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Calunnia: la conferma di precedenti dichiarazioni calunniose è post factum non punibile


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

In tema di calunnia, la presentazione di plurimi atti di incolpazione, nei confronti della medesima persona e per lo stesso reato, integra la commissione di più reati di calunnia quando il contenuto dell'atto successivo contenga un ampliamento dell'originaria accusa, mentre integra un “post factum” non punibile ove consista nella mera conferma e precisazione dell'iniziale accusa. (Fattispecie in cui veniva sporta una prima falsa denuncia da parte del soggetto ritenuto quale autore mediato del reato, le cui dichiarazione erano successivamente confermate dall'effettivo calunniatore- Cassazione penale , sez. VI , 09/01/2018 , n. 3368).

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 09/01/2018 , n. 3368

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Catanzaro con sentenza del 12 gennaio 2017 ha confermato quella con cui il Tribunale di Cosenza aveva condannato l'imputato, M.M., alla pena di un anno e cinque mesi di reclusione per i reati, in continuazione tra loro ritenuti, di uso di assegno bancario, alterato nella data di emissione riportata nel titolo - per essere stata quest'ultima modificata da quella del 27 ottobre 2010 a quella del 7 ottobre 2010 -, e di calunnia continuata.


L'imputato aveva modificato l'assegno emesso da V.D., sua debitrice, al fine di procurarsi un vantaggio e di recare un danno alla prima e ne aveva fatto uso consegnandolo ad un dipendente della M. S.r.l., società di cui l'imputato era sostanziale amministratore, perchè quegli lo ponesse all'incasso, come poi avvenuto.


Per successive condotte esecutive del medesimo disegno criminoso, l'imputato aveva dapprima indotto l'ignaro e formale amministratore della M. S.r.l. a presentare formale querela - con la quale veniva evidenziata l'alterazione del titolo e si sosteneva che il M. lo aveva ricevuto con la data modificata - e quindi dichiarato nel corso delle s.i.t. rese alla p.g. delegata di aver ricevuto l'assegno dall'avvocato C. in data 7 ottobre 2010 e di aver firmato, per ricevuta, in pari data presso lo studio del professionista su dettatura di quest'ultimo.


In tal modo l'imputato incolpava pur sapendolo innocente l'indicato legale, simulando a suo carico le tracce del reato di falsità materiale del titolo (artt. 485 e 491 c.p., art. 81 c.p., comma 2 e art. 368 c.p.).


2. Ricorre in cassazione nell'interesse dell'imputato il difensore di fiducia e propone due motivi di annullamento.


2.1. Con il primo è dedotto il vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale che, richiamando la sentenza di primo grado ed il principio per il quale il giudice di appello non ha l'obbligo di prendere in esame ogni argomentazione dedotta dalla difesa, essendo egli solo tenuto ad esporre, con corretto ragionamento logico-giuridico, i motivi per i quali perviene ad una decisione difforme alle tesi dell'impugnante, avrebbe fatto riferimento a testimonianze (tali quelle rese dai testi C., V. e B.) che nulla avrebbero riferito sulla riconducibilità al prevenuto dell'alterazione del titolo.


L'affermazione della segretaria dell'avvocato C., B.R., in ordine alla circostanza che il professionista avrebbe preteso le ricevute quando consegnava denaro contante e non assegni, come avvenuto nella specie, sarebbe stata smentita dalla documentazione prodotta nell'interesse dell'imputato alla quale questi avrebbe fatto riferimento nel corso del suo esame.


L'immediata consegna poi dell'assegno al teste Ma. perchè questi lo presentasse per l'incasso non avrebbe consentito l'alterazione della data da parte dell'imputato, che non avrebbe peraltro tratto alcun vantaggio dalla contestata condotta. La presentazione di un titolo postdatato prima della scadenza non sortisce alcun utile effetto per il presentatore in ragione della mancanza di fondi che si registra sul conto di chi abbia emesso il titolo, nell'anticipata presentazione.


Non avendo i testi assistito all'alterazione del titolo, che avrebbe dovuto accertarsi per una perizia mai disposta, la Corte non avrebbe potuto pervenire al giudizio di penale responsabilità senza violare il canone dell'"oltre ogni ragionevole dubbio".


2.2. Con il secondo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione quanto alla ritenuta esistenza di una pluralità di condotte calunniose, in continuazione interna tra loro.


La Corte di appello avrebbe erroneamente stimato, nell'inosservanza dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, l'esistenza di più calunnie, in continuazione avvinte, identificandole, la prima, nella denuncia-querela del 16 ottobre 2010 sporta dal formale amministratore della società M. a r.l., tale S.V., su induzione dell'imputato e quindi nelle dichiarazioni dal M. rese a sommarie informazioni testimoniali, circa un anno dopo, il 14 novembre 2011.


