Reati Fallimentari
L’accusa di amministratore di fatto rappresenta una delle più pericolose insidie del diritto penale d'impresa, in ragione della natura sfuggente di questa complessa figura giuridica, che elude una formale investitura e si radica sull’effettivo esercizio di poteri gestionali.
L'amministratore di fatto, collocandosi nel mezzo tra forma e sostanza, solleva interrogativi di diritto e di fatto che richiedono un’analisi ponderata e approfondita.
La sua rilevanza emerge con particolare attenzione nei casi di bancarotta fraudolenta, dove il ruolo gestionale "di fatto" assurge a elemento determinante per la qualificazione della responsabilità penale. In questa prospettiva, la presente riflessione si propone di indagare le modalità di resistenza a tale accusa, alla luce di consolidati orientamenti giurisprudenziali e dottrinali.
La nozione di amministratore di fatto si fonda sul principio di effettività, che privilegia la sostanza delle attività gestorie rispetto alla forma dell’investitura. Ai sensi dell’art. 2639 c.c., il soggetto che esercita, in modo continuativo e significativo, poteri tipici dell’amministrazione, anche in assenza di una nomina formale, assume la qualifica di amministratore di fatto, con tutte le conseguenze sul piano della responsabilità penale.
L’effettività è il cardine di questa costruzione: l’attribuzione della qualifica non si fonda sulla mera titolarità della carica, ma sull’effettivo esercizio di funzioni amministrative. La giurisprudenza, seguendo un approccio pragmatico, non si limita a constatare la presenza di atti gestionali isolati, ma valuta l’intero contesto operativo, individuando segnali concreti di un ruolo decisionale effettivo e continuativo (Cass. pen., n. 36556/2022).
L’individuazione dell’amministratore di fatto si basa sull’analisi di "indici sintomatici", concepiti come parametri oggettivi in grado di delineare la posizione gestoria.
Tra questi assume rilievo la gestione dei rapporti aziendali, intesa come il controllo diretto e concreto delle relazioni con dipendenti, fornitori o clienti, che può costituire un segnale evidente dell’esercizio di poteri direttivi.
Ugualmente significativa è la partecipazione alle decisioni strategiche, laddove il soggetto risulti coinvolto nelle scelte determinanti per l’orientamento dell’impresa, con particolare incidenza nei momenti di crisi o in occasione di operazioni straordinarie.
Si aggiunge, infine, l’intervento nelle decisioni economico-finanziarie rilevanti, che si manifesta nella capacità di incidere su scelte contrattuali o nella gestione dei flussi economici, aspetti essenziali per il funzionamento della struttura societaria.
Questi indicatori, pur non esaustivi, costituiscono i principali strumenti attraverso cui il giudice può valutare, in concreto, l’effettivo coinvolgimento del soggetto nella gestione societaria. La loro analisi consente di accertare se l’attività svolta risponda ai requisiti di continuità e significatività richiesti per configurare la figura dell’amministratore di fatto, garantendo così una ricostruzione coerente e fondata sul principio di effettività.
La nozione di amministratore di fatto si fonda su due requisiti essenziali, che definiscono il perimetro entro cui tale figura può essere riconosciuta.
Il primo è la continuità, che esclude qualsiasi carattere episodico o sporadico delle attività gestorie. È necessario, infatti, che le azioni del soggetto si protraggano nel tempo, evidenziando una presenza stabile e costante nella conduzione dell’ente.
Il secondo requisito è la significatività, ovvero l’incidenza rilevante dei poteri esercitati sul funzionamento dell’ente, anche laddove tali poteri non comprendano l’intera gamma delle competenze proprie di un amministratore formale.
La giurisprudenza, con riferimento alla continuità, ha sottolineato che il soggetto deve essere inserito in modo organico nel tessuto decisionale e operativo della società, partecipando in maniera stabile alle dinamiche gestionali. La sentenza Cass. pen., n. 8479/2016 ribadisce che anche una funzione apparentemente settoriale o limitata può risultare rilevante, qualora si collochi in un quadro di attività ripetute e continuative.
Sul piano della significatività, è stato osservato che non è necessario esercitare tutti i poteri tipici dell’amministrazione, ma è sufficiente un contributo determinante in ambiti strategici o operativi. La sentenza Cass. pen., n. 45134/2019 ha chiarito che tale contributo può manifestarsi nella definizione delle strategie aziendali, nella gestione dei rapporti con dipendenti e fornitori o nella capacità di influire su decisioni economico-finanziarie rilevanti. Ciò comporta che anche ruoli apparentemente subordinati, se caratterizzati da poteri effettivi e decisivi, possono configurare la figura dell’amministratore di fatto.
