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Abuso d'ufficio: non sussiste il dovere di astenersi in caso di manifestazioni di disistima


Tribunale di Cassino

La massima

In tema di abuso d'ufficio, il dovere di astenersi derivante dalla grave inimicizia presuppone che tra il pubblico agente ed il destinatario dell'atto amministrativo sussistano motivi di rancore personale, mentre tale requisito non è integrato in presenza di manifestazioni di disistima e di critica professionale. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la sussistenza dell'obbligo di astensione in capo al direttore generale di un'azienda sanitaria che, dovendo procedere alla nomina di un dirigente di struttura complessa, e potendo esercitare un'ampia facoltà di scelta discrezionale, preferiva altro candidato rispetto ad un soggetto che, in più occasioni, aveva manifestato di non stimare sotto il profilo professionale.


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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 17/11/2020 , n. 16782

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Milano, investita del gravame degli imputati avverso la sentenza del Tribunale della stessa città del 16 dicembre 2016:


- ha confermato la condanna di P.G. per i delitti di truffa aggravata e falso ideologico in certificazione amministrativa (capo 35 dell'imputazione), mentre ha dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui agli artt. 319 quater e 319, c.p., ascrittigli ai capi 16) e 20);


- ha confermato la condanna di M.E. per i reati di induzione indebita a dare o promettere utilità e di truffa aggravata (capi 14, 15 e 28 dell'imputazione), mentre ha dichiarato estinti per prescrizione i reati di cui agli artt. 319 e 321 c.p., e di truffa aggravata, ascrittigli ai capi 19) e 29);


- ha confermato la condanna di D.F.G. per tre reati di induzione indebita a dare o promettere utilità (capi 7, 28 e 32 dell'imputazione), mentre ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di truffa aggravata, ascrittogli al capo 29);


- ha confermato la condanna di C.P. per i delitti di cui agli artt. 319,321 e 479, c.p. (capo 27 dell'imputazione), mentre ha dichiarato estinti per prescrizione i reati di truffa aggravata e falso in copie di atti, ascrittigli ai capi 29) e 30).


Tutti costoro, con atti dei rispettivi difensori, propongono ricorso per cassazione, sulla base dei motivi per ciascuno di seguito indicati.


2. P. rassegna cinque doglianze.


2.1. La prima consiste nella contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'induzione ex art. 319 quater c.p., di cui al capo 16), invero dichiarata prescritta, ma comunque rilevante ai fini della disposta confisca del relativo profitto e delle statuizioni civili in favore della parte civile Ministero del Lavoro e delle politiche sociali.


Si contesta al ricorrente di avere, nella sua qualità di ispettore del lavoro, indotto il rappresentante dell'azienda di autotrasporti "Comitras" a raggiungere un accordo con un dipendente nell'ambito di una procedura di conciliazione, minacciandogli, altrimenti, un'ispezione particolarmente invasiva ("a 360 gradi") e mutando comportamento soltanto dopo aver ricevuto una somma di cinquemila Euro.


Egli sostiene di non aver esercitato alcuna indebita pressione sul rappresentante dell'azienda né di aver mutato condotta in malafede, ma di aver soltanto rappresentato a costui le conseguenze previste dal D.Lgs. n. 124 del 2004, art. 11, che prevede obbligatoriamente l'avvio di un'ispezione in caso di esperimento infruttuoso della procedura conciliativa e l'estinzione della stessa ad accordo raggiunto ed eseguito, senza alcuna discrezionalità per l'ispettore. Peraltro, mancherebbe pure la dimostrazione della percezione dell'indebita remunerazione, trattandosi di circostanza riferita solo dalla sua collega ed originaria coindagata S., le cui dichiarazioni sono tuttavia ritenute dalla stessa Corte di appello generiche.


2.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione dell'art. 480 c.p., in relazione ai fatti contestati al capo 35) dell'imputazione, relativi all'attestazione di aver svolto attività ispettiva in alcuni comuni della provincia di Milano, in data 24 ottobre 2013, per una durata complessiva ed ininterrotta superiore a nove ore: attività che, invece, non sarebbe stata svolta, con conseguente indebita percezione delle indennità e degli altri emolumenti per essa previsti.


La sentenza valorizza esclusivamente i dati delle "celle" telefoniche agganciate dall'apparecchio dell'imputato, che indicano com'egli si trovasse a Milano fino alle ore 10.00. Tuttavia - sostiene la difesa ricorrente - tanto dimostra com'egli già a quell'ora fosse in movimento, e quindi in attività, e non esclude che le incombenze assegnategli per quella giornata siano state comunque da lui espletate, essendosi poi effettivamente recato nei comuni indicatigli: con la conseguenza che nessuna falsa attestazione egli avrebbe compiuto. Né é vero quanto si afferma in sentenza, ovvero che il ricorrente avrebbe ammesso la falsificazione nel corso delle indagini, per poi ritrattare in dibattimento: egli, infatti, si é limitato ad asserire di essere incorso in errore nella redazione di quel modulo, avendovi provveduto a distanza di tempo.


2.3. Sempre con riferimento alla medesima vicenda, ma in relazione al connesso reato di truffa aggravata, il terzo motivo lamenta la violazione dell'art. 640 c.p..


