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Procedura penale

Ritorno al futuro: il Procuratore "Doc" e l'App che si inceppa (Cass. Pen. n. 46030/2024)

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App che si rompe

Nel mondo sempre più digitale della giustizia italiana, dove persino il più insospettabile dei faldoni è stato catapultato nel regno delle piattaforme online, una sentenza della Cassazione ha acceso i riflettori su un tema tanto spinoso quanto attuale: cosa succede quando il sistema informatico decide di prendersi una pausa non autorizzata?

Ebbene, la risposta arriva con un pizzico di dramma e un ritorno al passato che avrebbe fatto esclamare al celebre Doc Brown: "Strade? Dove stiamo andando non ci servono strade!"


Il caso in esame

La vicenda, oggetto della sentenza n. 46030 del 2024, è "semplice".

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di L'Aquila, trovandosi alle prese con un malfunzionamento del sistema telematico — l’ormai famigerata “APP” per il deposito di atti — ha autorizzato il ritorno al supporto cartaceo per una specifica categoria di procedimenti, ossia quelli relativi ai cosiddetti “ignoti seriali”.

Questi procedimenti, notoriamente numerosi, richiedono spesso la firma multipla, una funzione tecnologica che, a causa delle anomalie del sistema, risultava impraticabile.

Il Procuratore, congiuntamente al Magistrato di riferimento per l’informatica, ha quindi certificato il malfunzionamento e disposto il deposito cartaceo degli atti fino al ripristino del normale funzionamento.

Il Giudice per le indagini preliminari (G.i.p.), tuttavia, ha respinto questa soluzione, dichiarando inammissibili le richieste di archiviazione depositate in formato analogico.

Secondo il G.i.p., la procedura seguita dal Procuratore non rispettava le prescrizioni normative, creando un vuoto giuridico che, a suo avviso, impediva il prosieguo dei procedimenti.


La decisione della Cassazione

La Cassazione è intervenuta con una sentenza che non lascia spazio a dubbi: il Procuratore della Repubblica, nell’ambito delle sue funzioni organizzative, ha il potere di certificare il malfunzionamento di un sistema telematico e adottare soluzioni alternative per garantire il regolare svolgimento della giustizia.

Non è compito del G.i.p. sindacare tale decisione, poiché essa rientra nella sfera di competenza amministrativa del Procuratore e non in quella giurisdizionale del Giudice.

La Corte ha sottolineato che l’atto del Procuratore, previsto dall’art. 175-bis del codice di procedura penale, è espressione di una funzione organizzativa volta a evitare che il malfunzionamento tecnologico paralizzi l’attività giudiziaria.

Inoltre, ha chiarito che il G.i.p. non dispone del potere di dichiarare inammissibili atti presentati in forma analogica in situazioni di emergenza certificata.



Un invito alla riflessione


La questione, pur tecnica, ha un che di ironico: la giustizia, così impegnata a correre verso la digitalizzazione, si è fermata davanti a un server in tilt.

Un’immagine che ricorda certi paradossi kafkiani, dove la macchina burocratica finisce per ingolfarsi proprio nella sua corsa verso l’efficienza.

Ma questa sentenza è anche un invito a riflettere.

Nel processo di digitalizzazione, è fondamentale prevedere sistemi di backup e alternative praticabili, evitando che il malfunzionamento tecnologico si traduca in un blocco totale della macchina giudiziaria.

E se proprio dobbiamo tornare alla carta in casi estremi, facciamolo con dignità e senza drammi. Dopotutto, c’è una bellezza intramontabile nella solidità di un foglio timbrato.


Conclusione

La tecnologia è un’alleata preziosa, ma anche le migliori applicazioni hanno i loro giorni no.

Quando succede, è bene ricordare che, dietro ogni clic, c’è un sistema di regole che non può essere mandato in crash. E se proprio tutto fallisce, c’è sempre una penna e un modulo pronto a salvarci.

Anche la giustizia, a volte, ha bisogno di un piano B.



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