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Calunnia: sui rapporti con il reato di concussione


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

In tema di prova dichiarativa, sono utilizzabili le dichiarazioni rese in qualità di testimone dalla persona offesa del reato di concussione che sia stata a sua volta denunciata dall'imputato per calunnia, in quanto l'incompatibilità non sussiste nel caso in cui i reati reciprocamente commessi si collochino in contesti spaziali e temporali diversi (Cassazione penale , sez. VI , 22/01/2019 , n. 6938).

Fonte: Ced Cassazione Penale

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 22/01/2019 , n. 6938

RITENUTO IN FATTO

1. I difensori di fiducia di R.P. e D.M.M. impugnano tempestivamente la sentenza indicata in epigrafe, con cui la Corte d'appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ha riconosciuto agli imputati la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4 e rideterminato quindi la pena a loro carico in anni due di reclusione ciascuno, con interdizione temporanea dai pubblici uffici per pari durata e riconoscimento per entrambi del beneficio della sospensione condizionale della pena, così confermando la loro declaratoria di colpevolezza per i due distinti episodi di concussione commessi in data (OMISSIS), in danno di altrettanti cacciatori, da cui i prevenuti, abusando "della propria qualità e dei poteri inerenti alla loro funzione" di guardie venatorie, si facevano corrispondere modeste somme di denaro - in un caso Euro 70,00, nell'altro Euro 100,00 - mediante la pretestuosa minaccia di elevare loro contravvenzioni per inesistenti irregolarità.


2. L'avv. Acconcia, nell'interesse del R., formula le seguenti doglianze:


2.1 "travisamento della prova e contraddittorietà della motivazione, nonchè violazione dei canoni di valutazione della prova ex art. 192 c.p.p. ed inversione del corretto ragionamento logico probatorio, rilevante ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e)": la Corte distrettuale, "con motivazione solo apparente e, dunque, assolutamente carente e contraddittoria", avrebbe ignorato le circostanze denunciate e sintomatiche della radicale inattendibilità delle dichiarazioni accusatorie provenienti dalle presunte persone offese - quelle, cioè, legate all'errata indicazione dell'abbigliamento indossato dalle guardie venatorie autrici dell'asserita condotta illecita ed all'errore commesso nell'individuazione di una delle tre guardie anzidette, sfociato nell'assoluzione dell'originario coimputato S.G. già ad opera del Tribunale - e valorizzato quanto riferito dai terzi estranei alla vicenda solo in relazione alle parti coincidenti con il racconto delle persone offese, ignorando per contro quanto significativo delle incongruenze ravvisabili a carico di questi ultimi, nonchè la dedotta assenza dei necessari elementi di conferma, elusa attraverso la valorizzazione "di una giurisprudenza minoritaria secondo cui le dichiarazioni della persona offesa, laddove questa sia imputata per calunnia in relazione alla querela sporta nei confronti dell'imputato, possono essere poste a fondamento della sentenza anche se prive di riscontri esterni";


2.2 "violazione di legge; errata qualificazione giuridica del fatto": anche a voler prestare credito all'incerto racconto delle persone offese, l'unico dato su cui si assume registrarsi convergenza sarebbe costituito dalla "dazione di denaro da parte di RA. ed A. al fine di evitare le sanzioni minacciate", donde la ben maggiore logicità dell'ipotesi del raggiungimento di un vero e proprio accordo tra i predetti e gli imputati e non già di una costrizione ad opera di questi ultimi, donde l'inquadramento dei fatti, anche alla luce dell'insegnamento di cui alla sentenza n. 12228 delle Sezioni Unite in data 24.10.2013, nell'ambito del paradigma dell'art. 319, ovvero dell'art. 319 quater c.p.;


2.3 "violazione di legge; errata applicazione della stessa in riferimento al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 323 bis c.p.": il "minor disvalore penale" comunque proprio dei fatti per cui è processo avrebbe dovuto correttamente condurre all'applicazione della detta circostanza, espressamente invocata dalla difesa.