Segnatamente, si rileva che, siccome nulla consente di escludere che effettivamente P. si sia recato nei predetti comuni ed abbia svolto i compiti d'ufficio affidatigli (come anzi dimostrerebbe la testimonianza di tale Berra, invece del tutto trascurata in sentenza), la retribuzione gli sarebbe spettata, così come le indennità chilometriche, alla cui corresponsione era funzionale l'attestazione da lui redatta: nessun danno per la pubblica amministrazione di appartenenza si sarebbe, perciò, verificato e, di conseguenza, l'ipotizzato delitto di truffa non sarebbe configurabile.


2.4. Con il quarto motivo, invece, si evidenzia l'omissione della motivazione sul motivo d'appello concernente il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4), insistendo per la fondatezza nel merito della doglianza, potendosi addebitare al ricorrente, al più, il mancato svolgimento di attività lavorativa per sole due ore.


2.5. Si denuncia, infine, il vizio di motivazione della sentenza, in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, evidenziandosi come il ricorrente sia incensurato, non abbia altre pendenze giudiziarie, abbia tenuto un corretto comportamento processuale, e come, soprattutto, il diniego di tale beneficio sia stato giustificato sulla base di una prognosi di reiterazione delle condotte, laddove quegli venisse reintegrato nei ranghi della pubblica amministrazione: aspetto, questo, tuttavia estraneo ai parametri dell'art. 133 c.p., ai quali, invece, il giudice deve attenersi nella valutazione di cui si tratta.


2.6. La difesa di P., in replica alle conclusioni del Procuratore generale, ha depositato istanza di rinvio della trattazione del processo e contestuale memoria, ribadendo le argomentazioni già rassegnate con il ricorso; inoltre, in relazione alla contestazione di cui al capo 16), rileva che la novella dell'art. 323 c.p., introdotta con il D.L. n. 76 del 2020, conv. dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, in base ad una necessaria lettura sistematica, ha escluso anche per le altre fattispecie di reato dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione la rilevanza penale degli atti discrezionali dell'agente pubblico, qual era, nello specifico, il rinvio della trattazione della procedura di conciliazione.


3. La difesa di D.F. articola tre motivi di ricorso.


3.1. Il primo denuncia la violazione dell'art. 192 c.p.p., e l'inosservanza dei criteri tracciati dalla giurisprudenza di legittimità per la valutazione delle dichiarazioni dei cc.dd. "collaboratori di giustizia", con riferimento ai contributi dichiarativi dell'originaria coindagata S., invece imprecisa e reticente. In particolare, la sentenza non avrebbe esaminato gli elementi introdotti dalla difesa ed atti a minarne la credibilità, ovvero: la personalità prevaricatrice di costei; l'aver ella deciso di collaborare allorché si trovava ristretta ed aveva, perciò, interesse ad alleggerire la sua posizione processuale; le ampie disponibilità economiche rinvenute in suo possesso.


3.2. Con il secondo motivo, si lamentano vizi di motivazione e violazione di legge penale e processuale, in relazione alla ritenuta colpevolezza dell'imputato per i reati di cui ai capi 7), 28) e 32), rispettivamente evidenziandosi:


- che egli non avrebbe chiesto alla sua collega S. alcuna remunerazione indebita, ma soltanto di indicargli da chi potesse acquistare del peliet (oggetto della dazione che l'accusa assume essere l'indebito corrispettivo da lui lucrato); che tale materiale, infatti, é stato consegnato a costei e non a lui; che non v'é prova di alcuna induzione, non essendo stata acquisita la testimonianza della presunta persona offesa;


- che egli non ha avuto rapporti col privato interessato e non ha istigato la S., la quale lo ha remunerato soltanto per la particolare riconoscenza che nutriva verso di lui, in quanto collega sempre disponibile; di tanto si ha indiretta conferma nelle dichiarazioni del privato indotto C., che ha affermato come la donna gli disse di non darle confidenza in presenza di esso ricorrente, poiché all'oscuro dei loro illeciti accordi;


- che, secondo quanto dichiarato dallo stesso privato indotto Castiglia, la determinazione della somma versata é avvenuta di sua autonoma iniziativa, senza che gli fosse stato minacciato alcun male ingiusto per l'azienda.


3.3. La terza doglianza attiene al diniego dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p., nonostante l'iniziativa delittuosa sia stata sempre assunta dalla S. ed il ricorrente abbia rivestito un ruolo marginale; nonché delle attenuanti generiche, avendo la Corte omesso di tenere nella dovuta considerazione la lontananza dei fatti nel tempo ed il corretto comportamento dell'imputato nelle more.


3.4. La difesa ricorrente ha depositato motivi aggiunti, ribadendo: a) le riserve sulla attendibilità della S., rimarcando ancora una volta la circostanza per cui, a differenza di quanto accaduto per costei, nella disponibilità del D.F. non sono state rinvenute risorse economiche sproporzionate alle sue legittime entrate, ciò che attesterebbe com'egli fosse estraneo alla sistematica attività illecita della collega; b) l'irragionevolezza del diniego delle attenuanti generiche, in ragione delle modeste utilità conseguite dall'imputato, del suo comportamento processuale, dell'episodicità delle sue condotte, della lontananza di queste nel tempo, del fatto che la S. avrebbe comunque agito sì come ha fatto, anche senza il contributo di lui.


