del detenuto So. e a combinare un incontro dei familiari di quest'ultimo con il medico - al quale egli stesso ebbe a partecipare - ove si discusse e quantificò un compenso di trentamila euro (incontro seguito, peraltro, da ulteriori colloqui tra il F. e lo S., nel corso dei quali quest'ultimo venne informato di ciò che il medico aveva fatto e delle sue ulteriori richieste economiche); b) in ordine al reato di cui al capo sub E), che fu proprio lo S. a manifestare al F. la disponibilità del detenuto Ma. a pagare la somma di euro ventimila per riuscire ad andare in ospedale, dando altresì conto di lunghi colloqui tra di loro intercorsi in merito alla posizione del predetto detenuto anche su tempi e modalità del relativo pagamento; c) in ordine al reato di cui al capo sub G), che fu proprio lo S. ad illustrare per la prima volta al F. la situazione carceraria del detenuto St., perorandone la causa, ragguagliando il predetto sanitario sulle sue pretese (tanto che il F., non conoscendo lo St., chiese allo S. informazioni in ordine alla sua "solvibilità") ed infine svolgendo la funzione di intermediario per la consegna del denaro presso un albergo di (OMISSIS) ove erano alloggiati i prossimi congiunti del predetto detenuto.


Corrette, dunque, devono ritenersi le conclusioni cui al riguardo sono pervenuti i Giudici di merito, ove si consideri la linea interpretativa ormai da tempo tracciata da questa Suprema Corte (da ultimo, v. Sez. 6, n. 24535 del 10/04/2015, Mogliani, Rv. 264124), secondo cui il concorso nel delitto di corruzione, reato a concorso necessario ed a struttura bilaterale, è configurabile sia nel caso in cui il contributo del terzo si realizza nella forma della determinazione o del suggerimento fornito all'uno o all'altro dei concorrenti necessari, sia nell'ipotesi in cui si risolve in un'attività di intermediazione finalizzata a realizzare il collegamento tra gli autori necessari.


Facendo buon governo di tali principii, i Giudici di merito hanno posto in rilievo, nel caso di specie, come il ruolo dello S. sia stato quello di un vero e proprio intermediario, non essendosi limitato a stimolare o a rafforzare il proponimento del F., ma avendo egli offerto il suo contributo alla stessa formulazione dell'accordo illecito, ponendo in contatto i concorrenti necessari del reato e partecipando di persona agli incontri avvenuti fra il dirigente sanitario ed i prossimi congiunti dei detenuti interessati.


Inammissibili, infine, devono ritenersi i rilievi relativi al diniego delle attenuanti generiche ed alla contestata recidiva, siccome incentrati su allegazioni di mero fatto, con le quali viene censurato il potere discrezionale del Giudice di merito, pur adeguatamente motivato in ordine alla oggettiva gravità dei fatti in esame, alla personalità del ricorrente ed alla negativa incidenza prognostica dei numerosi e gravi precedenti penali a carico, risolvendosi le deduzioni difensive sul punto formulate nella mera sollecitazione ad una diversa valutazione dei presupposti di esercizio del potere di determinazione della entità del trattamento sanzionatorio, che nel caso di specie, di contro, è stato congruamente ed esaustivamente giustificato, rendendosi, come tale, del tutto immune dai vizi propriamente deducibili in questa Sede.


3. Parimenti inammissibile deve ritenersi il ricorso del P., il cui primo motivo di doglianza è manifestamente infondato per le medesime ragioni già evidenziate (supra, nel par. 1.3.) in relazione all'identico motivo di ricorso in parte de qua proposto dal F..


Il secondo motivo è inammissibile, poichè si limita a prospettare, pur a fronte di uno specifico apprezzamento in fatto dei Giudici di merito, sorretto da una motivazione non apparente ed immune dai vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà che, soli, rilevano ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), deduzioni che omettono di confrontarsi criticamente con le ragioni giustificative congruamente esposte a sostegno del giudizio di penale responsabilità, sostanzialmente risolvendosi nella mera sollecitazione ad effettuare una diversa ed alternativa "rilettura" delle conclusioni raggiunte nella decisione di merito, come tale non consentita, poichè del tutto preclusa nella Sede di legittimità.