3. Nell'interesse sia del R. che del D.M., l'avv. Giuseppe Stellato, difensore di fiducia di entrambi, formula quattro motivi di doglianza.


3.1 Con il primo di essi il legale ricorrente denuncia "violazione di legge e difetto di motivazione, con riferimento all'art. 210 c.p.p., art. 497 c.p.p., commi 2 e 3, artt. 586 e 597 c.p.p.".


Rileva l'atto d'impugnazione di cui trattasi che, a fronte del percorso seguito dal Tribunale, connotato dalla ricerca di riscontri esterni alla parola del RA. e dell' A., coerentemente all'avvenuta escussione degli stessi con le garanzie previste dall'art. 210 codice di rito, in ragione della loro veste di indagati (per calunnia ai danni dell'originario imputato poi assolto) in procedimento probatoriamente collegato, ex art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), la Corte distrettuale ha radicalmente modificato siffatta impostazione, avendo ritenuto che, nella presente fattispecie, "le persone offese RA. ed A. dovevano essere qualificate come semplici testi, non rinvenendosi alcuna delle ipotesi (d')incompatibilità all'ufficio del testimone, connesse alla circostanza che i due fossero indagati in altro procedimento", così pervenendo al superamento della regola di valutazione probatoria fissata dall'art. 192 c.p.p., comma 3, appunto per via della natura di dichiarazioni testimoniali attribuita al contributo orale fornito dalle più volte citate persone offese. Così facendo, nondimeno, secondo l'impostazione difensiva, i giudici napoletani sarebbero incorsi:


a) in violazione dell'art. 586 codice di rito, alla luce della mancata impugnazione dell'ordinanza dibattimentale, emessa dal Tribunale in ordine alle modalità di assunzione del RA. e dell' A., ad opera del pubblico ministero, che ben avrebbe potuto provvedervi con appello incidentale, in esito al gravame proposto dagli imputati;


b) in violazione dell'art. 497 c.p.p., poichè, anche a ritenere corretto il ragionamento sviluppato dalla Corte distrettuale, la stessa "avrebbe dovuto misurarsi con il dettato dell'art. 497 c.p.p., commi 2 e 3", testè richiamato, che prevede la sanzione della nullità ove il teste sia escusso senza prestare giuramento, così come in effetti avvenuto, non avendo neppure la Corte ovviato mediante nuova audizione dei testi, nel rispetto della procedura di legge;


c) in violazione di legge e difetto di motivazione, in rapporto all'art. 210 c.p.p.: il ragionamento giuridico sviluppato dalla Corte d'appello sarebbe inficiato dall'assorbente considerazione che "la posizione processuale dei due dichiaranti, formalmente indagati per calunnia, non era stata ancora definita al momento della deposizione, neppure con un provvedimento di archiviazione", risultando perciò corretta, avuto riguardo al non contestabile collegamento probatorio esistente fra i procedimenti che qui rilevano, l'applicazione della regola di giudizio dettata dal già ricordato art. 192, comma 3 codice di rito.


3.2 La seconda censura è incentrata sulle dedotte "violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'art. 517 c.p...." - rectius: 317 c.p. - "... in relazione all'art. 192 c.p.p., comma 1 e 3, art. 530 c.p.p. e art. 606 c.p.p., lett. d) ed e)".


Il motivo trae origine dai plurimi e dettagliati profili dedotti con l'atto di appello, a supporto della ritenuta "insufficienza della prova acquisita a carico degli imputati", profili che sono ripercorsi dall'atto d'impugnazione ed alla cui illustrazione ivi contenuta può senz'altro farsi rinvio, con l'espressa precisazione da parte del ricorrente di non intendere in tal modo "sollecitare una nuova ed impossibile valutazione di merito", ma al solo fine di dar conto di "quanto lacunosa, illogica e contraddittoria risulti la motivazione utilizzata dalla Corte di appello".


