Caduta del reato qualificante e tramonto della giurisdizione distrettuale: il giudice naturale come presidio contro l'arbitrio
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Caduta del reato qualificante e tramonto della giurisdizione distrettuale: il giudice naturale come presidio contro l'arbitrio

Riflessioni a margine della rimessione alle Sezioni Unite (Cass. Pen., Sez. II, 14 marzo 2025, n. 11592)

Introduzione

Una vicenda siciliana, approdata alla Cassazione (Sez. II, n. 11592/2025), riporta in luce un nodo mai sciolto: se la caduta del reato "catalogato" o dell'aggravante di metodo mafioso, nell'ambito delle misure cautelari, comporti la perdita della competenza del G.I.P. distrettuale.

Questo breve contributo sostiene la necessità di affermare la cessazione della competenza speciale, alla luce del principio costituzionale di precostituzione del giudice naturale, e confuta l'interpretazione estensiva del principio della perpetuatio iurisdictionis.


1. Premessa: la vicenda concreta

Il caso germina da un provvedimento cautelare: il G.I.P. distrettuale ordina la custodia in carcere per tentata estorsione, aggravata dal metodo mafioso.

Segue il fisiologico incidente de libertate: il Tribunale del riesame recide l'aggravante, lasciando però integra la misura, ora sorretta da un reato comune.

Scatta così il conflitto.

Il difensore propone ricorso per cassazione, denunciando la sopravvenuta incompetenza funzionale del G.I.P. distrettuale: venuta meno l'aggravante che giustificava la deroga ex art. 51, comma 3-bis, c.p.p., gli atti avrebbero dovuto essere trasmessi al G.I.P. ordinariamente competente. Il Tribunale del riesame, invece, aveva mantenuto ferma la misura senza disporre la trasmissione prevista dall'art. 27 c.p.p.

Gli atti, si sostiene, avrebbero dovuto migrare verso il giudice naturale ordinario.

La questione, gravida di implicazioni sistematiche, approda così alle Sezioni Unite.


2. La competenza come architettura fragile

La competenza non è creta da modellare: è pietra angolare dello Stato di diritto, scolpita secondo disegni anteriori e refrattaria agli umori del contingente.

Nel suo cuore pulsa il principio di precostituzione del giudice naturale (art. 25, comma 1, Cost.), architrave che vieta ogni forzatura: il giudice deve essere designato da criteri generali, astratti, anteriori al fatto, impermeabili agli eventi.

Non è un vezzo ma presidio vitale di libertà, codificato tra le solenni dichiarazioni della modernità (art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, art. 6 della CEDU), strappato al secolo breve come antidoto ai tribunali d'eccezione.

A ben vedere, nessun principio processuale incarna l'antifascismo meglio di questo.

E quando questa rete si lacera, non siamo davanti ad un semplice vizio procedurale, è in gioco l'integrità stessa del processo, la sua capacità di mantenersi terreno di diritto e non arena di potere.

La competenza è sostanza di libertà e il Costituente, reduce da inferni storici, lo sapeva bene. Da qui il monito scolpito nella Carta.


3. Il paradosso della competenza senza fondamento

Già fissato il principio della competenza quale presidio non negoziabile del giusto processo, la vicenda concreta ne offre un vivido spaccato: un G.I.P. distrettuale emette ordinanza di custodia cautelare, invocando l’aggravante del metodo mafioso a fondamento della propria competenza. Ma il Tribunale del riesame recide l'aggravante, nessuna gravità indiziaria, nessun vincolo mafioso.

A questo punto si spalanca il paradosso: secondo un orientamento minoritario, la competenza distrettuale sopravviverebbe comunque, come reliquia priva di sostanza, protetta dalla mistica della perpetuatio iurisdictionis.

Errore capitale.

La deroga alla competenza ordinaria, prevista dagli artt. 51, comma 3-bis, e 328 c.p.p., non si alimenta di evocazioni formali né di fantasmi d’accusa, esige la sussistenza effettiva di fatti qualificati.

Quando la materia evaporata lascia il posto a un reato comune, il G.I.P. distrettuale non ha più investitura: sopravvive nella scena processuale come sovrano spodestato, reggente senza regno.


4. La falsa seduzione della perpetuatio iurisdictionis

Il principio della perpetuatio iurisdictionis — corretto e vitale nel giudizio, dove l’imputazione si fissa nel rinvio a giudizio — si dissolve nella fase cautelare, ove l’addebito è materia mobile, provvisoria, ancora immersa nella fluidità delle indagini.

Qui l'accusa muta, si assottiglia o si rafforza, e con essa deve mutare l'assetto dei poteri.

Pretendere che la competenza distrettuale sopravviva alla caduta della contestazione mafiosa significa cristallizzare una finzione, consacrare il vuoto, conferendo titoli di giurisdizione a chi ne è rimasto privo.

Il diritto processuale non tollera sovranità senza materia. Non ammette che la giurisdizione, autorità suprema sul corpo e sulla libertà degli individui, si sorregga su fantasmi d'accusa o formule estinte.

Quando la sostanza evapora, anche la forma deve cadere. Il potere giudiziario non sopravvive per inerzia e divorziato dalla realtà che dovrebbe giustificarlo.

E il diritto non può ridursi a coreografia vuota: un simulacro che perpetua l'arbitrio sotto la maschera della legalità.


5. Il rimedio sistematico: l'art. 27 c.p.p.

In coerenza con il principio di precostituzione del giudice naturale, l'art. 27 c.p.p. disciplina il corretto trapasso di competenza. Accertata l'incompetenza, la misura cautelare può sopravvivere, ma soltanto per il tempo strettamente necessario al rinnovo da parte del giudice legittimamente investito.

Si tratta della declinazione rigorosa di una garanzia costituzionale: Nessuno può essere privato della libertà personale da chi non possiede il titolo per farlo.

Ogni compressione della libertà personale, disposta o mantenuta da un giudice privo di legittimazione funzionale, è viziata ab origine.

È potere che usurpa il diritto, sovverte il principio di legalità e nega la funzione stessa della giurisdizione come argine contro l'arbitrio.


6. Il diritto vivente e la sostanza del potere

Sarebbe errore radicale negare il vincolo inscindibile tra il titolo della competenza e il presupposto sostanziale che lo alimenta.

Nel diritto vivente, le forme non sono gusci vuoti: sopravvivono soltanto se abitate da sostanze vitali. La giurisdizione è funzione sovrana, esercitabile solo entro confini rigorosamente tracciati.

Quando il reato qualificante evapora, anche il potere speciale del giudice distrettuale si spegne. Resta il vuoto, non il potere.

Ogni altra soluzione, che perpetui la sovranità oltre la fine della materia che la fondava, genera un mostro giuridico: un'autorità senza titolo, un potere che sopravvive a se stesso.

Nel processo penale, la competenza è presidio contro l’arbitrio, cemento del giusto processo.

Quando la base concreta cade, la toga deve posarsi.

Pertanto, alla luce del principio costituzionale di precostituzione del giudice naturale, e della disciplina positiva degli artt. 51, 328, 291 e 27 c.p.p., si impone una soluzione netta:

  • caduta la contestazione mafiosa o il reato "catalogato", il G.I.P. distrettuale deve dichiararsi incompetente;

  • la misura può sopravvivere temporaneamente solo se sussistono urgenti esigenze cautelari;

  • Ogni compressione della libertà personale oltre tali limiti viola l'art. 25 Cost.





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