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Corruzione per l'esercizio della funzione o impropria: che cos'è e quando si configura il reato previsto dall'art. 318 c.p.

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Corruzione per l'esercizio della funzione

La corruzione rappresenta un fenomeno che, più di ogni altra forma di criminalità, insidia l’architettura della pubblica amministrazione, alterandone le finalità e mettendo a rischio i valori costituzionali di imparzialità e buon andamento.

I fenomeni corruttivi determinano, inoltre, pesanti ricadute sul piano economico e culturale.

In primo luogo, la corruzione riduce l’efficienza del sistema economico, scoraggiando gli investimenti esteri e limitando la concorrenza interna. Ed invero, gli attori privati si trovano costretti a competere in un sistema “drogato” da favoritismi e compromessi, dove le capacità e le innovazioni vengono penalizzate rispetto ai legami personali e alle influenze indebite. Come osservato dalla Banca Mondiale, la corruzione rappresenta una "tassa occulta" che sottrae risorse vitali e comprime la produttività del settore pubblico e privato. (World Bank, Helping Countries Combat Corruption: The Role of the World Bank, 1997).

In secondo luogo, l’impatto della corruzione è devastante anche sul piano culturale, poiché altera i valori della comunità, inducendo un atteggiamento di tolleranza verso pratiche illecite e favorendo una cultura dell'opportunismo, in cui la lealtà alle istituzioni è erosa a favore di un sistema di relazioni informali e di favoritismi personali.

Questa “corruzione culturale” si traduce in una minore coesione sociale e nella perdita di fiducia nei confronti delle istituzioni e della giustizia, fattori che indeboliscono il tessuto sociale e riducono le potenzialità di crescita e innovazione. Non a caso, Transparency International ha segnalato come la percezione di alti livelli di corruzione sia direttamente associata a bassi livelli di sviluppo economico e a un minore indice di innovazione (Corruption Perceptions Index, Transparency International, 2019).

In altri termini, la corruzione diviene una trappola che frena non solo la crescita economica ma anche l’evoluzione culturale e sociale, impedendo al sistema di progredire verso standard di equità e meritocrazia e generando un circolo vizioso che perpetua sfiducia e inefficienza.

Nel nostro paese, il contrasto alla corruzione ha richiesto un intervento normativo capillare e un costante aggiornamento interpretativo da parte della giurisprudenza, al fine di c le pressioni e le interferenze private sulla funzione pubblica.

L’articolo 318 c.p., che disciplina la corruzione per l’esercizio della funzione, rappresenta uno degli strumenti predisposti dal nostro ordinamento per la repressione dei fatti corruttivi. La fattispecie criminosa non punisce il singolo atto illecito, ma sanziona la disponibilità della funzione pubblica al servizio di interessi privati, anche in assenza di uno scambio corruttivo specifico.

In tal senso, l’art. 318 c.p. è finalizzato a salvaguardare l’autonomia e la neutralità della pubblica amministrazione, impedendo che le funzioni pubbliche vengano piegate a un vero e proprio “mercimonio” delle cariche, fenomeno che rischia di delegittimare profondamente il ruolo istituzionale e minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.


1. Inquadramento normativo e storico dell'art. 318 c.p.

L’articolo 318 del Codice Penale, come modificato dalla Legge n. 190 del 2012 (nota come “Legge Severino”), disciplina la corruzione per l'esercizio della funzione (o corruzione impropria), sanzionando chi, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve o accetta la promessa di denaro o di altra utilità.

La sanzione prevista va dai tre agli otto anni di reclusione, una pena che segnala la gravità della condotta del pubblico ufficiale.

Il testo attuale è il risultato di un processo di riforma volto a colpire non solo gli atti specifici di corruzione ma anche le situazioni di corruzione “sistemica” o “ambientale”. Si è voluto, infatti, contrastare le situazioni in cui il pubblico ufficiale offre la propria funzione per scopi di interesse privato, anche in assenza di un nesso diretto con atti amministrativi specifici.


2. La corruzione impropria prima e dopo la riforma del 2012

Prima dell’introduzione della Legge Severino, la corruzione impropria era disciplinata da una versione differente dell’art. 318 c.p., che prevedeva la necessità di un collegamento diretto tra il vantaggio economico e un atto specifico dell’ufficio. Tale configurazione richiedeva, secondo la giurisprudenza dell’epoca, che la condotta corruttiva fosse collegata a un atto determinato o determinabile, rappresentando così una retribuzione indebita per un’azione concreta svolta dal pubblico ufficiale.