3.3 La terza doglianza ha ad oggetto il tema della qualificazione giuridica del fatto, che la difesa aveva sollecitato ricondursi al paradigma dell'art. 319 c.p. e quindi, in esito all'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, in quello di cui all'art. 319 quater c.p., sulla scorta dell'esplicitato rilievo, conforme a quanto riconosciuto dallo stesso RA. nel corso della propria deposizione, della effettiva presenza di "bossoli per terra che lo esponevano a sanzione da parte delle guardie venatorie". Donde la necessità di esplorare "il tema dell'interesse specifico delle persone offese ad evitare di essere contravvenzionati", per contro totalmente tralasciato - in tesi - dalla Corte partenopea.


3.4 "Violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento all'art. 322 bis c.p." - rectius: 323 bis c.p. - costituiscono, infine, oggetto dell'ultima censura, atteso che, nonostante la modesta entità del fatto, asseritamente desumibile dall'intervenuta applicazione, ad opera della stessa sentenza di secondo grado, della circostanza di cui all'art. 62 c.p., n. 4, contraddittoriamente sarebe stato negato il riconoscimento dell'ulteriore circostanza in questione.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Entrambi i ricorsi proposti, che ben possono essere affrontati congiuntamente, non hanno fondamento e devono pertanto essere disattesi.


2. Vanno innanzi tutto rigettate le doglianze per violazione di legge, elevate avverso l'iter giuridico sviluppato dalla Corte distrettuale onde pervenire alla conferma della declaratoria di colpevolezza dei due ricorrenti.


Risponde a verità che le due sentenze di merito, accomunate dalla identità della piattaforma fattuale posta a fondamento delle convergenti decisioni, differiscono sotto il profilo del ragionamento giuridico sviluppato a supporto delle statuizioni assunte: il Tribunale, infatti - così come rilevato nel ricorso a firma dell'avv. Stellato - ha ravvisato, nel compendio probatorio in atti, l'esistenza di elementi di riscontro esterno alle dichiarazioni accusatorie provenienti dalle persone offese, necessari per via della veste loro attribuita di indagati nel procedimento relativo al "reato commesso in danno dell'offensore" (come sopra individuato) e perciò collegato ai sensi dell'art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), (v. pag. 35 della sentenza di primo grado); la Corte distrettuale, per contro, ha reputato la fattispecie concreta estranea alla previsione della disposizione testè citata, considerando quindi i dichiaranti alla stregua di testimoni tout court, di cui ha ribadito la valutazione di piena attendibilità già espressa dal primo giudice, peraltro alla stregua anche delle circostanze apprezzate in precedenza come riscontri esterni.


In proposito, va da subito osservato che palesemente inconsistente è la pur dedotta violazione dell'art. 586 c.p.p., in relazione all'omessa impugnazione, da parte del pubblico ministero, dell'ordinanza dibattimentale relativa alle modalità di assunzione delle due persone offese.


Invero, del tutto legittimamente la Corte partenopea ha rappresentato il proprio diverso apprezzamento in ordine alla qualificazione giuridica propria dei dichiaranti escussi, alla cui nuova audizione non ha fatto luogo (non risultando, del resto, neppure che sia stata sollecitata in tal senso): donde il corollario che nessuna modifica dell'ordinanza di cui sopra andava adottata, al di là dell'erronea evocazione dell'istituto dell'appello incidentale, con cui nulla ha a che vedere la prospettazione di argomentazioni volte a paralizzare, o comunque a confutare, quelle altrui, poste a base dell'appello principale che notoriamente ne circoscrive l'ambito.


2.1 Tanto premesso, l'impostazione seguita dalla sentenza impugnata, lungi dal ricollegarsi ad un indirizzo esegetico minoritario - così come apoditticamente si sostiene nel ricorso dell'avv. Acconcia - è senz'altro corretta ed immune da censure.


