La massima
In tema di abuso d'ufficio commesso anteriormente al d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 , integra l'elemento oggettivo del reato il reclutamento del personale da parte dell'amministratore di una società in house, senza il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica previste per gli enti pubblici dall' art. 35, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 , richiamato dall' art. 18, comma 1, d.l. 25 giugno 2008, n. 112 , con riferimento alle società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica, nel cui ambito sono comprese anche le società in house, a nulla rilevando il più lungo termine previsto dall'art. 23-bis del medesimo decreto per l'adozione dei regolamenti governativi relativi alla previsione della procedura ad evidenza pubblica per le società a totale partecipazione pubblica che gestiscono servizi di rilevanza economica. (Fattispecie relativa alla trasformazione di un preesistente rapporto di lavoro a tempo determinato relativo ad un dirigente di una società in house con la sua assunzione a tempo indeterminato.
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La sentenza integrale
Cassazione penale , sez. VI , 10/11/2017 , n. 3046
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza, in epigrafe indicata, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza che aveva condannato A.E. e S.M. per il reato di cui all'art. 323 c.p..
Agli imputati era stato contestato di aver, in concorso tra loro e previo accordo, - l' A., in qualità di presidente del consiglio di amministrazione di una società partecipata interamente dal Comune di Foggia alla quale era affidato lo svolgimento di un pubblico servizio (raccolta e smaltimento rifiuti), e il S., quale dirigente della medesima società, assunto a tempo determinato trasformato, in violazione di legge, il rapporto di lavoro esistente con quest'ultimo in rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dal primo giugno 2009, procurando al S. un ingiusto vantaggio economico.
Secondo l'ipotesi accusatoria, erano stati violati il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18, comma 1, (convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 193), il quale dettava le regole per le procedure di reclutamento del personale da parte delle società in mano pubblica di gestione dei servizi pubblici locali, e l'art. 12 del regolamento, approvato il primo aprile 2009 dalla stessa società per le assunzioni: l'art. 18 cit. aveva imposto alle suddette società di adottare a far data dal 20 ottobre 2008 propri criteri per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3; il regolamento adottato dalla società in questione aveva stabilito, a sua volta, l'accesso alla qualifica dirigenziale mediante concorso pubblico.
1.1. Secondo il primo Giudice, alla data dell'assunzione del S. (22 maggio 2009), la legge ora citata non prevedeva alcun obbligo di selezione concorsuale alle società a totale partecipazione pubblica che gestivano servizi pubblici locali, limitandosi (art. 23-bis) a demandare a regolamenti governativi da adottare entro il 31 dicembre 2009 il compito di fissare le procedura ad evidenza pubblica per il reclutamento del personale (regolamento effettivamente poi adottato dal Governo il 7 settembre 2010 n. 168, pubblicato il 12 ottobre successivo). Piuttosto doveva essere applicato al caso in esame l'art. 12 del regolamento adottato dalla s.p.a., che, con contenuto precettivo, stabiliva che l'accesso alla qualifica dirigenziale dovesse avvenire per concorso pubblico per esami e titoli, nella specie pretermesso per l'assunzione da parte del S. della qualifica a tempo indeterminato, che era stata invece attuata con la mera conversione del precedente rapporto a termine.
Il Tribunale, al riguardo, aveva rilevato che il regolamento adottato dalla società, se pur non aveva i requisiti previsti dalla L. n. 400 del 1988 e quindi inidoneo ad integrare il dettato dell'art. 323 c.p., poteva tuttavia senz'altro definirsi "norma interposta" tra l'attività regolamentata (l'assunzione dei dirigente) e la legge sul pubblico impiego espressamente menzionata nella sua premessa (secondo D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, "l'assunzione nelle amministrazioni pubbliche avviene con contratto individuale di lavoro: a) tramite procedure (...) volte all'accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura adeguata l'accesso dall'esterno").
