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Calunnia: l'accertamento del dolo va tenuto distinto da quello dell'imputabilità


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

In tema di elemento soggettivo del reato, l'accertamento del dolo va tenuto distinto da quello dell'imputabilità e deve avvenire con gli stessi criteri valevoli per il soggetto pienamente capace anche nei confronti del soggetto non imputabile. (Fattispecie in tema di calunnia, in cui la Corte ha precisato che la verifica dell'elemento soggettivo deve avvenire sulla base dei fatti obiettivi, aventi valore sintomatico del fine perseguito dall'agente, senza che assumano rilevanza gli errori percettivi frutto di deliri psicotici, rilevanti solo nell'indagine sulla imputabilità - Cassazione penale , sez. VI , 08/04/2020 , n. 14795).

Fonte: Ced Cassazione Penale

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 08/04/2020 , n. 14795

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza emessa in data 30/05/2019 dal Tribunale di Rimini che ha assolto la ricorrente per incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, con riferimento ai reati ascrittile di cui agli artt. 81 e 368 c.p., per avere accusato sapendoli innocenti G.C. e Se.Ro. di lesioni personali e di calunnia in relazione alle denunce sporte dai predetti soggetti nei confronti della stessa ricorrente per i reati di danneggiamento aggravato, minaccia aggravata, lesioni personali e furto (in (OMISSIS)).


Con l'anzidetta sentenza, confermata in appello, il Tribunale, ritenuta la pericolosità sociale dell'imputata, ha applicato nei confronti dell'imputata la misura di sicurezza del ricovero in una REMS (residenza per l'esecuzione di misura di sicurezza) per la durata non inferiore a due anni, e disposto in via provvisoria ai sensi dell'art. 312 c.p.p., la stessa misura di sicurezza detentiva con riesame della pericolosità alla scadenza dei sei mesi dalla data della pronuncia della sentenza.


2. Tramite il proprio difensore, N.S.D. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.


2.1. Con il primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla questione del difetto del dolo del reato di calunnia, per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto di non doverne verificare la sussistenza sull'assunto erroneo che lo stato soggettivo di totale incapacità di intendere e di volere avrebbe reso ultroneo ogni ulteriore accertamento sull'elemento psicologico del reato.


Secondo la ricorrente, una tale interpretazione si pone in contrasto con la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui l'indagine sulla imputabilità deve essere distinta da quella sul dolo, nel senso che anche ove risulti accertata l'incapacità di intendere e di volere, l'accertamento del dolo, quale elemento costitutivo del delitto, deve essere condotto alla stregua delle regole generali previste per un soggetto agente dotato di normale capacità di intendere e di volere (si richiamano in particolare, Sez.1, n. 507 del 7/12/1993, Mitrugno, Rv. 196112, e Sez. 6, n. 4292 del 13/05/ 2014, Corti, Rv. 262151).


2.2. Con il secondo motivo si denuncia vizio della motivazione in merito alla omessa valutazione dei risultati della perizia psichiatrica del prof. A.R. depositata con i motivi aggiunti in appello. Si censura, in particolare, che la Corte di appello non avrebbe fornito alcuna risposta sull'esito della predetta perizia svolta in separato procedimento con la quale è stata esclusa la incapacità di intendere e di volere dell'imputata, tanto che la stessa in quel procedimento è stata condannata.


Tale censura viene argomentata in relazione alla applicazione della misura di sicurezza detentiva disposta sebbene le perizie psichiatriche non deponessero per una sicura infermità mentale, considerato che la perizia disposta nel corso del giudizio di primo grado aveva ritenuto soltanto grandemente scemata ma non esclusa l'imputabilità, mentre la già citata perizia disposta in altro procedimento aveva addirittura escluso il difetto di imputabilità.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non può essere accolto, per infondatezza del primo motivo ed inammissibilità del secondo.


Con riferimento alla questione relativa all'accertamento del dolo si deve rilevare preliminarmente che effettivamente la impostazione ermeneutica seguita dalla Corte di appello è errata, perchè si pone in evidente contrasto con la consolidata e costante giurisprudenza di legittimità in tema di rapporto tra imputabilità e dolo (vedi Sez. 1, n. 507 del 07/12/1993, Mitrugno, Rv. 196112; Sez. 2, n. 9311 del 27/11/2018, Timpanaro, Rv. 275525).