E' ampiamente consolidata, nella giurisprudenza di questa Corte, l'affermazione che l'incompatibilità a testimoniare, in capo a coloro che ricoprono contestualmente la veste di imputati e persone offese di reati reciproci, non sussiste in relazione a quei reati che, seppur formalmente tali - nel senso, cioè, di essere stati commessi "da più persone in danno reciproco le une delle altre", così come recita l'art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b) - siano tuttavia stati consumati in contesti spaziali e temporali del tutto distinti ed estranei e perciò non riconducibili alla previsione della disposizione codicistica testè citata.


Invero, se così non fosse, si lascerebbe spazio alla possibilità di denunce strumentalmente finalizzate a creare situazioni di incompatibilità a testimoniare, così venendo inammissibilmente ad incidere sul corretto esercizio della giurisdizione penale, laddove la negazione ai soggetti che versano nella descritta situazione di "reciprocità" della piena capacità di testimoniare deve ritenersi costituzionalmente legittima unicamente se il presupposto dell'incompatibilità sia ancorato ad un elemento oggettivo, come tale non soggettivamente determinabile a piacimento: dunque, soltanto se i reati siano stati commessi reciprocamente nel medesimo contesto causale, di spazio e tempo, dovendosi per l'effetto escludere, nel solco di una interpretazione costituzionalmente orientata, le ipotesi il cui il vincolo della reciprocità sia determinato dal comportamento di uno dei soggetti coinvolti (si vedano in tal senso Sez. 2, sent. n. 26819 del 10.04.2008, Rv. 240947; la parte motiva di Sez. 5, sent. n. 1898 del 28.10.2010 - dep. 2011, non massimata sul punto; Sez. 3, sent. n. 26409 dell'08.05.2013, Rv. 255578; Sez. 2, sent. n. 4128 del 09.01.2015, Rv. 262369).


Logico corollario di quanto precede è che del tutto irrilevante è il rilievo difensivo circa la non avvenuta definizione della veste di indagati delle due persone offese, all'atto della loro audizione innanzi al Tribunale nell'ambito del presente procedimento, giacchè l'annotazione sarebbe meritevole di attenzione solo al cospetto di una situazione riconducibile al paradigma dell'incompatibilità a testimoniare, per quanto detto esclusa nella fattispecie in esame. Nè, d'altro canto, potrebbe qui essere utilmente richiamata l'ipotesi del collegamento probatorio, in effetti parimenti contemplata dal già citato art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b), ed a cui si richiama il ricorso dell'avv. Stellone, posto che essa si ricollega all'evenienza che "un unico elemento di fatto proietti la sua efficacia probatoria in relazione ad una molteplicità di illeciti penali e non quando semplicemente la prova dei reati connessi discenda dalla medesima fonte" (cfr. Sez. 5, sent. n. 10445 del 14.12.2011 - dep. 2012, rv. 252006), come, per contro, nel caso di specie, in cui il tutto si risolve nella valutazione di attendibilità dei dichiaranti, a maggior ragione in considerazione del fatto che la supposta condotta calunniosa - per di più - è relativa a persona diversa dai due odierni ricorrenti.


Conferma autorevole della correttezza di quanto precede si trae dalla sentenza n. 33583 del 26.03.2015 delle Sezioni Unite di questa Corte, le quali, chiamate a risolvere una pur diversa problematica specifica legata alle interferenze tra le qualità di imputato e teste in relazione al contenuto di quanto riferito dal soggetto dichiarante, con detta pronuncia hanno tratteggiato una sorta di "statuto" del dichiarante medesimo, affermando con chiarezza che le dichiarazioni rese nel processo non possono determinare, in capo al dichiarante, l'insorgenza di una posizione di incompatibilità rispetto al munus di testimone: a significare, cioè, che "ove il testimone non sia chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue stesse dichiarazioni, allora scompare il profilo di una ipotetica incompatibilità, per venire ad emersione soltanto il ben diverso aspetto della attendibilità" (cfr. la parte motiva della detta sentenza, pag. 24).