A tale proposito, invero, sulla base delle univoche emergenze offerte dall'ampio compendio probatorio a disposizione, ed in particolare dai colloqui oggetto delle intercettazioni ambientali e delle videoriprese eseguite presso l'infermeria della Casa di reclusione di Spoleto e presso il privato ambulatorio del F., la Corte territoriale ha coerentemente motivato il suo apprezzamento, ponendo in rilievo il fatto che la richiesta di predisporre una ulteriore relazione medica provenne proprio dal diretto interessato, tramite l'intermediazione del detenuto P., al quale il F. richiese la somma di denaro pattuita quale compenso per il rischio cui sarebbe andato incontro.


Inammissibili, infine, devono ritenersi i rilievi - oggetto dell'ultimo motivo di ricorso - relativi al diniego delle attenuanti generiche e alla mancata esclusione della contestata recidiva, per le medesime ragioni dianzi espresse riguardo all'identico motivo di doglianza sul punto formulato dallo S. (v. supra, il par. 2).


4. Integralmente richiamate le considerazioni su esposte in ordine ai ricorsi del F. e dello S. (concorrenti nello stesso reato di cui al capo sub G), inammissibili devono ritenersi, per le medesime ragioni ivi espresse, le doglianze oggetto del ricorso proposto da St.Al., siccome genericamente incentrate su tematiche di comune rilievo ed incidenza, senza prendere in considerazione, tuttavia, il complesso delle emergenze probatorie esaustivamente illustrate nella decisione impugnata, là dove la Corte di merito puntualmente descrive l'esito dei servizi di osservazione e pedinamento che consentivano di accertare un incontro avvenuto presso l'ambulatorio privato del medico, nel corso del quale egli riceveva dai familiari dello St. una somma di denaro di cinquemila euro contenuta in una busta gialla.


Al riguardo, inoltre, la Corte d'appello ha posto in rilievo, con passaggi motivazionali linearmente argomentati ed immuni da vizi logico-giuridici in questa Sede proponibili, che i colloqui oggetto d'intercettazione hanno consentito di verificare come l'accordo corruttivo si fosse manifestato attraverso il compimento di più atti contrari ai doveri d'ufficio, volti a facilitare e velocizzare l'accesso del detenuto ad esami clinici ed accertamenti peritali favorevoli, in modo da creare una "corsia preferenziale in grado di portarlo, attraverso la predisposizione di un compiacente quadro sanitario dietro il versamento di una cospicua somma di denaro, nella migliore posizione possibile per ottenere gli invocati benefici penitenziari (ossia, un maggior numero di colloqui e permessi, la possibilità di telefonare più spesso ai prossimi congiunti ecc.).


Le su esposte ragioni di doglianza, in definitiva, sono inammissibili in quanto aspecificamente orientate a riprodurre una serie di censure già ampiamente vagliate e correttamente disattese dai Giudici di merito, ovvero a sollecitare una "rilettura" meramente fattuale delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della correttezza giuridica e della logica conseguenzialità che caratterizzano la progressione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione.


5. La genetica inammissibilità dei ricorsi, impedendo l'instaurarsi di un valido rapporto impugnatorio, preclude la possibilità di rilevare d'ufficio il verificarsi di eventuali ipotesi di estinzione del reato per prescrizione sopravvenuta dopo la sentenza di secondo grado (Sez.U., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; Sez. U., 22 marzo 2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164; Sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 42839, Imperato, Rv. 244999; v., inoltre, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818).


6. Per le considerazioni su esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro millecinquecento.


P.Q.M.

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1.500,00 in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 24 novembre 2016.


Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2017

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