Reati contro la persona
Il fenomeno del mobbing rappresenta una problematica sempre più diffusa nell’ambito lavorativo, sia nel settore pubblico che privato.
Si riferisce a pratiche persecutorie e vessatorie messe in atto nei confronti di un lavoratore con l’obiettivo di marginalizzarlo o di indurlo a dimettersi.
Nonostante la mancanza di una tipizzazione specifica nel diritto penale italiano, la giurisprudenza ha iniziato a riconoscere e affrontare il mobbing come una forma di maltrattamento, in particolare nel caso di mobbing verticale (o "bossing"), in cui le molestie sono attuate da un superiore gerarchico.
La giurisprudenza ha cominciato a esaminare la rilevanza penale del mobbing attraverso diverse sentenze di legittimità. Il mobbing, inteso come "pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione", è stato considerato in alcune decisioni come rientrante nel reato di maltrattamenti ex art. 572 del codice penale.
Ciò avviene specialmente quando le condotte vessatorie hanno un carattere sistematico e duraturo, con l’intento di danneggiare il lavoratore sul piano psicologico e fisico.
Un esempio rilevante è la sentenza n. 38306 del 14 giugno 2023 della Corte di Cassazione, che ha ritenuto configurabile il reato di maltrattamenti in un caso di mobbing verticale nel settore privato. In questa sentenza, si è sottolineato come tali comportamenti, messi in atto con sistematicità dal datore di lavoro, possano configurare una violazione penalmente rilevante, anche in assenza di una specifica norma incriminatrice sul mobbing. La giurisprudenza ha quindi fatto ricorso all'art. 572 c.p. per sanzionare le condotte di maltrattamento che vanno oltre l’esercizio legittimo del potere disciplinare.
Un punto centrale nelle decisioni della Cassazione riguarda la distinzione tra legittimo esercizio del potere disciplinare e condotte vessatorie. Se da un lato è legittimo per il datore di lavoro esercitare il proprio potere correttivo per garantire l’efficienza aziendale, dall’altro tale potere diventa abusivo e configurabile come reato quando oltrepassa i limiti accettabili, incidendo sulla dignità e libertà personale del dipendente.
Ad esempio, nella sentenza n. 51591 del 28 settembre 2016, la Corte ha stabilito che i rimproveri abituali con l'uso di epiteti ingiuriosi e minacce possono rientrare nel reato di maltrattamenti, se avulsi dal contesto del legittimo potere disciplinare. Allo stesso modo, il lancio di oggetti contro un dipendente o l’imposizione di stare seduto senza svolgere alcuna funzione sono stati riconosciuti come comportamenti idonei a configurare il reato.
La giurisprudenza italiana ha anche chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti, non rileva la formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei lavoratori mobbizzati. La Corte di Cassazione, nella già citata sentenza n. 38306 del 2023, ha precisato che il mobbing non viene escluso dalla legittimità apparente di provvedimenti disciplinari. È necessario, piuttosto, valutare il contesto complessivo in cui le condotte vessatorie si verificano, considerando l’insieme di atti che possono apparire singolarmente legittimi, ma che, presi nel loro complesso, rivelano un disegno persecutorio finalizzato a destabilizzare il lavoratore.
La sentenza n. 31413 del 2006, richiamata nella motivazione della sentenza del 2023, ha sottolineato come il mobbing si possa configurare anche quando alcune azioni appaiono legittime, se esse fanno parte di una serie di comportamenti che, considerati insieme, risultano idonei a compromettere la stabilità psico-fisica del lavoratore.
La Corte di Cassazione ha adottato un approccio ampio nel considerare le pratiche di mobbing come una forma di maltrattamenti continuati, valutando sia gli atti di violenza psicologica che fisica. In alcuni casi, come quello trattato nella sentenza n. 10090 del 2001, la Corte ha ravvisato una situazione di sfruttamento e vessazione sistematica, in cui il datore di lavoro aveva imposto condizioni insostenibili ai dipendenti, minacciandoli di licenziamento o mancato pagamento dei salari, al fine di ottenere prestazioni lavorative sotto costrizione.
Il mobbing, nonostante la sua mancata tipizzazione autonoma nella legislazione penale italiana, trova oggi una tutela giuridica crescente attraverso il reato di maltrattamenti.
Le pronunce della Corte di Cassazione confermano che le condotte persecutorie attuate dal datore di lavoro, quando sistematiche e lesive della dignità e salute del dipendente, possono integrare una fattispecie penalmente rilevante. La tutela del lavoratore contro abusi di potere e maltrattamenti rappresenta, dunque, un importante baluardo nel garantire condizioni lavorative eque e rispettose della dignità umana.