2.2 Infine, non ha pregio neppure la dedotta nullità con riferimento all'art. 497 codice di rito.


A tale riguardo, è stato osservato che "Non è causa nè di nullità nè di inutilizzabilità delle relative dichiarazioni l'esame di un soggetto esaminato con le garanzie di cui all'art. 210 c.p.p., pur non ricorrendone gli estremi", signifcandosi che la parte che vi abbia interesse ben può richiedere l'assunzione del soggetto di cui trattasi quale testimone e non con le garanzie di cui all'art. 210 c.p.p. (cfr. Sez. 5, sent. n. 48274 del 27.10.2004, Rv. 230417), con conseguente assoggettamento del medesimo all'obbligo di dire la verità ed alle implicazioni che da ciò discendono. Ma ove anche si volesse seguire l'impostazione della difesa, valorizzando la mancata prestazione del giuramento di rito, non vi è dubbio che ci si troverebbe in presenza di una nullità (relativa) che, in quanto verificatasi alla presenza della parte, andava da questa eccepita prima del compimento dell'atto (ovvero immediatamente dopo, quando non possibile altrimenti), a mente dell'art. 182 c.p.p.: il che non è avvenuto.


3. Venendo ora alle censure che investono la valutazione di attendibilità delle due persone offese, RA. ed A., è doveroso esporre preliminarmente, ancorchè in via di sintesi, i passaggi più rappresentativi del ragionamento svolto dalla sentenza impugnata, cui proprio tale tema era stato principalmente sottoposto con gli appelli a suo tempo proposti.


Dunque, la Corte distrettuale, nel fare proprie le già ampie considerazioni dedicate dal primo giudice alla medesima problematica, ha in particolare osservato:


- che nessuna prova di pregressi rapporti fra i menzionati RA. ed A. è stata acquisita in atti, essendo anzi emerso che i due erano all'epoca "dimoranti in zone diverse del territorio del Paese", la loro presenza in territorio del comune di Sessa Aurunca essendo quindi dovuta unicamente alla comune passione venatoria; che si conobbero solo in occasione dei fatti per cui è processo, per i quali peraltro si risolsero a non sporgere denuncia alcuna (dalle sentenze dei giudici di merito risulta, infatti, che furono convocati dai Carabinieri, cui rappresentarono l'accaduto, rispondendo alle loro domande); che il comportamento processuale da essi concretamente tenuto è espressione dell'assenza di acrimonia di sorta nei confronti degli imputati, come sintomaticamente confermato dalla decisione di non costituirsi parti civili;


- che l'errore di persona pacificamente commesso quanto al riconoscimento di S.G. - come detto, originario coimputato, poi assolto per non aver commesso il fatto, con contestuale trasmissione degli atti al competente pubblico ministero, onde procedere per gli stessi fatti a carico del di lui padre, S.U. - non può assurgere al significato di spia della generale inattendibilità delle più volte citate persone offese, alla stregua dei molteplici elementi a tal fine indicati. Ossia:


- che gli autori delle condotte per cui è processo furono da essi indicati in tre guardie venatorie che viaggiavano su un fuoristrada Suzuki di colore bianco, mezzo esattamente coincidente - per marca, tipo e colore - con quello di proprietà del D.M.;


- che il giorno dei fatti il R., il D.M. e S. padre erano pacificamente in servizio ed in servizio insieme, giusto a bordo della Suzuki del secondo (su tale ultimo punto si veda, più ampiamente, la sentenza di primo grado);


che il detto servizio fu da essi espletato nella medesima area teatro dei fatti;