Le sommarie informazioni testimoniali sarebbero valse invece a confermare e chiarire quanto indicato in denuncia che doveva pertanto intendersi quale unico fatto di calunnia.


La motivazione sarebbe stata inoltre carente nel sostenere che l'imputato avrebbe indotto, nei termini di cui all'art. 48 c.p., lo S. a presentare querela integrante calunnia.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito indicate.


1.1. E' manifestamente infondato e quindi inammissibile il primo motivo di ricorso.


La Corte territoriale, in corretta applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità sulla reciproca integrabilità delle sentenze di primo e secondo grado, ha condiviso, nella loro qualificata correttezza, le argomentazioni del primo giudice a sostegno del formulato giudizio di penale responsabilità.


Sono tali nell'impugnata motivazione gli apprezzati coincidenti esiti delle dichiarazioni rese dai testi C., costituitosi parte civile - legale dell'imputato che ottenuta una serie di decreti ingiuntivi in favore del M., aveva a questi fatto avere l'assegno consegnatogli da V.D. a definizione di un'articolata vicenda di "dare ed avere" tra le parti -, V.D., la persona che aveva emesso il titolo, e B.R., segretaria del professionista.


L'esplicito richiamo alle deposizioni testimoniali, portato a sostegno del conclusivo giudizio sull'inesistenza di dubbio alcuno circa il fatto che l'imputato fosse l'autore dell'alterazione, definisce infatti il puntuale riferimento alla motivazione della sentenza di primo grado.


Resta ferma quindi l'operatività del principio per il quale è legittima la motivazione per relationem della sentenza di secondo grado per un percorso che, facendo propria in modo critico e valutativo quella impugnata, si limiti a ripercorrere e ad approfondire alcuni aspetti del complesso probatorio oggetto di contestazione da parte della difesa ed ometta di esaminare quelle doglianze dell'atto di appello che avevano già trovato risposta esaustiva nella sentenza del primo giudice (Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014, Bruno, Rv. 259929).


1.2. D'altra parte, secondo altra prospettiva, è pur vero che il motivo di ricorso con cui si deduce l'inconcludenza del richiamo operato nell'impugnata sentenza alle dichiarazioni dei testi C., V. e B. -denunciandosi di queste ultime il mancato "apporto conoscitivo idoneo a far ritenere provate le accuse mosse nei confronti del M.M." e l'omessa valutazione di dichiarazioni rese in sede di esame dibattimentale il 27 gennaio 2015 dall'imputato - soffre di genericità non consentendo quell'autonoma valutazione delle questioni poste dalla difesa in appello che, dedotte come ivi irrisolte, si sottopongono al sindacato di legittimità.


Ciò è destinato a valere tanto più in caso di adozione della motivazione per relationem da parte del giudice di appello ove l'onere di deduzione del ricorrente non può dirsi assolto dalla denuncia di siffatta fisiologica a questa Corte l'intervenuta dissimulazione, per il parametro della "conforme valutazione", di una totale mancanza di motivazione su questioni specifiche che eccepite in sede di appello come tali vanno chiaramente allegate a sostegno del ricorso di legittimità (in termini: Sez. 3, n. 35964 del 04/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 264879).


3. Il secondo motivo di ricorso, con cui si denuncia l'illegittimità della ritenuta pluralità di reati di calunnia in continuazione ritenuti al capo b) della rubrica, è fondato.


4. Per costante orientamento di questa Corte, il delitto di calunnia è un reato istantaneo, la cui consumazione si esaurisce con la comunicazione all'autorità di una falsa incolpazione a carico di persona che si sa essere innocente. Ne consegue che la reiterazione di eventuali, successive, dichiarazioni di conferma della falsa accusa non può concretare ulteriori violazioni della stessa norma incriminatrice (Sez. 6, n. 2933 del 12/11/2009, dep. 2010, Ventura, Rv. 245773 e giurisprudenza ivi richiamata; in termini: da ultimo: Sez. 6, n. 13416 del 08/03/2016, Pasquinelli, massimata su altro, p. 2). L'offesa all'interesse protetto a che non si instaurino processi penali contro un innocente resta unica perchè unico è il pericolo che l'autorità giudiziaria venga sviata e condanni un innocente.


4.1. All'interno dell'indicato indirizzo, la giurisprudenza di legittimità ha poi precisato che si ha una ipotesi autonoma di calunnia allorchè nel susseguirsi nel tempo di più atti di incolpazione pur nell'identità del titolo del reato e della persona incolpata si registri un ampliamento dell'originaria accusa per individuazione di nuovi temi (sul rilievo attribuito ad un "apprezzabile novum" presente nel nuovo atto rispetto alla primigenia accusa: Sez. 6, n. 43018 del 14/10/2003, Affaticato, Rv. 226927; in termini: Sez. 6, n. 37086 del 26/04/2007, Lombardi, Rv. 237674).