Costituisce, infatti, principio consolidato del nostro sistema penale che l'indagine sulla imputabilità deve essere tenuta nettamente distinta da quella sul dolo, poichè il dolo, quale elemento costitutivo del delitto, deve sussistere anche nei confronti di soggetto che risulti non imputabile o parzialmente imputabile, e deve essere verificato ed accertato alla stregua delle regole di comune esperienza secondo i normali criteri di valutazione, in modo non dissimile da come avviene con riferimento all'ipotesi di un soggetto agente dotato di normale capacità di intendere e di volere.


Ciò significa che anche nei confronti di soggetto non imputabile, o parzialmente imputabile, dovrà comunque essere stabilito, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l'evento prodotto sia stato "secondo l'intenzione", "contro l'intenzione" o "oltre l'intenzione" (giusta le varie ipotesi previste dall'art. 43 c.p.), per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente.


La Corte di appello ha disatteso questo principio avendo ritenuto che, una volta accertata l'assenza totale di imputabilità, sarebbe ultroneo ogni ulteriore accertamento in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico, introducendo anche una non condivisibile distinzione tra vizio totale e vizio parziale di mente.


Al contrario deve ribadirsi che ove, all'esito dell'indagine sulla integrazione degli elementi costitutivi del reato sia esclusa la sussistenza del dolo, anche il soggetto non imputabile deve essere assolto con la formula più favorevole del fatto non costituisce reato e non con quella del difetto di imputabilità, che presuppone l'accertata consumazione del reato.


Infatti, solo ove sia stata accertata la commissione del reato si impone, nel caso di difetto di imputabilità, la ulteriore valutazione delle conseguenze penali che devono discenderne a carico del soggetto ritenuto non imputabile, nella specie dell'applicazione o meno di una misura di sicurezza.


Non vi è dubbio che lo stato di imputabilità costituisce il necessario presupposto dell'affermazione di responsabilità, ma il suo doveroso accertamento non incide in alcun modo sulla indagine relativa all'accertamento del reato, essendo quest'ultima a sua volta necessaria per l'applicazione delle misure di sicurezza, secondo quanto previsto dall'art. 202 c.p., comma 1, che stabilisce come principio generale che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, esclusi i casi di cui al comma 2 che si riferiscono ad ipotesi particolari previste da altre disposizioni di legge (ex artt. 49 e 115 c.p.).


2. Ciò premesso, e pur evidenziando la correttezza dell'appunto mosso nel ricorso all'impostazione del tutto erronea del giudice dell'appello, si deve però rilevare l'infondatezza della doglianza con riguardo alle ragioni per le quali è stata censurata la decisione del primo giudice in merito all'accertamento del dolo del delitto di calunnia, che può essere rilevata in questa sede per la intima contraddittorietà insita nella stessa articolazione del motivo che ne avrebbe imposto il rigetto anche in sede di appello e che rende palesemente superfluo una sua rivalutazione nella fase del giudizio di merito.


Considerato quanto osservato sull'autonomia delle indagini sul dolo e sulla imputabilità, la ricorrente nel proprio motivo ha contraddetto il proprio stesso assunto, assolutamente legittimo in linea di principio, confondendo i due piani di indagine che, per come riconosciuto dalla stessa ricorrente, devono mantenersi nettamente distinti.


La ricorrente ha, infatti, sostanzialmente rappresentato che nel caso "de quo" la insussistenza del dolo discenderebbe proprio dalle condizioni mentali alterate dell'imputata, che a causa dei disturbi percettivi da cui è affetta non avrebbe potuto rendersi conto della falsità della situazione di fatto dalla stessa descritta nella propria denuncia, sulla base dell'ulteriore considerazione della particolare intensità del dolo del delitto di calunnia che presuppone la massima capacità di consapevolezza e nello specifico la volontà di accusare una persona che si sa essere innocente.


Quindi, secondo la prospettazione della ricorrente, poichè dalle risultanze della perizia psichiatrica sarebbe emerso una capacità cognitiva turbata dall'ideazione paranoide, ciò avrebbe legittimato il dubbio che l'imputata possa avere reinterpretato il litigio con i propri condomini ed il proprio ruolo in termini di vittima piuttosto che di soggetto attivo dell'aggressione per effetto di una visione distorta della realtà, cagionata proprio dal disturbo mentale.


E' evidente l'erroneità di siffatta impostazione che si pone in palese contraddizione con l'affermazione di principio che è stata posta a fondamento del motivo di ricorso per cassazione.