4. Anche il ricorso di C. rassegna tre doglianze.


4.1. Le prime due, sotto il profilo sia della violazione degli artt. 319 e 321 c.p., che del vizio di motivazione, ne censurano il giudizio di responsabilità, sostenendo che egli sia stato vittima di concussione da parte della S. o, al più, privato concorrente nel delitto di induzione indebita di cui all'art. 319 quater, cit., con condotta tuttavia non punibile, poiché anteriore all'introduzione di tale fattispecie nel nostro ordinamento.


Il ricorso evidenzia, in proposito, il contegno intimidatorio tenuto da tale ispettrice sin dal suo ingresso nell'azienda di esso ricorrente, con la prospettazione della possibile irrogazione di una spropositata sanzione, tale, perciò, da non avergli lasciato altra scelta, se non quella di adeguarsi al volere di costei ed al disegno delittuoso dalla stessa progressivamente ordito, nel quale rientrava anche la corruzione del carabiniere. Anzi, proprio le strette relazioni manifestategli dalla S. con rappresentanti delle forze dell'ordine, lo avrebbero indotto a desistere dall'originario intento di denunciarla, che lo aveva determinato, almeno in una prima fase, a registrare di nascosto i loro colloqui.


Con la descritta situazione di prevaricazione, riconosciuta dalla stessa sentenza impugnata, sarebbe perciò inconciliabile l'ipotizzato dolo di corruzione per così dire - sopraggiunto, che invece la Corte ha ravvisato nel suo successivo contegno adesivo all'ulteriore attività delittuosa apprestata ad iniziativa dell'ispettrice, e funzionale ad evitare le sanzioni per l'azienda nonché ad offrire una formale copertura di correttezza all'attività di costei.


Peraltro, la decisione presenterebbe profili di intrinseca contraddittorietà, nella parte in cui trascura l'esito liberatorio per altro imprenditore, in relazione ad una vicenda perfettamente simmetrica a quella in esame (il riferimento é a tale Castiglia ed ai fatti, commessi da altro ispettore, rubricati al capo 32).


4.2. Il terzo motivo lamenta la violazione dell'art. 597 c.p.p., comma 3, ritenendo che la sentenza impugnata, in difetto di appello del Pubblico ministero, abbia modificato in peius per l'imputato il bilanciamento tra le circostanze disposto dalla sentenza di primo grado, ritenendo prevalente la recidiva, peraltro derubricata da specifica e reiterata a semplice, che invece il primo giudice aveva reputato equivalente alle riconosciute attenuanti.


4.3. Anche la difesa di questo ricorrente, in replica alle conclusioni del Procuratore generale, ha depositato istanza di rinvio della trattazione del processo e contestuale memoria, ribadendo le argomentazioni già rassegnate con il ricorso.


5. Sono undici i motivi del ricorso proposto nell'interesse di M..


5.1. I primi cinque riguardano i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - induzione indebita e truffa aggravata, in relazione all'ispezione condotta, unitamente alla S., presso l'azienda di autotrasporti "(OMISSIS)", amministrata da tale A.V. - e censurano il giudizio di responsabilità del ricorrente, sotto il profilo dell'apparenza e, comunque, dell'insufficienza, illogicità o contraddittorietà della motivazione, ma anche del travisamento dei risultati probatori, per omissione o falsificazione, e comunque per la violazione del canone del ragionevole dubbio, di cui all'art. 533 c.p.p..


Passando in rassegna le emergenze probatorie ritenute d'interesse, testualmente riportate all'interno del ricorso, e confutando le avverse valutazioni contenute in sentenza, ivi si deduce, in particolare:


- che M. non é stato l'istigatore della S., ma si é limitato a chiederne l'ausilio nello svolgimento dell'ispezione, non disponendo di sufficienti competenze tecniche, in quanto da poco impegnato in quel settore d'attività;


- che, al momento in cui é intervenuta, neppure costei aveva intenzioni illecite, avendo chiesto l'aiuto del tecnico esterno M. non per falsificare i dati dell'ispezione, bensì solo per ovviare alle disfunzioni tecniche del software a disposizione dell'Ispettorato per la lettura dei cronotachigrafi digitali;


- che, com'egli stesso ha affermato, con dichiarazione credibile, poiché resa all'interno di un più ampio contributo confessorio, M. non ha mai conosciuto M. e, per altro verso, non ha occultato alcun dato rilevante, essendo emerse soltanto piccole violazioni da parte della ditta sottoposta ad ispezione: sicché nessuna sanzione artificiosamente ridotta sarebbe stata applicata e nessuna truffa si sarebbe verificata;


- che, secondo quanto riferito dal citato A., l'ispezione di M. "é andata regolarmente", mentre egli ha versato denaro solo alla S., i cui modi di operare ben conosceva, avendo quest'ultima già effettuato in precedenza un'ispezione presso la sua azienda;


- che manca ogni dimostrazione di un'avvenuta remunerazione del M., riferendosi la sentenza, per questo aspetto, a vari orologi dal valore di circa 150 Euro ognuno, i quali, invece, sarebbero stati consegnati alla S.: tale assunto, tuttavia, si fonda sul travisamento delle dichiarazioni sia di quest'ultima che di A., posto in risalto anche dalla sentenza di primo grado.


5.2. Anche con riferimento al reato di cui al capo 28) - induzione indebita, in relazione all'ispezione condotta dai suoi colleghi S. e D.F., presso l'azienda di autotrasporti "NEW L.M.", amministrata dal C. - il ricorso denuncia, con i motivi che vanno dal sesto al decimo, analoghe carenze motivazionali, rappresentando, in sintesi, l'estraneità dell'imputato alla condotta illecita ipotizzata e l'ascrivibilità di quest'ultima all'iniziativa esclusiva della S..