4.2. In materia di calunnia ove quindi la pluralità di atti di accusa privati succedutisi nel tempo valga solo a dare sostegno, anche probatorio, ai contenuti dei precedenti, confermandone o precisandone per profili meramente secondari i contenuti si assiste ad una progressione criminosa lesiva di un unico interesse in cui le condotte successive alla prima valgono a definire un mero post factum non punibile.


Nella finalità meramente confermativa dei contenuti del precedente atto di incolpazione privata, l'atto di accusa successivo al primo potrà al più valere a rendere "diverso" ai sensi dell'art. 521 c.p.p., comma 2, il fatto originario, restando lo stesso in tal modo ricomprenso nell'unica originaria contestazione (sul punto della unicità del fatto di calunnia contestato pur nella diversità del tempo e luogo degli atti di denuncia e quindi delle autorità dagli stessi interessate, in motivazione: Sez. 6, n. 13416, Pasquinelli, cit.) o ancora connotare, aggravandola, l'intenzione dell'agente. Nei medesimi termini resta esclusa la capacità degli atti di calunnia che non si differenzino in modo rilevante a configurare un concorso di reati, sub specie del reato continuato ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 2.


4.3. L'elemento destinato a differenziare e rendere autonomi i diversi atti di calunnia che nel tempo si susseguano non può d'altro canto individuarsi nel fatto che a sporgere l'iniziale denuncia calunniosa sia stato un terzo soggetto, in quanto autore mediato dell'effettivo calunniatore.


La disciplina dell'autore mediato di cui all'art. 48 c.p. vuole infatti che nell'errore sul fatto integrativo del reato e determinato dall'inganno risponda del reato chi ha determinato la persona ingannata a commetterlo.


Nella unicità della volontà colpevole, genericamente contestata in ricorso la ritenuta, nell'impugnata sentenza, fattispecie di cui all'art. 48 c.p., non è quindi individuabile che un solo autore del reato, evidenza, questa, diretta a sconfessare in una siffatta condotta l'esistenza di un nuovo reato, soggettivamente diversamente connotato rispetto al precedente ed in continuazione con questo.


5. La Corte territoriale non si è attenuta agli indicati principi.


I giudici di appello - pur premettendo, in fatto, che le s.i.t. rese dall'imputato alla p.g. delegata il 14 novembre 2011 fossero di "conferma" dei contenuti dell'esposto calunnioso del 6 ottobre 2010, a firma dell'autore "mediato", legale rappresentante della M. S.r.l., S.V., poichè veniva riferita nei distinti momenti la medesima circostanza, e cioè che il titolo consegnato al M. recava la data contraffatta del 7 ottobre 2010 (p. 3 sentenza) - hanno ritenuto integrata la continuazione tra i reati, nell'apprezzata autonomia dei fatti di calunnia.


La sentenza impugnata va pertanto annullata perchè il fatto non sussiste quanto al reato integrato dalle dichiarazioni a s.i.t. rese dall'imputato in data 14 novembre 2011 e questa Corte deve rideterminare la pena, a tanto legittimata dalla novellata previsione di cui all'art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), sulla base delle statuizioni del giudice di merito.


Considerato l'aumento in continuazione determinato dal primo giudice e confermato in appello in un mese di reclusione, su di una pena finale complessiva di un anno e cinque mesi di reclusione, comprensivo della continuazione esterna (per i capi a e b della rubrica per falso e calunnia) e di quella interna (per il solo capo b per le due ritenute condotte di calunnia), ed apprezzatane la pari incidenza, si ha che dalla pena finale va espunta quella di giorni quindici di reclusione.


6. La sentenza impugnata va quindi annullata limitatamente alla calunnia del 14 novembre 2011 perchè il fatto non sussiste e va eliminata la relativa pena di giorni quindici di reclusione.


Nel resto il ricorso proposto è inammissibile.


7. L'imputato va condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla costituita parte civile, C.F., liquidate nel residuo come da dispositivo, nell'osservanza delle tabelle allegate al D.M. n. 55 del 2014, nella ritenuta loro parziale compensazione tra le parti per reciproca soccombenza (art. 92 c.p.c., comma 2).


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla calunnia del 14 novembre 2011 perchè il fatto non sussiste ed elimina la relativa pena di giorni quindici di reclusione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.


Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla costituita parte civile, C.F., che liquida, ritenuta una parziale compensazione tra le parti, per il residuo, in Euro 2.000,00 oltre spese generali al 1E%, iva e cpa.


Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2018.


Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2018

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