La massima
La falsa denuncia di smarrimento di un assegno, presentata dopo la consegna del titolo da parte del denunciante ad altro soggetto, integra il delitto di calunnia cosiddetta formale o diretta, mentre, ove la denuncia di smarrimento venga presentata prima della consegna, è configurabile il delitto di calunnia cosiddetta reale o indiretta, a condizione, tuttavia, che risulti dimostrata la sussistenza di uno stretto e funzionale collegamento, oggettivo e soggettivo, tra la falsa denuncia e la successiva negoziazione, diversamente integrandosi il delitto di simulazione di reato (Cassazione penale , sez. II , 09/02/2018 , n. 14145).
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La sentenza integrale
Cassazione penale , sez. II , 09/02/2018 , n. 14145
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 26/06/2014 il Tribunale di Milano ha condannato N.L., N.C., C.M., G.A., N.K.R. e D.G.D. in ordine al reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie indefinita di reati di truffa, ricettazione, calunnia indiretta, falso in titolo di credito, sostituzione di persona ed altro, ritenendo l'ipotesi della mera partecipazione di cui all'art. 416 c.p., comma 2 per tutti i predetti imputati ad eccezione di N.L., considerato il promotore ed organizzazione del sodalizio criminoso.
Il Tribunale ha, altresì, condannato i suindicati imputati per numerosi reati-fine tra quelli contestati - descritti ai capi da 1) a 248), di frequente ricomprendenti più fatti di reato), commessi in danno di persone fisiche e giuridiche dal 2009 e fino all'esecuzione delle misure cautelari, avvenuta nel settembre 2011.
In particolare il maggior numero delle imputazioni concerne molteplici truffe (inquadrate nelle ipotesi di cui all'art. 640 c.p. e art. 642 c.p., commi 1 e 2) nei confronti di gestori di esercizi commerciali, supermercati, ristoranti, alberghi, società di spedizione e di assicurazione, i quali sono stati raggirati mediante l'utilizzo fraudolento di numerosissimi assegni denunciati come smarriti o rubati ovvero con assegni contraffatti (a mezzo di clonazione), consegnati o negoziati da parte degli imputati, operanti in formazione diversa e riconducibili al nucleo familiare di N.L., padre di N.C., con lui coabitante, e di N.K.R., convivente con D.G.D., gruppo di cui faceva parte anche C.M., al tempo convivente con G.A., e figlia della ex-moglie di N.L..
Lo stesso capofamiglia, inoltre, si sarebbe adoperato per organizzare falsi incidenti stradali, coinvolgendo direttamente sia alcuni dei membri del suo gruppo familiare sia soggetti senza legami diretti con gli associati che si prestavano, comunque, a figurare come controparte del falso sinistro, accettando di essere indicati nei moduli C.I.D. che venivano presentati alle compagnie assicurative in modo da ottenere indebiti indennizzi, anche di importo rilevante, a seguito della produzione di documentazione medica attestante lesioni personali apparentemente subite in conseguenza del sinistro denunciato.
In funzione della commissione delle singole truffe alcuni imputati (generalmente N.C., C.M. e G.A.) provvedevano materialmente alle attività prodromiche costituite dalla ricettazione di assegni e dalla formazione di titoli contraffatti, avvalendosi di supporti informatici installati presso l'abitazione di N.L., il quale si occupava personalmente di reperire carnet di assegni di conto corrente sotto falso nome.
Inoltre venivano negoziati assegni inesigibili in quanto oggetto di denunce di furto o smarrimento da parte degli stessi associati (in particolare T.I., già coimputato nello stesso procedimento ed anch'egli partecipe del sodalizio criminoso capeggiato da N.L. per istigazione del quale egli agiva), ponendo, così, in essere la citata serie di reati-fine (ricettazione, contraffazione di titoli di credito o di altre scritture private, formazione o detenzione di falsi documenti di identità, calunnia, sostituzione di persona) prodromici alla realizzazione delle condotte truffaldine ed al connesso conseguimento degli illeciti profitti economici.
I predetti imputati, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, sono stati condannati alle pene ritenute di giustizia nonchè al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili VITTORIA Assicurazioni S.p.A., ZURICH INSURANCE PLC ed ALLEANZA TORO S.p.A., (quale incorporante AUGUSTA Assicurazioni S.p.A.), ESSELUNGA S.p.A. e GRAN SASSO CAR s.r.l..