La corruzione veniva intesa secondo un modello “sinallagmatico” o di scambio, per il quale la dazione del denaro o dell’utilità doveva essere proporzionata e direttamente legata all’atto del pubblico ufficiale. Questa impostazione, tuttavia, si rivelava insufficiente per contrastare fenomeni di corruzione più diffusi, dove la funzione stessa del pubblico ufficiale era messa a disposizione per un “mercato” delle funzioni pubbliche (Vannucci).


3. La Legge Severino: l'ampliamento della tutela e la figura del “pubblico ufficiale a libro paga”

La riforma introdotta con la Legge n. 190 del 2012 ha determinato un cambio di passo significativo, con l'introduzione di una norma più ampia, che tutela l'imparzialità della pubblica amministrazione senza più ancorarsi a uno specifico atto d’ufficio.

Con la nuova formulazione dell'art. 318 c.p., non è più necessario identificare un singolo atto per cui sia stato fornito un compenso indebito, ma è sufficiente che il pubblico ufficiale riceva vantaggi “per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”.

La scelta di una impostazione più ampia permette di considerare il reato anche nelle situazioni di corruzione ambientale, ove il pubblico ufficiale si trovi “a libro paga” di un privato, offrendo il proprio ruolo in modo stabile per favorirne gli interessi.

Questo concetto di corruzione “sistemica” rappresenta una novità rispetto alla disciplina previgente.

La giurisprudenza successiva alla riforma ha chiarito che la corruzione ex art. 318 c.p. può configurarsi anche in assenza di un rapporto sinallagmatico tra utilità ricevuta e atti specifici, rompendo così l’interpretazione precedente.

La modifica normativa operata con la L. n. 190 del 2012, ha trasposto nella norma un orientamento giurisprudenziale che sanzionava espressamente la corruzione per la funzione, rompendo con l'impostazione propria del dispositivo normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto dell'ufficio (contrario o dovuto) ed accettazione di promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico agente (cfr. sul punto Sez. 6, n. 47271 del 25/09/2014, Casarin, Rv. 260732).

Il reato di corruzione per l'esercizio della funzione ex art. 318 c.p.

4. L’elemento oggettivo e soggettivo del reato

La condotta incriminata dall’art. 318 c.p. si configura quando il pubblico ufficiale accetta indebitamente denaro o altre utilità in connessione con l’esercizio della propria funzione. L’utilizzo del termine “per l’esercizio delle sue funzioni” indica che è sufficiente che il beneficio economico venga ricevuto in relazione alla posizione di pubblico ufficiale, anche senza la necessità di compiere atti contrari ai doveri d’ufficio.

In altri termini, la modifica normativa ha introdotto una forma di “autonomia funzionale” del reato, in cui la corruzione risulta integrata anche senza che vi sia un legame sinallagmatico preciso con l’atto d’ufficio.

Dal punto di vista soggettivo, il reato richiede il dolo generico, ossia la consapevolezza e volontà del pubblico ufficiale di ricevere indebitamente un vantaggio economico in relazione al suo ruolo pubblico. Tale accettazione di denaro o altre utilità deve essere consapevole e intenzionale, implicando che il pubblico ufficiale sia cosciente della propria funzione e dell’illecito guadagno che ne ricava.


4. La distinzione tra corruzione propria e impropria

La distinzione tra corruzione propria e corruzione impropria è fondata su due elementi principali: il tipo di atto compiuto dal pubblico ufficiale e la struttura del rapporto sinallagmatico.

Nella corruzione propria, disciplinata dall’art. 319 c.p., il pubblico ufficiale riceve denaro o utilità per compiere un atto contrario ai doveri del proprio ufficio, violando apertamente il principio di legalità. Il vantaggio è strettamente correlato a un atto illegittimo che incide negativamente sull’efficienza e la legalità dell’amministrazione.

Nella corruzione impropria, invece, il pubblico ufficiale non è chiamato a compiere un atto contrario ai propri doveri, ma è sufficiente che accetti un’utilità per esercitare le sue funzioni. Questa distinzione è stata rafforzata dalla riforma del 2012, che ha reso la corruzione impropria più ampia, includendo anche quelle forme di “disponibilità” della funzione pubblica che, pur non traducendosi in un singolo atto deviante, compromettono l’autonomia dell’amministrazione.

Il rapporto sinallagmatico si configura in maniera diversa nelle due fattispecie: nella corruzione propria è strettamente legato a un atto specifico, mentre nella corruzione impropria si basa su un vincolo meno definito, dove la dazione di denaro o utilità è finalizzata a garantire una predisposizione del pubblico ufficiale a vantaggio di interessi privati. La giurisprudenza ha chiarito che questa sinallagmaticità affievolita permette di perseguire anche condotte in cui il mercimonio della funzione è meno evidente ma altrettanto dannoso per la fiducia nella pubblica amministrazione (Cass., Sez. VI, n. 47271/2014, Casarin).


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