- che la circostanza che i tre vestissero la divisa dell'associazione di appartenenza - laddove le persone offese hanno riferito che erano in abiti borghesi - non può ritenersi acclarata con certezza, poggiando solo sulla parola di un teste a discarico ritenuto di dubbia attendibilità (per la ragione ivi rappresentata), essendo comunque compatibile con il fatto, oggetto di una ragionevole considerazione di ordine logico già esplicitata dal Tribunale, che, "atteso il periodo invernale e la forte umidità che connota la zona", paludosa, le guardie venatorie (gli episodi risalgono al 4 novembre) "indossassero giacconi o soprabiti", sui quali soli si fermò l'attenzione delle persone offese;


che U. e S.G., al di là della incontestabile differenza di età, presentano "indubbia somiglianza" tra loro;


che tale dato è da apprezzarsi alla luce altresì delle peculiarità proprie delle fotografie che furono rammostrate al RA. ed all' A. per il riconoscimento (fotografie in bianco e nero, risalenti ad un imprecisato numero di anni addietro, in cui gli S. sono effigiati con il cappello, che non consente di cogliere le diversità legate al colore dei capelli e, soprattutto, la figura di S.U. è contraddistinta dalla presenza di un "accentuato" paio di baffi, che lo stesso S. ha dichiarato a dibattimento di non avere più da molto tempo, all'epoca dei fatti), in tal senso essendo significativo che le persone offese abbiano dichiarato che le fotografie poste alla loro attenzione ritraevano persone più giovani di quelle con cui essi avevano avuto a che fare;


che, secondo la convergente narrazione delle persone offese, la guardia venatoria da esse malamente riconosciuta per S. padre rimase in disparte, con un blocchetto in mano, simulando di scrivere (un verbale di contravvenzione), onde non ebbe alcun contatto diretto con loro, laddove la conversazione con gli altri si protrasse per alcuni minuti così assorbendo la loro attenzione: ciò a maggior giustificazione dell'errore commesso, oltre a quanto precede (non senza aggiungere avere il Tribunale rimarcato, a proposito della circostanza di fatto da ultimo richiamata, che gli stessi odierni ricorrenti hanno dato atto "che a scrivere i verbali era di solito proprio lo S.", ovviamente Umberto: cfr. pag. 34 sent. Trib.);


che la pure rappresentata ipotesi di un condizionamento derivante dalla fonte confidenziale che determinò l'avvio delle indagini - condizionamento manifestatosi nella direzione da subito assunta delle investigazioni, con riferimento all'associazione venatoria in cui sarebbero state inquadrate le guardie autrici dei fatti - non può che cedere di fronte alle risultanze probatorie acquisite ed attentamente scrutinate, sotto il profilo della loro affidabilità e significatività.


3.1 A fronte della motivazione, dettagliata e coerente, complessivamente svolta dai giudici d'appello, il ricorso a firma dell'avv. Acconcia si limita ad una sterile ripetizione dei principali profili già affrontati dalla Corte distrettuale, senza far luogo ad una reale critica delle argomentazioni dalla stessa sviluppate, così non sottraendosi ad un chiaro rilievo di genericità. Mentre quanto al ricorso dell'avv. Stellato, connotato dalla puntigliosa reiterazione di tutte le obiezioni svolte con l'atto di appello, che i giudici di secondo grado avrebbero malamente disatteso, quando addirittura non omesso di trattare, esso tradisce, in realtà, il proprio non consentito apprezzamento diverso delle risultanze in atti, peraltro caratterizzato da una evidente lettura atomistica della complessiva vicenda, che viene frazionata e segmentata in singoli passaggi, isolatamente considerati e criticati, al di fuori della doverosa valutazione d'insieme, cui i giudici di merito hanno opportunamente fatto luogo e che sola consente di cogliere la reale affidabilità della fonte di prova presa in esame.


Anch'essa, conclusivamente, va pertanto disattesa, senza necessità di un'analitica disamina delle specifiche obiezioni, a cui la sentenza impugnata, ancor meglio se correttamente letta in uno con quella del Tribunale, fornisce congrua ed adeguata risposta, come tale non censurabile in questa sede.