1.2. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 20/12/2016, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano appellata da tutti i suindicati imputati, ha assolto N.K.R. dal reato di cui al capo A) (associazione a delinquere) per non aver commesso il fatto; ha, poi, assolto N.L. dai reati di falsità materiale ascritti ai capi 2), 21), 67), 126), 131), 139), 174), 239); N.C. dai reati di falsità materiale ascritti ai capi 21), 67), 174); C.M. dai reati di falsità materiale ascritti ai capi 67), 126), 131), 174); G.A. dal reato di falsità materiale ascritto al capo 126); N.K.R. dal reato di falsità materiale ascritto al capo 239), non essendo i predetti fatti contestati più previsti dalla legge quali reati; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di N.L. in ordine ai reati di truffa cui ai capi 24), 47), 48), 74), 96), 104), 151), 170) e 174) perchè l'azione penale non doveva essere esercitata per difetto di valida querela; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di N.C. in ordine ai reati di truffa di cui ai capi 24), 74), 96), 104), 151), 170) e 174) perchè l'azione penale non doveva essere esercitata per difetto di valida querela; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di G.A. in ordine ai reati di truffa di cui ai capi 96) e 170) perchè l'azione penale non doveva essere esercitata per difetto di valida querela; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di C.M. in ordine ai reati di truffa di cui ai capi 47), 48), 74), 151) e 170) perchè l'azione penale non doveva essere esercitata per difetto di valida querela ed in ordine ai reati di calunnia cui ai capi 111) e 112) perchè estinti per intervenuta prescrizione; ha rideterminato la pena irrogata a N.K.R. peri residui addebiti in anni due, mesi due di reclusione ed Euro 1.200 di multa, previo riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle rispettive aggravanti; ha confermato le pene per N.L., N.C., C.M. e G.A.; ha dichiarato N.L., N.C., C.M. e G.A. interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale per la durata della pena principale, confermando nel resto la sentenza impugnata.
Ha, poi, condannato N.L., N.C. e C.M., in solido tra loro, alla rifusione delle spese del grado di giudizio in favore della parte civile ESSELUNGA S.p.A.; N.L., N.C., C.M. e G.A., in solido tra loro, alla rifusione delle spese del grado di giudizio in favore della parte civile GENERALI ITALIA S.p.A. (già ALLEANZA TORO S.p.A.); N.L. e N.C., in solido tra loro, alla rifusione delle spese in favore della parte civile ZURICH INSURANCE.
2. Avverso la suindicata sentenza propongono ricorsi per Cassazione i predetti imputati.
2.1. N.K.R., a mezzo difensore, deduce due motivi:
a. difetto di motivazione e falsa applicazione di legge in relazione alla ritenuta responsabilità per i reati di concorso in truffa cui ai capi 153), 164), 182), 190) e 192).
La difesa della ricorrente deduce che la sentenza impugnata era del tutto carente in ordine alla ritenuta sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi delle truffe contestate scaturite da condotte posto in essere autonomamente dal padre N.L. il quale, insaputa della predetta ricorrente, la quale si era limitata a beneficiare dei servizi a lei offerti, aveva utilizzato degli assegni provento di attività delittuosa. Precisa che la semplice fruizione di viaggi, soggiorni e cene, di per sè, non poteva costituire circostanza idonea a comprovare la propria consapevole partecipazione della predetta alle condotte truffaldine contestate;
b. difetto di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per i reati di cui ai capi 165) (artt. 110,640 cod. pen.), 193) (artt. 110,485,491 cod. pen. e 234) e (art. 648 cod. pen).
Assume che i giudici di merito, con motivazione gravemente carente ed illogica, avevano ritenuto che l'odierna imputata fosse consapevole di porre in essere le condotte illecite contestatele non considerando che dei predetti episodi la coimputata C.M. si era assunta la piena responsabilità e che non vi era dimostrazione alcuna della consapevolezza della ricorrente della falsità del titolo in questione utilizzato fraudolentemente, a nulla rilevando il solo fatto costituito dalla compilazione ad opera della stessa dell'assegno de quo nella parte relativa all'importo.
2.2. D.G.D., a mezzo difensore, formula quattro motivi:
a. violazione di legge per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità o di inutilizzabilità; violazione dell'art. 191 cod. proc. pen..