1.2. Nel rigettare gli appelli degli imputati, la Corte di appello fissava i seguenti punti:
- la mancata effettuazione della procedura concorsuale aveva comportato nel caso in esame la violazione del D.L. cit., art. 18, comma 1, che imponeva alle "società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica" di adottare con propri provvedimenti criteri e modalità per il reclutamento del personale e il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi indicati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3;
- la società in questione aveva la veste prevista dall'art. 18, comma 1, cit.;
- dovevano ritenersi irrilevanti le vicende abrogative e modificative che avevano interessato negli anni successivi l'art. 18 cit. sia perchè la vigente normativa aveva mantenuto per la società in questione i medesimi obblighi (il D.Lgs. n. 175 del 2016, che aveva abrogato l'art. 18, comma 1, aveva tuttavia introdotto all'art. 19, comma 2, una normativa analoga, se pur con formula più ampia, stabilendo che tutte le società a controllo pubblico siano tenute a fissare "con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi, anche di derivazione Europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei principi di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 35, comma 3. In caso di mancata adozione dei suddetti provvedimenti, trova diretta applicazione il suddetto D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3") sia perchè, in ogni caso, non veniva in applicazione, in ordine alle sorti della suddetta normativa, l'art. 2 c.p., comma 2;
- la tesi difensiva, secondo cui la società in questione doveva considerarsi quale società "in house", secondo i principi fissati dalle Sezioni Unite civili (ovvero una società, dal cui quadro statutario, emerga che sia stata costituita da uno o più enti pubblici per l'esercizio di pubblici servizi e rispetto alla quale solamente i medesimi enti siano soci - ove essa esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e sia assoggettate a forme di controllo della gestione analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, Sez. U civ., n. 26936 del 02/12/2013, Rv. 628673), con conseguente applicazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 23-bis (oggetto prima nel 2001 di un referendum abrogativo e poi, riproposta la normativa con il D.L. n. 138 del 2011, della declaratoria di illegittimità costituzionale nel 2012) non avrebbe comunque giovato agli imputati, dovendo comunque anche tali società rispettare l'obbligo nel reclutamento del personale della pubblica evidenza previsto per gli enti pubblici dal D.Lgs. n. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 35 e 36;
- ancorchè dovesse ritenersi che la norma regolamentare richiamata dal primo giudice non fosse idonea ad integrare il parametro di cui all'art. 323 c.p. (sia perchè carente dei requisiti della fonte normativa di natura regolamentare, sia perchè non avente i caratteri di norma interposta), la condotta posta in essere dagli imputati veniva ad integrare l'azione tipica di cui all'art. 323 c.p., perchè comunque posta in violazione dei principi di cui al D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 35, comma 3;
- in ogni caso, anche nell'ipotesi astratta che non fosse applicabile nessuno dei suddetti parametri, la condotta sarebbe stata contraria al precetto dell'art. 97 Cost, che impone l'accesso agli impieghi della P.A. mediante concorso.
- doveva ritenersi conseguito da parte del S. un ingiusto profitto, consistente nei benefici patrimoniali accordatigli tramite il contratto (tempo indeterminato, clausola di durata settennale garantita da recessi anticipati, continuare a svolgere la professione di commercialista) stipulato in violazione di legge; pertanto perdevano di rilievo le censure difensive sulla mancanza di un effettivo beneficio (la retribuzione sarebbe stata la stessa anche nel contratto a tempo determinato) e della rispondenza delle clausole contrattuali alla legge o ai contratti collettivi;
- il dolo del reato contestato era da rinvenirsi in elementi sintomatici, quali la mancanza di premura o urgenza dovuta alla necessità di realizzare un pubblico interesse, la mancanza di una clausola che giustificasse perchè dopo diverse proroghe del contratto a termine si fosse deciso di procedere alla stabilizzazione a poco più di un mese dall'adozione di un regolamento interno che avrebbe imposto l'assoggettamento del reclutamento del personale a concorso pubblico; il mancato raggiungimento da parte del S. degli obiettivi connessi al suo incarico; la natura anomala dell'operazione di conversione del rapporto di lavoro nella storia delle assunzioni della società, l'inconsapevolezza da parte del Comune, unico socio, della stabilizzazione del rapporto di lavoro; la tesi del perseguimento di un pubblico interesse non rilevava laddove, come nella specie, esso costituiva la mera occasione per conseguire un vantaggio patrimoniale per sè od altri.
2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso entrambi gli imputati con atti distinti, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
3. I ricorrenti hanno denunciato, con convergenti declinazioni, alcuni motivi comuni.
3.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 597 c.p.p. (primo e secondo motivo del ricorso A.; primo motivo del ricorso S.).