In particolare si fanno rilevare:


- la complessiva illogicità della motivazione, che deduce il concorso del M. nel reato per lo più sulla base di circostanze afferenti ad altre vicende oggetto di contestazione;


- l'assenza di qualsiasi intervento diretto di costui nell'attività di alterazione dei risultati dell'ispezione, a partire dalla falsa denuncia di furto;


- la circostanza per cui, già in occasione di una precedente ispezione ricevuta, C. avesse pagato la S., al fine di ottenere rilievi meno incisivi e sanzioni meno pesanti;


- la propria capacità di "sistemare" eventuali situazioni pregiudizievoli per l'azienda, da costei palesata a C., con la specificazione di essere in grado di far avere all'azienda una denuncia di furto di documenti "già pronta";


- l'aver ella effettivamente ottenuto tale denuncia, ad opera del carabiniere S., "a titolo proprio di favore" personale da parte di quest'ultimo, dietro una remunerazione modesta ("a livello di due-trecento Euro"), da lei corrispostagli;


- l'avere la stessa S. personalmente provveduto alla falsificazione della documentazione bancaria rilevante, sempre in una fase anteriore all'intervento di M.;


- la finalità esclusiva di redarguire la propria infedele collega, con cui M. é intervenuto nella vicenda, facendola spaventare ed alterare, tanto da indurla a lamentarsene con C.;


- l'ampia confessione di quest'ultimo su tutti gli aspetti qualificanti della vicenda (elargizioni in favore degli ispettori S. e D.F., falsificazione della denuncia, con indicazione del carabiniere coinvolto), tale da far logicamente escludere che egli abbia inteso tacere solo su eventuali responsabilità di M., per il quale ha escluso qualsiasi vantaggio economico;


- l'effettiva destinazione della somma di 500 Euro, pur se consegnata da C. a M., allo studio di consulenza al quale il primo si era rivolto, e su sollecitazione del quale M. é intervenuto per mitigare le pressioni e le pretese della S., e quindi per uno scopo del tutto diverso da quello penalmente rilevante.


5.3. Con l'ultimo motivo, la difesa ricorrente si duole del mancato riconoscimento di attenuanti generiche, giustificato dalla Corte distrettuale con la quantità dei reati dei reati commessi dall'imputato; con l'intensità dell'elemento psicologico, avendo egli agito, in un caso, da mandante e, nell'altro, da "consulente" dell'imprenditore soggetto all'attività del proprio ufficio; e con l'assenza di condotte riparatorie.


Replica l'interessato che egli é l'unico degli ispettori a non aver mai ricevuto ricompense; che gli episodi addebitatigli sono soltanto due, non potendosi tener conto delle vicende per cui é intervenuta la prescrizione; e che, infine, l'assenza di un comportamento riparatore é diretta conseguenza della sua innocenza.


5.4. Pure per M. é stata depositata memoria di replica, con la quale si deduce l'intervenuta prescrizione, nelle more, della truffa di cui al capo 15); si reiterano gli argomenti già proposti con il ricorso in relazione ai fatti di cui ai capi 14) e 28); e, infine, in tema di attenuanti generiche, si lamenta l'erronea considerazione, da parte del Procuratore generale, di un reato dichiarato prescritto (capo 19), al fine di giustificare il relativo diniego.


6. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, concludendo per l'inammissibilità di tutti i ricorsi, perché proposti per motivi non consentiti o, comunque, manifestamente infondati, in fatto e/o in diritto.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Preliminarmente, debbono essere disattese le istanze di rinvio della trattazione del procedimento.


Il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, entrato in vigore il giorno seguente, per i procedimenti - come questo - già fissati per un'udienza ricadente tra il sedicesimo ed il trentesimo giorno successivi, ha previsto che la richiesta di trattazione orale potesse essere presentata dalle parti entro dieci giorni dalla sua entrata in vigore: quindi, entro l'8 di novembre. Ne consegue, che, dovendo necessariamente attendersi tale data per eventuali richieste in tal senso da parte delle difese, tra la stessa e quella dell'udienza non vi erano i quindici giorni previsti, da altro alinea della medesima norma, per la presentazione delle conclusioni da parte del Procuratore generale.


Non può ritenersi, pertanto, che tale disposizione sia rimasta inosservata, trattandosi di situazione inevitabilmente venutasi a creare per un difetto di coordinamento delle diverse disposizioni d'urgenza. Peraltro, nello specifico, le richieste conclusive del Pubblico ministero sono state dalla cancelleria immediatamente comunicate alle difese, che hanno avuto modo d'interloquire adeguatamente, come dimostra il fatto che tutte abbiano depositato memorie di replica.


2. Esaminando in distinti paragrafi le singole posizioni, secondo il medesimo ordine seguito in parte narrativa, va preso in esame il ricorso di P.G..


2.1. Il primo motivo di ricorso, con il quale si contesta, sebbene ai soli fini della disposta confisca e delle statuizioni civili, la configurabilità dell'ipotizzata induzione indebita commessa dall'imputato in occasione della procedura conciliativa con la ditta di autotrasporti "(OMISSIS)", é inammissibile.