La difesa del predetto ricorrente lamenta che i giudici di merito avevano fondato il loro convincimento di colpevolezza semplicemente ed in maniera del tutto generica unicamente sugli base degli atti di querela, assimilandone la narrazione alla prova del fatto di reato ed utilizzandola a fini probatori, deducendo che, sebbene le difese avevano consentito al tribunale di acquisire tali atti processuali, l'atto difensivo di querela redatto dalla persona offesa non poteva essere certamente equiparato ad una dichiarazione resa a sommarie informazioni testimoniali nelle forme di legge;
b. difetto di motivazione e violazione dell'art. 191 c.p.p., n. 2).
Deduce che la sentenza è affetta da manifesta illogicità in quanto viene affermata l'assoluta attendibilità delle persone offese attraverso il richiamo a massime di esperienza apodittiche ed assertive ed in assenza di criteri di inferenza idonei a rassicurare sulla loro credibilità;
c. violazione di legge in relazione all'art. 337 c.p.p., comma 3.
Lamenta che la corte territoriale, erroneamente, aveva respinto l'eccezione formulata in ordine all'invalidità delle querele presentate da coloro che si erano definiti "titolari" delle società truffate - capi 62), 129), 152), 182), 189), 190), 191) e 192) precisando che la censura riguardava "non tanto la mancanza dei poteri conferiti dalla società all'estensore dell'atto di querela quanto la titolarità, qualifica, del soggetto che aveva compilato e sottoscritto l'atto medesimo", con conseguente invalidità di tutte le querele presentate in ordine al capi di imputazione sopra indicati;
d. violazione di legge e vizio di motivazione per non avere la corte di appello valorizzato la circostanza che in ordine al capo 152), in relazione al capo 63 sub. 16), al capo 189 in relazione al capo 66.25) ed al capo 192 in relazione al capo 66.11) l'assegno consegnato agli esercenti i ristoranti compiutamente identificati ed al titolare della Edilmimosa s.n.c. era una fotocopia a colori di un assegno costituente, per l'effetto, falso grossolano con conseguente necessaria applicazione dell'art. 49 c.p., comma 2.
2.3. N.L., a mezzo difensore, formula due motivi:
a. violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 640,368 cod. pen., per mancanza di un elemento costitutivo della condotta delittuosa in esame, ossia gli artifizi ed i raggiri che necessariamente devono precedere e determinare l'induzione in errore della persona offesa ed il conseguimento dell'ingiusto profitto.
La difesa del ricorrente assume che le molteplici condotte di truffa contestate, con riferimento specifico a quelle avvinte, come da contestazione, dal legame teleologico con i vari reati di calunnia di cui ai capi 36), 37), 38), 39), 40), 65), 108) e 110) commessi per eseguire i reati di truffa di cui ai capi 47), 48), 191), 162), 160) e 180), erano asseritamente consistite nell'avere l'imputato ideato, istigato e, quindi, concorso nella proposizione delle denunce di smarrimento dei titoli oggetto di negoziazione al fine di eseguire i reati di truffa sopra indicati.
Lamenta che le argomentazioni difensive, compendiate nei motivi di gravame, volte ad evidenziare che la denuncia di smarrimento dell'assegno dopo la sua negoziazione, certamente, integrava il delitto di calunnia ma non quello di truffa, proprio in considerazione dell'insussistenza del rapporto di causalità che deve necessariamente intercorrere tra la disposizione patrimoniale della persona offesa e l'artificio ed il raggiro posto in essere dall'agente, erano rimaste prive di risposta, essendosi la corte di merito limitata ad evidenziare che la condotta truffaldina non sarebbe consistita nella falsa denunzia ma nel pagare il bene o il servizio con un assegno che programmaticamente non sarebbe stato pagato (circostanza questa non comprovata ed affermata in modo meramente apodittico) e che poichè le modalità più frequenti risultanti dai vari capi di imputazione riguardavano la denunzia di smarrimento antecedente alla negoziazione dei titoli ciò confermava la condotta truffaldina contestata laddove quanto ricostruito dalla corte di merito non rispondeva al vero dal momento che da numerosissimi capi di imputazione (fatta eccezione per sedici episodi) le denunzie di smarrimento erano tutte successive alla negoziazione del titolo e non la precedevano;
b. violazione di legge e difetto di motivazione in ordine al ruolo assegnato al ricorrente di istigatore ed ideatore delle plurime condotte criminose di calunnia e truffa.