La Corte di appello avrebbe attinto un "punto della decisione" di primo grado non oggetto di appello da parte degli imputati, costituito dall'esclusione da parte del Tribunale della "violazione di legge" contestata nel capo di imputazione relativa al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18; e avrebbe inoltre ritenuto la violazione dell'art. 97 Cost., mai contestata nell'imputazione.
3.2. Violazione di legge, in relazione al D.L. n. 112 del 2008, artt. 18 e 23-bis e all'art. 323 c.p. (terzo motivo dei ricorsi A. e S.).
Difetterebbe l'elemento costituivo del reato della violazione di legge o regolamento.
L'art. 18 cit., comma 1 si applicherebbe soltanto alle società a partecipazione pubblica che gestiscono servizi locali privi di rilevanza economica, mentre per le quelle che gestiscono servizi locali di rilevanza economica - come la società in questione - doveva applicarsi il regime previsto dall'art. 23-bis D.L. cit., con conseguente slittamento alla data di entrata in vigore del regolamento ivi previsto degli obblighi da esso derivanti in materia di reclutamento del personale.
Pertanto, esclusa l'applicabilità al caso in esame del cit. art. 18, comma 1, non poteva essere neppure applicato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3, che era richiamato dalla suddetta disposizione.
In ogni caso, non potrebbe costituire elemento costituivo del reato la violazione dell'art. 12 del regolamento interno della s.p.a., difettando i requisiti formali e sostanziali del "regolamento" di cui all'art. 232 c.p..
Nel ricorso A. si fa presente altresì che l'art. 23-bis cit. è stato abrogato prima in forza di referendum nel 2011 e che la normativa di seguito dettata sul punto (D.L. n. 138 del 2011, art. 4, comma 17, conv. con mod. nella L. n. 148 del 2011) è stata oggetto di pronuncia di incostituzionalità nel 2012.
3.3. Violazione dell'art. 323 c.p., relativamente all'ingiusto vantaggio patrimoniale (quinto motivo del ricorso A.; quarto motivo del ricorso S.).
La sentenza impugnata avrebbe erroneamente ravvisato l'ingiusto vantaggio patrimoniale nel tempo indeterminato del rapporto di lavoro, nella clausola di durata settennale garantita e nella possibilità di svolgere contemporaneamente anche la professione privata, in quanto si trattava di benefici patrimoniali comunque conformi alla legge o ai contratti collettivi; relativamente al ricorso A., anche vizio di motivazione sul punto, non avendo la Corte di appello fornito risposta al motivo di appello al riguardo.
3.4. Violazione dell'art. 323 c.p. in relazione al dolo intenzionale (sesto motivo del ricorso A.; quinto motivo del ricorso S.).
L'assunzione del S. venne a realizzare un indubbio vantaggio per la società, avendo questi sostituito due distinti funzionari con notevole risparmio per l'azienda, evitando un vuoto nella gestione non colmabile con risorse interne e comunque applicando una prassi diffusa di stabilizzare rapporti oggetto di ripetute proroghe, così sanando situazioni illegittime; relativamente al ricorso A., anche vizio di motivazione sul punto, non avendo la Corte di appello fornito risposta al motivo di appello al riguardo.
3.5. A. inoltre ha dedotto:
- violazione dell'art. 323 c.p., per l'erronea contestazione della violazione dell'art. 97 Cost., comma 4, che, lasciando comunque al legislatore la facoltà di legiferare diversamente, non sarebbe comunque applicabile alla società concessionaria, che resta pur sempre di natura privata, come d'altronde sarebbe di natura privatistica il rapporto di lavoro nelle aziende municipalizzate anche nella fase costitutiva (quarto motivo di ricorso).
- ad integrazione del secondo dei motivi comuni come sopra illustrati, vizio di motivazione, per non aver la Corte di appello fornito adeguata motivazione al motivo di appello in cui erano richiamate pertinenti argomentazioni sulla base di un parere "pro veritate" allegato. In particolare, si contesta come erronea la conclusione tratta dai giudici di merito secondo cui le parti avrebbero inteso "trasformare" e quindi costituire un contratto a tempo indeterminato (mentre dall'esame del contratto risulterebbe la volontà delle parti di far riferimento ad unico contratto con decorrenza dal 28 marzo 2008).