Un punto fondamentale è che l’accertamento di questi requisiti spetta al giudice di merito, il quale deve basarsi su una valutazione complessiva e logica degli elementi probatori. Come affermato nella sentenza Cass. pen., n. 22108/2015, il giudizio sulla continuità e sulla significatività deve essere ancorato a dati oggettivi, evitando interpretazioni arbitrarie o presunzioni non suffragate da fatti concreti.
La combinazione di questi due requisiti rende la figura dell’amministratore di fatto estremamente flessibile, ma al contempo esige un rigoroso controllo giudiziale per evitare che tale nozione venga applicata in maniera indiscriminata. La sentenza Cass. pen., n. 36556/2022 ha ulteriormente rafforzato questa impostazione, evidenziando che la nozione di continuità e significatività deve essere interpretata in relazione al contesto specifico dell’ente, tenendo conto della complessità organizzativa e del peso delle decisioni assunte dal soggetto.
La difesa contro l’accusa di amministratore di fatto richiede una strategia strutturata e multilivello, capace di coniugare elementi fattuali e giuridici per smontare i presupposti dell’imputazione. L’obiettivo principale è dimostrare l’assenza dei requisiti che la giurisprudenza considera essenziali per l’attribuzione della qualifica.
Un primo e fondamentale approccio consiste nella contestazione degli indicatori di gestione, attraverso cui si cerca di dimostrare che il soggetto non ha esercitato un ruolo gestionale significativo.
In questa prospettiva, si punta a evidenziare la mancanza di continuità, sottolineando che eventuali interventi siano stati episodici o sporadici, privi della stabilità necessaria per configurare la figura dell’amministratore di fatto. In questi casi, è fondamentale insistere sull’assenza di autonomia decisionale, dimostrando che le attività svolte dal soggetto erano subordinate a direttive superiori o a vincoli esterni. Un esempio paradigmatico è offerto dalla sentenza Cass. pen., n. 4865/2021, secondo cui un soggetto che si limiti a svolgere mansioni esecutive, senza esercitare un’autonoma capacità decisionale, non può essere qualificato come amministratore di fatto.
Un secondo aspetto della strategia difensiva è la valorizzazione del ruolo formale rivestito dal soggetto. In questa direzione, è utile dimostrare che le attività contestate rientrano nei compiti di figure formali diverse, come l’institore o il direttore operativo, le cui competenze possono legittimamente sovrapporsi, senza però sconfinare nei poteri tipici dell’amministratore. La giurisprudenza riconosce che l’attribuzione del ruolo di amministratore di fatto richiede un quid pluris rispetto a tali figure, che restano nell’alveo di ruoli subordinati o settoriali.
Un altro elemento difensivo centrale è il difetto di prova, che può essere evidenziato qualora l’accusa non riesca a dimostrare con sufficiente chiarezza il coinvolgimento gestionale del soggetto. In particolare, la giurisprudenza ha stabilito che il giudizio sulla sussistenza degli elementi sintomatici deve essere sorretto da una motivazione congrua e logicamente coerente. La sentenza Cass. pen., n. 8479/2016 ha sottolineato come un’accusa basata su presunzioni o elementi insufficientemente argomentati non possa reggere al vaglio giurisdizionale.
Infine, un’efficace linea difensiva si concentra sull’esclusione della cogestione, dimostrando che eventuali atti gestionali non si sono tradotti in un inserimento organico nella vita societaria. Anche in presenza di una procura generale, è necessario dimostrare che questa non abbia portato all’esercizio effettivo e continuativo di poteri gestori. La sentenza Cass. pen., n. 45134/2019 ha chiarito che l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto richiede la prova di un’attività concreta e continuativa, che non può limitarsi alla mera potenzialità derivante dalla procura.
In sintesi, la difesa dall’accusa di amministratore di fatto si basa su una combinazione di contestazioni puntuali e dimostrazioni fattuali, volte a minare il quadro probatorio dell’accusa e a rafforzare l’idea che il ruolo rivestito dal soggetto non soddisfi i requisiti di continuità, significatività e autonomia gestionale richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza.
Le indicazioni fornite rappresentano una sintesi delle principali linee difensive, fondate sulla mia esperienza professionale. Tuttavia, ogni caso è unico e richiede un’analisi specifica delle circostanze e delle prove disponibili. Se sei accusato di un reato fallimentare o tributario, è fondamentale affidarsi alla competenza e all’esperienza di un avvocato penalista specializzato, che possa fornire un’assistenza qualificata e personalizzata per tutelare al meglio i tuoi diritti.
Avv. Salvatore del Giudice