Nell'osservare che il concorso di persone nel reato, anche se non richiede necessariamente il contributo materiale dei vari compartecipi alla condotta criminosa, potendo esso essere configurato anche in caso di apporto meramente morale, declinato in termini di istigazione o determinazione all'esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, deve necessariamente concretarsi in un contributo motivazionale volto a dimostrare l'agevolazione fattiva da parte dell'istigatore-ideatore, rileva che la relativa motivazione nel caso di specie, era totalmente mancata, nonostante una precisa devoluzione nei motivi di gravame.
2.4. G.A., con un primo ricorso a mezzo del difensore Avv. Garufi Santino, propone cinque motivi:
a. difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 416 cod. pen..
Assume che la motivazione della sentenza impugnata era del tutto carente quanto alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato associativo non avendo considerato la corte d'appello - la quale si era limitata a valorizzare il legame familiare ed affettivo sussistente fra più persone - che erano semmai ravvisabili gli elementi costitutivi del concorso di persone nei singoli reati.
Evidenzia che la configurabilità del ruolo di partecipe in capo all'imputato era stata semplicisticamente dedotta dal solo fatto che egli intrattenesse una relazione sentimentale con C.M., figlia della ex-moglie di N.L. ritenuto il dominus dell'organizzazione, mentre dalle dichiarazioni del teste T. era emerso che egli si era occupato solamente della "clonazione" degli assegni, difettando ogni prova dello stabile legame fra esso ricorrente e gli altri coimputati e della sussistenza di un vero e proprio pactum sceleris;
b. violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità dei dodici episodi di calunnia contestati.
Lamenta che la corte territoriale non aveva tenuto conto della circostanza che non vi era prova che l'imputato avesse denunziato lo smarrimento degli assegni utilizzati per le esigenze del presunto clan familiare, fatti questi posti a fondamento dei contestati reati di calunnia;
c. difetto di motivazione relativamente al mancato giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, non avendo sul punto la corte di merito adeguatamente motivato tenendo conto della personalità e dell'effettivo ruolo assunto dall'imputato;
d. violazione di legge per erronea applicazione dei principi in tema di reato continuato ex art. 81 cod. pen..
Rileva che, posto che al ricorrente erano state riconosciute le attenuanti generiche, da intendersi riferite a tutti i reati in contestazione per il principio del favor rei, non era dato comprendere il ragionamento seguito dalla Corte di appello che all'atto di operare l'aumento di pena per la continuazione, invece di contenerlo lo aveva applicato nella misura massima, operando cioè, del tutto illogicamente, un aumento di pena del triplo e senza motivare esplicitamente sulle ragioni che l'avevano indotta a tale conclusione.
Evidenzia che il ragionamento della corte era viziato in quanto, per determinare la pena in concreto per il reato continuato, la stessa avrebbe dovuto adeguatamente motivare, seguendo un procedimento logico che si articola in tre fasi: nella prima valutare ogni singolo episodio criminoso, individualmente considerato, stabilendone la pena-base secondo i parametri indicati dall'art. 133 cod. pen., pena-base da aumentare o diminuire, secondo le regole di cui all'art. 63 c.p., e s.s., se in quell'episodio ricorrono circostanze; nella seconda fase operare una analisi comparativa di tutti gli episodi che compongono la serie per stabilire quale di essi sia da considerare il più grave; nella terza fase, infine, determinare la pena dell'episodio prescelto, eventualmente fino al triplo, a seguito di una ponderata valutazione globale della gravità dei restanti episodi criminosi legati fra loro dal vincolo della continuazione;
e. con l'ultimo motivo il ricorrente lamenta illogicità della motivazione quanto alla omessa rideterminazione della pena, pur in presenza di una pronunzia assolutoria per i reati di cui capi 96), 126) e 170).
2.4.1. Il G., a mezzo diverso difensore, Avv. Marchese Simone, formula altri due motivi: - con il primo lamenta difetto assoluto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato associativo non avendo considerato la corte d'appello, la quale aveva omesso di motivare sugli specifici motivi di impugnazione, che difettava ogni prova del pactum sceleris e della sussistenza di un programma criminoso concordato; - con il secondo motivo deduce che la corte territoriale, nel confermare la pena irrogata in primo grado, pur avendo assolto il ricorrente in relazione al reato di cui al capo 126) in quanto depenalizzato e dichiarato l'improcedibilità per i reati di cui ai capi 96) e 170) per difetto di querela, aveva violato il divieto di reformatio in peius che, secondo quanto statuito da S.U. n. 40910/2005, investe anche i singoli elementi che compongono la pena complessiva e riguarda non soltanto il risultato finale di essa ma tutti gli elementi del relativo calcolo.