3.6. S. ha denunciato altresì la violazione dell'art. 2 c.p., comma 2, essendo stato abrogato con il D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 28, lett. g) e l'art. 18 cit., che costituiva la fonte normativa "mediata" o "indiretta" incidente sugli elementi costitutivi del reato, divenendo pertanto parte integrante della norma incriminatrice (secondo motivo di ricorso).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi non hanno fondamento, lambendo in alcuni casi l'inammissibilità. Per ragioni sistematiche e al fine di evitare ripetizioni, saranno esaminati i motivi nell'ordine con cui sono stati in premessa illustrati.
2. Il primo motivo comune, con cui si denuncia la reformatio in peius della decisione di primo grado, non ha fondamento alcuno.
Va ribadito che, ai fini dell'individuazione dell'ambito di cognizione attribuito al giudice di secondo grado dall'art. 597 c.p.p., comma 1, per "punto della decisione" deve ritenersi quella statuizione della sentenza che può essere considerata in modo autonomo, non anche le argomentazioni esposte in motivazione, che riguardano il momento logico e non già quello decisionale del procedimento. Ne deriva che, in ordine alla parte della sentenza suscettibile di autonoma valutazione che riguarda una specifica questione decisa in primo grado, il giudice dell'impugnazione può pervenire allo stesso risultato cui è pervenuto il primo giudice anche sulla base di considerazioni e argomenti diversi da quelli considerati dal primo giudice o alla luce di dati di fatto non valutati in primo grado, senza, con ciò, violare il principio dell'effetto parzialmente devolutivo dell'impugnazione (tra tante, Sez. 5, n. 40981 del 15/05/2014, Giumelli, Rv. 261366).
I ricorrenti nella specie riferiscono la dedotta violazione non alla decisione, bensì alla motivazione attraverso la quale i Giudici di appello sono pervenuti alla conferma della decisione di primo grado.
3. Anche il secondo motivo comune non ha fondamento.
Deve osservarsi che il D.L. n. 112 del 2008, art. 18 ha provveduto immediatamente a "bloccare" tempestivamente i criteri di assunzione per le società che gestiscono servizi pubblici a totale partecipazione pubblica (ivi comprese, naturalmente, le società in house, che in detto ambito ricadono pienamente, cfr. Sez. U civ. n. 7759 del 27/03/2017, Rv. 643551), rendendoli conformi ai principi di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3, mediante la modifica della normativa interna imposta alle stesse società nello stretto termine di 60 giorni, salva una ulteriore rivisitazione della normativa stessa, sempre da parte delle medesime società, al momento dell'emanazione dei regolamenti delegati in tema di reclutamento di personale.
Il legislatore ha inteso quindi introdurre, a carico delle predette società a partecipazione pubblica vincoli di trasparenza, imparzialità, pubblicità ed economicità in particolare per il reclutamento del personale che, di regola, l'art. 97 Cost. impone per le pubbliche amministrazioni e per gli enti pubblici strettamente intesi.
Nel più lungo termine previsto dall'art. 23-bis D.L. cit. è stato poi previsto che le società in house e le società a totale partecipazione pubblica che gestiscono pubblici servizi locali di rilevanza economica (e agli altri soggetti interessati dalla norma) per le procedure di reclutamento del personale (oltre che per l'approvvigionamento di beni e servizi) si sarebbero dovute comunque adeguare ai regolamenti delegati, i quali avrebbero previsto l'obbligatoria adozione di "modalità di reclutamento ad evidenza pubblica", e non solo il rispetto dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, che tali procedure non prevedeva necessariamente.
In particolare, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3, vigente all'epoca dei fatti, era il seguente: "Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all'ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione; b) adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire; c) rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori; d) decentramento delle procedure di reclutamento; e) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali".
Dunque, la norma ora citata, pur non imponendo necessariamente che l'assunzione potesse avvenire solo ad esito di una procedura di concorso pubblico, conteneva disposizioni assai stringenti quanto ai criteri da osservare nel reclutamento del personale (procedure di selezione nel rispetto dei principi di trasparenza, pubblicità e imparzialità).
Ne consegue che è alla data della stabilizzazione del rapporto di lavoro del S. (22 maggio 2009), la società Amica spa era comunque tenuta alla applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, comma 3, ed al rispetto dei criteri ivi indicati in sede di assunzione.