Gli argomenti addotti dalla ricorrente contraddicono il principio della autonomia delle due indagini, ed in particolare della necessità che l'accertamento del dolo sia condotto alla stregua delle regole generali che valgono per un soggetto imputabile, ovverosia senza tenere conto dei deliri psicotici patologici che non possono essere valorizzati per escludere il dolo ma solo per escludere l'imputabilità, allorchè, una volta accertata alla stregua delle regole generali la sussistenza del reato, si imponga l'ulteriore valutazione delle conseguenze penali che ne devono discendere alla stregua dello stato mentale del soggetto agente, in base all'inquadramento nelle categorie psicopatologiche richiamate dagli artt. 88 e 89 c.p., in tema di vizio totale e vizio parziale di mente come cause che escludono o riducono grandemente la capacità di intendere e di volere.


Neppure si giustifica, per come già detto, la distinzione dello stato psicopatologico in rapporto alla tipologia del dolo richiesto per la integrazione del reato, atteso che anche ove sia richiesto dalla norma incriminatrice il dolo specifico o quello intenzionale, la valutazione dell'elemento psicologico del reato rispetto al soggetto non imputabile o parzialmente imputabile deve essere condotta sempre allo stesso modo e secondo i criteri validi per il soggetto imputabile.


In altri termini, la verifica dell'elemento soggettivo deve essere basata su un procedimento logico inferenziale fondato, come avviene sempre ed in ogni caso, sull'esame dei fatti obiettivi e certi aventi un sicuro valore sintomatico del fine perseguito dall'agente, senza che possano assumere rilevanza gli errori percettivi frutto dei deliri psicotici, che assumono invece rilievo nell'indagine sulla imputabilità.


Attribuire, come assume la ricorrente, rilevanza all'errore percettivo dovuto al delirio psicotico per escludere il dolo equivale a confondere i due piani di indagine, non potendosi valorizzare agli effetti dell'accertamento del dolo l'errore di fatto quando la falsa rappresentazione della realtà non sia espressione di una errata valutazione ma, come inequivocabilmente avvenuto nel caso "de quo", rappresenti solo il portato di uno stato delirante dovuto a malattia mentale.


Proprio per l'indiscussa origine psicopatologica della ridotta percezione della falsità della denuncia, si rende del tutto superfluo un rinvio al giudice di merito per rivalutare alla stregua dei principi di diritto sopra affermati la sussistenza del dolo, potendosi procedere ai sensi dell'art. 619 c.p.p., a rettificare nel senso dianzi esposto l'errore di diritto in cui è incorso il giudice dell'appello.


3. Inammissibile deve ritenersi il secondo motivo di ricorso.


Si deve preliminarmente ricordare che la pericolosità sociale allorchè sia correlata allo stato di infermità mentale comporta l'applicazione delle misure di sicurezza previste nei casi tassativamente indicati dalla legge, secondo il principio di legalità sancito dall'art. 25 Cost., comma 3, oltre che dall'art. 199 c.p., in corrispondenza a quanto previsto per la pena dal medesimo art. 25 Cost., comma 2 e dall'art. 1 c.p..


Lo stato di malattia mentale costituisce il presupposto necessario per l'applicazione delle misure di sicurezza detentive dell'assegnazione ad una casa di cura e custodia o del manicomio giudiziario - ora sostituite dalla misura detentiva presso la REMS (Residenza per Esecuzione di Misure di Sicurezza) D.L. 22 dicembre 2011, n. 211, ex art. 3-ter, comma 4, convertito con modificazioni dalla L. 17 febbraio 2012, n. 9, - alle condizioni previste dagli artt. 219 e 222 c.p., nei confronti dei soggetti condannati ad una pena diminuita per vizio parziale di mente, o prosciolti per vizio totale di mente, unitamente all'ulteriore presupposto della pericolosità sociale che deve sussistere sia al momento in cui la misura viene disposta e sia al momento della sua esecuzione e per tutta la durata della sua applicazione.


La valutazione dell'imputabilità si distingue dalla verifica della pericolosità sociale, precedendola, nel senso che solo nel caso di esclusione o riduzione dell'imputabilità per vizio totale o parziale di mente si pone la necessità di verificare la sussistenza della pericolosità sociale generata dalla riscontrata patologia mentale.


Nei confronti del soggetto sano di mente ed imputabile la tutela della collettività dal pericolo di reiterazione dei reati si atteggia in modo totalmente diverso, sia sotto il profilo della valutazione della pericolosità sociale, che sotto il profilo dei rimedi ed istituti giuridici previsti dall'ordinamento penale, atteso che alla piena responsabilità penale del soggetto agente consegue l'assoggettabilità alla pena detentiva, ove prevista dalla legge per il titolo di reato giudicato e, nelle more del giudizio, l'applicazione delle misure cautelari disciplinate dagli artt. 272 e segg. del codice di rito.