Tale doglianza, infatti, nella parte in cui pone in discussione la valenza dimostrativa delle dichiarazioni della coindagata S., con precipuo riferimento al versamento al ricorrente della significativa e non dovuta somma di cinquemila Euro da parte del titolare di quella ditta, si risolve in una mera espressione di dissenso e, comunque, nella richiesta di rivalutazione di tale dato probatorio, che ovviamente é preclusa in sede di legittimità.


Per il resto, il motivo é aspecifico, riproponendo le medesime argomentazioni già rassegnate nell'atto di appello ed alle quali la sentenza impugnata offre compiuta ed adeguata risposta (pag. 25 s.), con la quale il ricorso non si misura.


Come correttamente rilevato dai giudici di appello, infatti, il dato qualificante non é quello della legittima possibilità di procedere ad ispezione dell'azienda, qualora la procedura conciliativa con il lavoratore non si fosse perfezionata. Quello che realizza l'indebita compressione dell'altrui volere, e che perciò rileva ai fini della sussistenza del reato, é invece il modo con il quale l'esercizio di un potere legittimo é stato prospettato dal ricorrente al suo interlocutore, al punto da averlo determinato a sborsare una tale somma, al fine - é ragionevole desumere - di evitare il peggio: é di solare evidenza logica, infatti, che la concreta invasività di un'attività ispettiva offra ampi spazi di discrezionalità all'operatore e, del resto, se così non fosse, non si comprenderebbe perché P. abbia sentito la necessità di comunicare al rappresentante della "(OMISSIS)" che essa sarebbe stata condotta "a 360 gradi", e perché , una volta ottenuto quel denaro, abbia radicalmente mutato atteggiamento. Bene, dunque, ha detto la Corte d'appello, allorché ha individuato l'elemento qualificante nella "vendita", da parte dell'imputato, della propria discrezionalità amministrativa, pur legittimamente riconosciutagli.


Ed é proprio tale aspetto che rende eccentrico altresì l'argomento difensivo - proposto solo con la memoria di replica, non potendo però essere rassegnato già con il ricorso - che trae spunto dalla riforma dell'abuso d'ufficio del luglio scorso, con la quale la penale rilevanza delle condotte dell'agente pubblico é stata circoscritta a quelle tenute "in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".


A tale regola, infatti, al contrario di quanto propone la difesa, non può assegnarsi valenza di principio generale, estensibile all'intera materia dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, nel senso di espungere dal novero delle condotte sanzionabili quelle compiute dall'agente nell'esercizio dell'àmbito di discrezionalità connesso alle sue funzioni.


L'abuso d'ufficio, infatti, sanziona l'uso distorto del potere, la deviazione di esso dalla causa tipica per la quale é riconosciuto al pubblico funzionario, il quale lo utilizza per raggiungere uno scopo diverso ed in conflitto con il bene pubblico e con l'interesse dell'amministrazione. In tale àmbito, dunque, rappresenta una legittima scelta di politica criminale quella di limitare la rilevanza penale alle condotte tenute in violazione di disposizioni di legge dal contenuto puntuale, sì da non lasciare all'operatore pubblico margini di discrezionalità (salvo a verificare - ma il tema qui non rileva - se ed in che misura ciò sia concretamente possibile).


L'induzione indebita ex art. 319 quater c.p., ma anche le fattispecie corruttive e la concussione, puniscono, invece, la strumentalizzazione della funzione pubblica, che può manifestarsi nella forma del mercimonio (nei reati di corruzione) o della prospettazione di determinazioni variamente pregiudizievoli per il privato interlocutore (induzione indebita e concussione), e che non presuppone necessariamente la direzione dell'attività istituzionale in contrasto con l'interesse pubblico (si pensi, solo per esemplificare, alla tradizionale figura della c.d. "corruzione impropria", ora riconducibile alla più ampia fattispecie tipizzata dall'art. 318 c.p., come ridisegnato dalla L. n. 190 del 2012).


Siffatti contegni, dunque, non solo possono concretamente essere tenuti dall'agente pubblico anche nell'esercizio di un'attività discrezionale, ma, anzi, proprio in tale ambito essi trovano il proprio terreno d'elezione, in ragione della maggior ampiezza del raggio d'azione riconosciuto al funzionario dalle norme di settore.


Sotto questo profilo, dunque, la doglianza si rivela manifestamente infondata.


2.2. Analoghi limiti di genericità e manifesta infondatezza presentano il secondo ed il terzo motivo di ricorso.


La sentenza impugnata evidenzia come l'attestazione di servizio redatta dal ricorrente, e che si assume mendace, non fosse funzionale solo al rimborso dell'indennità chilometrica, bensì anche alla percezione di ulteriori prestazioni economiche (ad esempio, i buoni pasto). Attraverso di essa, dunque, P. non ha attestato soltanto di essersi recato nei luoghi indicati, bensì anche lo svolgimento ininterrotto del servizio per nove ore e mezza, così da maturare il diritto ad ottenere quelle prestazioni ulteriori.


Ed é proprio questo il dato che la sentenza impugnata sottolinea e che il ricorso, invece, elude: il servizio svolto quel giorno dal ricorrente non é durato nove ore e mezza, perché , almeno per le prime due, egli é rimasto nei pressi della sua abitazione; né si é svolto ininterrottamente, perché , sempre attraverso il monitoraggio del suo telefono portatile, é stato possibile accertare che, poco dopo le 13.00, egli fosse di nuovo nei pressi di casa sua a (OMISSIS).