Pertanto, come esattamente rilevato dalla Corte di appello, il parametro violato era pur sempre l'art. 18 D.L. cit., indipendentemente dalle disposizioni attuative contenute nel regolamento della società, che a quei criteri si dovevano adeguare.
Nella specie, infatti, come contestato nel capo di imputazione, la trasformazione del rapporto di lavoro del S. era avvenuto al di fuori di qualsiasi procedura di "selezione pubblica", prevista dall'art. 35 D.Lgs. cit..
4. Non può essere accolto anche il terzo motivo comune, relativo all'ingiusto vantaggio patrimoniale.
Il delitto di abuso d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta (che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento), che dell'evento di vantaggio patrimoniale (che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo).
La valutazione della cd. doppia ingiustizia postula quindi che non si può far discendere l'ingiustizia del vantaggio soltanto dall'illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta.
L'evento "di vantaggio patrimoniale", se deve derivare dalla deliberata strumentalizzazione della funzione da parte del pubblico agente che, abusando della sua funzione per finalità di carattere privatistico, abbia violato specifici parametri normativi al fine di favorire o danneggiare qualcuno, deve risultare comunque non spettante in base al diritto oggettivo (per tutte, tra le tante, Sez. 6, n. 17676 del 18/03/2016, Florio, Rv. 267171).
Nella specie, i giudici di merito hanno ravvisato l'ingiustizia del vantaggio nei "benefici" ottenuti dal S. grazie alla violazione di legge (chiamata diretta; rapporto a tempo indeterminato, clausola di durata settennale garantita da recessi anticipati, possibilità di svolgere parallelamente la professione di commercialista).
Proprio la "stabilizzazione" del rapporto lavorativo ottenuta dal S. grazie alla violazione dì legge rendeva irrilevanti le prospettazioni dei ricorrenti che in questa sede sono state reiterate, anche sotto forma di vizio di motivazione, quanto alla legittimità degli altri vantaggi (retribuzione, la clausola di garanzia sulla recedibilità, la possibilità di svolgere attività professionale).
5. Egual sorte hanno le censure versate dai ricorrenti nel motivo relativo al dolo intenzionale.
Sul punto, la Corte di appello ha fornito adeguata e non censurabile motivazione, indicando gli elementi sintomatici rivelatori dell'elemento soggettivo del reato.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere infatti desunta anche da una serie di indici fattuali, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento (tra tante, Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633).
Secondo la giurisprudenza di legittimità assumono rilievo ad esempio l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento.
A fronte dell'argomentata conclusione della Corte territoriale, i ricorrenti si sono limitati a riproporre la tesi già esaminata e superata in sede di appello, finendo per formulare censure aspecifiche.
La mera compresenza di una finalità pubblicistica non infatti elide di per sè la prova del dolo intenzionale, qualora il perseguimento del pubblico interesse non costituisca - come ha ritenuto la Corte di appello - l'obiettivo principale dell'agente (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
6. Sulla base di quanto premesso al par. 3 del "considerato in diritto", è assorbita, in quanto ultronea, la deduzione di A. in ordine all'erronea contestazione della violazione dell'art. 97 Cost., comma 4.
7. Il motivo di A. relativo a vizi di motivazione è sia generico, nella misura in cui invita la Corte di cassazione alla lettura del parere con il compito di trarre essa stessa i motivi di annullamento, e dall'altro di merito, là dove fornisce una diversa lettura, nella prospettiva del ricorrente, più plausibile del contratto di lavoro.
8. Non ha fondamento il motivo con cui è stata denunciata la violazione dell'art. 2 c.p., comma 2.
Nell'abuso di ufficio connesso ad una violazione di legge, questa si pone invero come mero presupposto di fatto per l'integrazione del delitto e la sussistenza di tale requisito deve essere ricercata e valutata con riferimento al tempo in cui il reato è stato commesso, con la conseguenza che ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 323 c.p. è irrilevante l'abrogazione sopravvenuta della disposizione di legge (tra tante, Sez. 6, n. 18149 del 07/04/2005, Fabbri, Rv. 231342).
9. Per le considerazioni su esposte, dunque, i ricorsi devono essere rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Giova rilevare che la dedotta prescrizione del reato non risulta ancora maturata, in quanto il relativo periodo, tenuto conto delle sospensioni, deve ancora spirare (nella specie, il 4 dicembre 2017).
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 10 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2018