Risulta, pertanto, del tutto incoerente e contrario al principio del divieto di "reformatio in pejus" che l'imputata possa dolersi della pronuncia assolutoria per difetto di imputabilità, adducendo l'errata valutazione del giudice di merito sulla sussistenza di detta causa di non punibilità al solo fine di censurare l'applicazione della misura di sicurezza, senza nulla dedurre in merito al profilo della pericolosità e ferma restando la integrazione del reato nelle sue componenti oggettive e soggettive.


L'assenza del difetto di imputabilità, dedotta dalla ricorrente sulla scorta di una diversa perizia psichiatrica svolta in altro e separato procedimento penale al solo fine di censurare l'applicazione della misura di sicurezza detentiva prevista dall'art. 222 c.p., ove fosse risultata fondata, avrebbe comportato innanzitutto l'affermazione della penale responsabilità dell'imputata con la conseguente riforma della sentenza di proscioglimento in una sentenza di condanna, elidendo ogni rilievo dell'ulteriore profilo della pericolosità sociale di impronta psicopatologica quale presupposto della applicazione della misura di sicurezza, per effetto dell'assoggettabilità dell'imputata al diverso regime punitivo previsto per i soggetti imputabili.


Pertanto, la questione dedotta dalla ricorrente al fine di ottenere la revoca della misura di sicurezza senza considerare il correlato necessario aggravamento della posizione dell'imputata in punto di responsabilità penale, rende evidente l'inammissibilità del motivo di appello e la conseguente irrilevanza della omessa valutazione dal parte del giudice dell'appello delle risultanze della nuova perizia psichiatrica allegata nei motivi nuovi dell'atto di appello, in ragione del divieto di modifiche peggiorative della sentenza appellata dalla sola imputata.


Si deve, inoltre, ricordare che la valutazione operata dal giudice di merito in termini di vizio totale di mente anzichè di vizio parziale costituisce una statuizione anch'essa più favorevole per l'imputata, atteso che nel caso di attenuazione dell'imputabilità a norma del combinato disposto degli artt. 89 e 219 c.p., alla affermazione di responsabilità per il reato previsto dall'art. 368 c.p., consegue l'irrogazione della pena della reclusione, sia pure diminuita, oltre all'applicazione congiunta della misura di sicurezza detentiva, a fronte della riscontrata pericolosità sociale.


Conseguentemente, sebbene il giudice di merito abbia ritenuto la sussistenza del vizio totale di mente discostandosi dalla perizia psichiatrica disposta nel corso del giudizio di primo grado che aveva invece riscontrato il vizio parziale di mente, anche siffatta statuizione non è censurabile perchè non pregiudica la posizione dell'imputata che ha tratto un sicuro vantaggio da tale difforme valutazione.


Destituite di ogni fondamento sono poi le ulteriori considerazioni sulla pericolosità sociale che è stata argomentata nella sentenza impugnata con riferimenti inappuntabili alla reiterazione delle condotte aggressive poste in essere dall'imputata nel breve arco di tempo considerato, sempre con le medesime modalità connotate da reazioni impulsive in forte stato di agitazione.


A ciò va aggiunto che la valutazione in merito alla pericolosità sociale operata con riferimento alla disposta applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una REMS in via provvisoria ai sensi dell'art. 312 c.p.p., come anche la sua adeguatezza al caso concreto rispetto alla meno afflittiva misura non detentiva della libertà vigilata, non può essere sindacata in sede di ricorso avverso la sentenza ma solo con gli ordinari mezzi di impugnazione previsti per le misure cautelari a norma dell'art. 313 c.p.p., comma 3.


La statuizione, invece, con cui è stata disposta in sentenza l'applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una REMS resta soggetta alla necessaria verifica della persistenza della pericolosità in sede di esecuzione della sentenza, di competenza ex art. 679 c.p.p., del Magistrato di sorveglianza.


Il motivo di ricorso nel trattare in modo indistinto i due profili, quello dell'applicazione della misura di sicurezza in via provvisoria ex art. 206 c.p. e quello della irrogazione della misura ai sensi dell'art. 205 c.p. con la sentenza di proscioglimento, si profila come inammissibile per genericità anche sotto questo ulteriore diverso aspetto.


4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.


Considerato che il procedimento riguarda un soggetto affetto da condizione patologica per infermità mentale si deve disporre nel caso di diffusione del presente provvedimento l'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti private a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.


P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 8 aprile 2020.


Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2020

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