La testimonianza del tale B. - che secondo la difesa dovrebbe dimostrare che in quei comuni della provincia, quel giorno, P. effettivamente ci é andato - risulta perciò irrilevante, in quanto diverse sono le circostanze di fatto falsamente attestate (e rilevanti ai fini patrimoniali). Peraltro, su tale elemento di prova - diversamente da quanto si afferma in ricorso - la Corte di appello non ha affatto glissato, spiegando, anzi, come quelle dichiarazioni fossero contraddette da dati documentali (pag. 28, sent.), che il ricorrente si é limitato ad ipotizzare apoditticamente come errati.


2.3. E' fondato, invece, il quarto motivo di ricorso.


Non v'é dubbio che la questione del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4), in relazione al delitto di truffa, sia stata proposta con l'atto di appello, e che, sul punto, manchi del tutto in sentenza una motivazione.


Peraltro, considerando l'oggetto della falsa attestazione, tale da comportare l'indebita percezione di emolumenti di ammontare verosimilmente assai contenuto, la doglianza non si presenta manifestamente infondata.


Ragione per cui, sul punto, il processo dev'essere rinviato al giudice di merito per le valutazioni di competenza.


2.4. La questione dedotta con il quinto motivo di ricorso, così come proposta, esula, per un primo aspetto, dal sindacato consentito al giudice di legittimità.


La Corte di appello, infatti, ha ragionevolmente giustificato le ragioni della propria prognosi negativa circa la futura ricaduta del ricorrente nel delitto, valorizzando la non occasionalità delle sue condotte illecite e l'assenza di circostanze ostative al suo reinserimento nei ranghi dell'amministrazione di appartenenza. Di contro, le differenti circostanze addotte con il ricorso costituiscono elementi funzionali ad un giudizio di fatto, precluso al giudice di legittimità.


Quanto, poi, al possibile rientro in servizio, la sentenza lo valorizza come dato che, ove si realizzasse, potrebbe ragionevolmente agevolare la ricaduta nel delitto da parte di un soggetto con la descritta capacità a delinquere del P.: é piuttosto quest'ultimo, allora, l'aspetto tenuto in considerazione ai fini del giudizio prognostico ed indiscutibilmente rientrante tra i parametri dell'art. 133 c.p.. Sotto questo specifico profilo, dunque, la censura difensiva si rivela manifestamente infondata.


3. L'impugnazione avanzata nell'interesse dell'imputato D.F. é inammissibile.


3.1. Il primo motivo, con il quale si censura la valutazione delle dichiarazioni della S., é aspecifico.


La sentenza impugnata si sofferma sulle ragioni che conducono ad un giudizio di complessiva attendibilità di quella dichiarante (pag. 24). Il ricorso, dal suo canto, si limita essenzialmente a dissentire da tale valutazione, evocando condivisi principi giurisprudenziali e ad alcuni possibili elementi di riserva sull'affidabilità di costei (personalità prevaricatrice, ampie disponibilità economiche, collaborazione maturata in costanza di detenzione, imprecisione), senza tuttavia spiegare se ed in che modo essi minerebbero le relative dichiarazioni specificamente riguardanti i singoli fatti addebitati al ricorrente, al punto da ritenere manifestamente illogica la motivazione, che quei contributi dichiarativi ha invece valorizzato.


3.2. Analoghi limiti presenta il secondo motivo.


Senza misurarsi con gli argomenti rassegnati in sentenza, il ricorso ripropone la lettura alternativa delle risultanze istruttorie ivi disattesa e fondata sulla diversa interpretazione di brandelli di dichiarazioni od altre emergenze istruttorie, tuttavia completamente decontestualizzati, chiedendo perciò alla Corte di cassazione sostanzialmente una nuova valutazione del compendio probatorio, e dunque un giudizio di fatto che non le compete.


3.3. Il terzo motivo di ricorso é generico, oltre che manifestamente destituito di fondamento giuridico, nella parte in cui invoca la configurabilità dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p.: il ricorso, infatti, si limita a riproporre la questione, obliterando completamente le ragioni per le quali la Corte distrettuale ha respinto il relativo motivo di appello, evidenziando, in sintesi, come l'apporto offerto dal D.F. alla realizzazione delle varie condotte delittuose sia stato sostanzialmente paritario a quello della S., a nulla rilevando, ai fini che qui interessano, a chi debba farsi risalire l'iniziativa criminale. Perché possa configurarsi la "minima partecipazione", non é sufficiente una minore efficacia causale dell'attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, ma é necessario che il contributo da costui offerto si sia concretizzato in un ruolo del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento, da risultare trascurabile nell'economia generale dell'iter criminoso e da poter essere, in via prognostica, avulso dalla seriazione causale senza apprezzabili conseguenze pratiche sul risultato complessivo dell'azione criminosa. Nel caso di specie, invece, la capacità tecnica del ricorrente in materia di cronotachigrafi si é rivelata essenziale per la realizzazione del reato.


Non é consentita, infine, la censura in tema di diniego di attenuanti generiche, in quanto fondata sull'allegazione di generici elementi alternativi di valutazione e, quindi, strumentale ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, la cui motivazione é insindacabile in sede di legittimità, se non quando si presenti frutto di mero arbitrio o di ragionamento del tutto illogico, contraddittorio od immotivato.