4. Non ha pregio neppure il motivo incentrato sulla difforme qualificazione giuridica dei fatti.


Anche in questo caso il ricorso inerente alla posizione del solo R. si risolve sul punto nella non consentita formulazione di dubbi in ordine alla minaccia posta in essere ai danni delle persone offese e consistita, in entrambi i casi, nella fittizia prospettazione della elevazione di contravvenzioni, così inducendo sia il RA. che l' A., posti di fronte al rischio della contestazione di costosi illeciti amministrativi - pur inesistenti, essendo stati già definiti pretestuosi da entrambi i giudici di merito - ad accettare di corrispondere modeste somme di denaro, espressamente sollecitate attraverso la richiesta di quanto necessario per una "pizza", ovvero per un "caffè" per tutti i componenti della squadra.


L'altro ricorso è invece all'apparenza specifico, ma solo con riferimento all'episodio avente come protagonista, suo malgrado, il RA., relativamente al quale si limita peraltro ad evidenziare come lo stesso avesse dato atto "che effettivamente vi erano dei bossoli per terra che lo esponevano a sanzione da parte delle guardie venatorie": vale a dire, indicando una pretesa violazione estranea al tenore del relativo capo d'accusa, così come concretamente formulato, e - ancora - riportando solo una parte del tenore delle dichiarazioni di cui trattasi, quali riprodotte nella sentenza di primo grado, ove è detto chiaramente - senza che il punto risulti in alcun modo confutato - che lo stesso RA. fu pronto nel replicare immediatamente al suo contraddittore che quella violazione "avrebbe presupposto la conclusione dell'attività venatoria, che era invece ancora in corso" (cfr. pag. 6 sent. Trib.), non avendo perciò alcuna ragion d'essere la contestazione dell'abbandono dei bossoli sul posto.


Dunque, anche tale ricorso è connotato da insuperabile genericità, non solo quanto all'episodio in danno dell' A. - in ordine al quale nulla si dice - ma anche con riferimento all'episodio in danno del RA., stante la diversità della ricostruzione in fatto posta a base della doglianza formulata: di qui l'infondatezza del richiamo al paradigma dell'art. 319 quater c.p., in ragione dell'inesistenza di qualsivoglia utilità a beneficio del RA. e dell' A., che possa averli determinati al pagamento non dovuto.


5. Reputa il Collegio che nemmeno la residua censura, avente ad oggetto la mancata applicazione della circostanza di cui all'art. 323 bis c.p., rivesta fondamento.


La Corte distrettuale ha fornito precisa motivazione delle ragioni della decisione assunta in proposito, ponendo l'accento sul fatto che le condotte incriminate siano state attuate "a distanza di pochi minuti l'una dall'altra e per di più ai danni di soggetti che erano una presumibile facile preda (per l'età avanzata dell' A. e per la residenza in (OMISSIS) dell'altro), con modalità particolarmente insistenti e aggressive".


Con detta argomentazione i difensori ricorrenti, a ben vedere, non si confrontano (ricorso avv. Stellato), ovvero si limitano ad un'apodittica negativa (ricorso avv. Acconcia), da ciò discendendo la genericità del motivo. Ma vi è di più, poichè, come emerge in particolare dal ricorso a firma dell'avv. Stellato, il dato di fondo a base dell'invocata circostanza attenuante consiste nella modestia della somma corrisposta: vale a dire, nel medesimo dato che ha condotto la Corte partenopea all'applicazione dell'art. 62 c.p., n. 4, che non potrebbe quindi fondare per ciò solo il riconoscimento di un'ulteriore attenuante, pena una non consentita duplice rilevanza del medesimo elemento di fatto. Il che è conforme a quanto già questa Corte ha avuto modo di affermare, sia pure in un'ipotesi inversa a quella in esame, avendo stabilito che, "In tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., qualora la circostanza attenuante speciale di cui all'art. 323 bis c.p. venga riconosciuta esclusivamente in ragione della ritenuta esiguità del danno economico cagionato dal reato, in essa rimane assorbita quella del danno patrimoniale di speciale tenuità di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4" (così Sez. 6, sent. n. 34248 del 09.06.2011, Rv. 250837).


P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2019.


Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2019

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