4. Anche il ricorso avanzato per l'imputato C. non é ammissibile.


4.1. I primi due motivi, con cui si censura il giudizio di responsabilità per i reati di cui al capo 27), sotto il profilo sia della violazione della legge penale che del difetto di adeguata motivazione, sono anzitutto aspecifici, poiché costituiscono riproposizione degli argomenti già rassegnati al giudice di appello e da questi compiutamente confutati (pag. 39 s., sent.).


In ogni caso, sono manifestamente infondati.


Occorre tenere a mente che la contestazione in discussione ha ad oggetto soltanto un segmento della più ampia vicenda dell'ispezione condotta dalla S., con l'ausilio di altri suoi colleghi, sui cronotachigrafi degli automezzi della società "(OMISSIS)", rappresentata dal C.: vale a dire, quello relativo alla corruzione del carabiniere S., affinché - come in effetti é avvenuto questi formasse una falsa denuncia di furto di documenti aziendali, funzionale a dissimulare, ad un tempo, le infrazioni esistenti e le infedeltà degli ispettori.


Si tratta, dunque, di condotte delittuose distinte e successive nel tempo, rispetto all'eventuale costrizione o induzione, che - secondo la sua difesa - il ricorrente avrebbe subito ad opera della S.. E, come correttamente rilevato dalla Corte di appello, costui ben avrebbe potuto sottrarsi a quelle pressanti richieste in diversi modi, leciti o meno, che andavano dalla denuncia alle forze di polizia all'acquiescenza (così come ha fatto altro imprenditore, ovvero quel Castiglia, la cui posizione, proprio per questo, non é affatto assimilabile a quella del ricorrente, come la sentenza puntualmente illustra: pag. 40). Invece, C. ha pensato bene di assecondare l'ispettrice nel suo progressivo disegno illecito, condividendone le ulteriori iniziative illegali (appunto la corruzione del carabiniere e la costruzione del falso documento) e prendendovi parte attiva, del tutto consapevole e volontaria.


Non é esatto sostenere, infatti, come prova a fare la sua difesa, l'ontologica inconfigurabilità di un dolo di corruzione che maturi successivamente nel privato destinatario dell'altrui condotta costrittiva od induttiva, tanto più laddove, come in questo caso, l'attività corruttiva di costui sia rivolta verso un pubblico funzionario diverso dal costrittore-induttore e sia funzionale ad una prestazione del tutto differente da quella attesa da quest'ultimo.


E' ben possibile, cioé , in rerum natura, che un individuo, per far fronte alle pressioni illecite subite ad opera del pubblico agente (ma il discorso potrebbe valere per la vittima di qualsiasi altro reato suscettibile di comprometterne la libertà di autodeterminazione), opti scientemente e volontariamente per una soluzione a sua volta penalmente illegale. In tal caso, non si scorge ragione perché la sua condotta debba sottrarsi a sanzione. A norma dell'art. 42 c.p., comma 1, infatti, la riferibilità psichica della condotta all'agente - la c.d. suitas - può escludersi solo quando questi l'abbia tenuta senza coscienza né volontà; e, secondo il successivo art. 54, comma 3, il costringimento psichico derivante dall'altrui minaccia produce effetto esimente per la vittima soltanto nei limiti dello stato di necessità: ovvero della necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, da essa vittima non volontariamente causato né altrimenti evitabile.


Poiché é indiscusso che una siffatta situazione di soggezione, tale da annullare il volere del C., non sussistesse, non v'é alcun motivo per escluderne il dolo, risultando perciò manifestamente infondata la relativa allegazione difensiva.


4.2. Tale é pure il terzo motivo di ricorso, che é il prodotto di un'erronea interpretazione del testo della sentenza, indubbiamente infelice (pag. 44).


La Corte d'appello ha riqualificato come semplice la recidiva, originariamente contestata come reiterata e specifica; quindi, ha ritenuto di assegnare prevalenza, rispetto ad essa, alle circostanze attenuanti generiche, e non viceversa, come invece ipotizza la difesa. V'é solo che ha stimato di contenere la riduzione di pena per tali attenuanti in misura inferiore al terzo della pena base, ovvero nella stessa quantità di pena inflitta in aumento per continuazione per il falso documentale.


La pena, dunque, risulta determinata in modo corretto e senz'alcuna reformatio in peius.


4. Parzialmente fondata é l'impugnazione proposta nell'interesse di M..


4.1. Tanto dicasi in relazione alle imputazioni di cui ai capi 14) e 15), relative all'attività ispettiva da costui condotta, unitamente alla sua collega S., nei confronti della soc. coop. "Autotrasporti (OMISSIS)", amministrata da V.A..


La difesa contesta, infatti, la partecipazione del ricorrente all'ipotizzata induzione indebita, evidenziando l'incertezza probatoria su un dato di indubbia rilevanza: quello della sua avvenuta remunerazione da parte dell'imprenditore. Si tratta effettivamente di un profilo che, se non sul piano dell'oggettività del reato, può comunque rilevare in modo decisivo ai fini del dolo di concorso.


Sul punto, la motivazione della Corte di appello risulta assertiva e superficiale, operando sostanzialmente un richiamo recettizio ai relativi passaggi della sentenza di primo grado, dai quali risulterebbe che M. avrebbe lucrato "quanto meno alcuni orologi del valore di Euro 150 l'uno" (pag. 33, sent.).


In realtà, gli elementi di prova su cui il primo giudice fonda tale assunto non sono affatto perspicui. Come puntualmente evidenzia il ricorso, riportando anche graficamente gli estratti della relativa sentenza, il Tribunale ha valorizzato a tal fine la testimonianza dell' A., là dove questi avrebbe dichiarato che "il signore" gli aveva chiesto per sé degli orologi, da regalare a parenti ed amici. Ma é quello stesso giudice che, nel riferire quella indicazione al M., comunque dubita della correttezza della trascrizione delle parole del teste: si legge in nota, infatti (pag. 54, sent. Trib.), che "non si comprende se si riferisce alla S. e quindi ci sarebbe un errore di trascrizione, oppure, se le trascrizioni sono fedeli, si deve ritenere che il riferimento é a M.".


Vi é , dunque, nella sentenza un deficit logico indiscutibile, poiché é malcerto il dato storico su cui si fonda l'inferenza, violandosi in tal modo una delle regole essenziali del procedimento logico-deduttivo. E ciò tanto più risalta, se si pone mente al fatto che, stando all'imputazione, gli orologi dal valore di 150-200 Euro ognuno avrebbero rappresentato la remunerazione della S. e non del M., il quale é invece accusato di aver percepito un'imprecisata somma di denaro od altra utilità, delle quali, tuttavia, la sentenza non parla.


Considerato, allora, che non sono nitidamente delineati in sentenza i rapporti instauratisi tra M. e S. nella specifica vicenda, rimane da chiarire il ruolo da costui effettivamente svolto: se cioè - come sostiene la sua difesa - egli abbia agito correttamente per la parte di sua spettanza, ovvero abbia consapevolmente concorso al disegno illecito della sua collega, con possibili riflessi anche sull'addebitabilità a lui della truffa.


Un supplemento di motivazione su tali capi della sentenza é , pertanto, imprescindibile, dovendo perciò la decisione impugnata essere annullata con rinvio per tale parte.


Va rilevato incidentalmente, in proposito, che la truffa di cui al capo 15) non é ancora prescritta: il relativo termine, già sospeso e prorogato in reazione alle varie vicende processuali, era destinato scadere il 27 settembre 2020; allo stesso, però, va aggiunta la sospensione per ulteriori 64 giorni, a norma dell'art. 83, D.L. n. 18 del 2020, con conseguente slittamento di tale termine finale al 30 novembre 2020.


4.2. Riguardo all'induzione indebita di cui al capo 28), relativa alla già ricordata ispezione nei confronti della "(OMISSIS)" amministrata da C., il ricorso, invece, é inammissibile.


Esso si limita esclusivamente a censure di fatto, spigolando brani di prove dichiarative ed elaborandovi interpretazioni alternative, al fine di sostenere, in sintesi, che M. sarebbe intervenuto esclusivamente su sollecitazione di uno studio di consulenza, del quale egli era un mero cliente privato ed al quale C. si sarebbe rivolto al fine di trovare un modo per sottrarsi alle richieste della S.: sicché egli si sarebbe interessato alla vicenda all'unico scopo di neutralizzare le indebite pretese della propria collega.


Nemmeno la difesa ricorrente, tuttavia, contesta che proprio nelle sue mani C. abbia versato il denaro: e non si coglie per quale ragione quegli avrebbe fatto ciò, se effettivamente - come la difesa adduce - tale somma fosse stata destinata allo studio di consulenza. Né , per altro verso, si comprende a quale titolo tale remunerazione dovesse essere corrisposta a quello studio professionale: non a caso, di tale prestazione non risulta prodotta fattura od altra documentazione.


Pertanto, se si considera, altresì, che il ricorrente si é comunque inserito nella vicenda a titolo personale e nell'interesse del privato, si rivela del tutto lineare sotto il profilo logico, e quindi incensurabile in questa sede, la concorde deduzione dei giudici di merito, per cui la somma consegnatagli da C. non fosse affatto destinata allo studio di consulenza, ma abbia rappresentato la remunerazione indotta in corrispettivo dell'infedele condizionamento dell'attività istituzionale.


4.3. Inammissibile, infine, é pure la censura in tema di diniego delle attenuanti generiche, che - come detto in precedenza: p. 3.3. - é valutazione


riservata al giudice di merito e sindacabile dalla Corte di cassazione soltanto nei ) limiti dell'arbitrarietà o del ragionamento del tutto illogico, contraddittorio od immotivato.


Nello specifico, invece, tale mancato riconoscimento é stato giustificato dalla Corte di appello sulla base di argomenti specifici e concludenti, che resistono pure al parziale annullamento per alcune condotte oggetto d'addebito.


5. I ricorrenti F. e C., i cui ricorsi sono interamente inammissibili, debbono essere obbligatoriamente condannati - ai sensi dell'art. 616 c.p.p. - al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una loro assenza di colpa nella determinazione della causa d'inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila Euro per ognuno.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.E., in relazione ai capi 14) e 15), nonché nei confronti di P.G., limitatamente all'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 4, c.p., in relazione al reato di cui al capo 35), e rinvia per nuovo giudizio sui capi e punti ad altra sezione della Corte d'appello di Milano.


Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi.


Dichiara inammissibili i ricorsi di F. Giuseppe e C.P., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso in Roma, il 18 novembre 2020.


Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2021



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