2.5. C.M., a mezzo difensore, formula quattro motivi:
a. con il primo motivo lamenta difetto di motivazione e travisamento della prova in ordine alla configurabilità del reato di cui all'art. 416 cod. pen..
Assume che la motivazione della sentenza impugnata era del tutto carente in ordine alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato associativo in quanto non potevano essere ritenute decisive le dichiarazioni rese sul punto dal teste T. atteso che lo stesso aveva manifestato astio nei confronti della famiglia N., si era spesso contraddetto e, peraltro, aveva parlato di reati commessi "senza una particolare regia ed organizzazione" e, per altro verso, la corte d'appello, la quale si era limitata a valorizzare il numero dei reati compiuti dai componenti del gruppo familiare tale da esigere una vera e propria organizzazione, non aveva considerato che erano piuttosto ravvisabili gli elementi costitutivi del concorso di persone nei vari reati.
Deduce che le dichiarazioni del teste suindicato, contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale, non avevano avuto adeguati riscontri in quanto il materiale rinvenuto in sede di perquisizioni costituiva prova del modo in cui erano stati realizzati gli assegni falsi ma non già riscontro estrinseco alla dichiarazioni del predetto teste in ordine alla esistenza di una associazione a delinquere nella quale N.L. agiva quale regista e coordinatore del progetto delinquenziale.
Assume, ancora, che la corte territoriale - che aveva assolto gli altri coimputati N.K.R. e D.G.D. dal contestato reato ex art. 416 cod. pen. in ragione del limitato numero delle condotte truffaldine - aveva adottato una motivazione contraddittoria o meramente apparente, operando erroneamente un discrimine per affermare l'esistenza e la partecipazione dei singoli imputati all'associazione in relazione al numero di reati-fine contestati;
b. violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità dei ventidue episodi di calunnia.
Lamenta che la Corte d'Appello si era limitata ad applicare i principi sanciti dalla Cassazione nelle pronunzie n. 7490 del 7.1.2009 e n. 33556 del 24.9.2002 secondo cui la falsa denuncia di smarrimento di assegni presentata da un soggetto dopo averli consegnati ad altra persona in pagamento di un'obbligazione integra il delitto de quo in quanto è sufficiente che i fatti falsamente rappresentati all'autorità giudiziaria siano tali da rendere ragionevolmente prevedibile l'apertura di un procedimento penale a carico di persona determinata, non considerando che, come si evinceva dagli stessi capi di imputazione, le denunce di smarrimento non sempre erano state presentate successivamente alla consumazione del reato di truffa.
Rileva che, di conseguenza, pur trattandosi un reato di pericolo il principio sancito dalle sentenze menzionate non rilevava nel caso concreto in quanto in relazione alla condotte contestate non solo chi aveva ricevuto l'assegno oggetto della falsa denuncia era stato sin da subito considerato una parte offesa del reato di truffa ma nelle stesse azioni compiute dagli imputati era, in ogni caso, assente l'elemento soggettivo del delitto di calunnia.
Infatti, l'imputata aveva sempre agito al fine di ricevere dei beni ovvero dei servizi da terzi mentre la stessa non aveva mai hanno voluto incolpare di un reato la persona eventualmente truffata;
c. violazione di legge in relazione ai criteri di valutazione della prova previsti dall'art. 192 c.p.p., comma 3 nonchè mancanza, mera apparenza ovvero contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei reati di frode assicurativa di cui ai capi 187) e 188) della rubrica.
Deduce che la Corte territoriale aveva evidenziato come le dichiarazioni auto ed etero accusatorie del teste assistito T.I. risultavano riscontrate sulla base della documentazione rinvenuta in sede di perquisizione delle abitazioni di N.L. e C.M. non considerando che tutti gli atti contenenti le constatazioni amichevoli d'incidente sequestrati non provavano la falsità dei sinistri e la conseguente truffa assicurativa commessa dell'imputata, come descritti nel capo di imputazione, non sussistendo alcuna indicazione di riscontri relativi all'inesistenza del sinistro stradale.
Rileva che, conseguentemente, risultava violato il principio sancito dall'art. 192 c.p.p., comma 3 che richiede che le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato siano valutate unitamente agli altri elementi di prova, risultando la motivazione adottata meramente apparente in quanto il solo sequestro di moduli assicurativi non dimostrava la commissione del reato di frode assicurativa e, comunque, la responsabilità dell'imputata;
d. illogicità della motivazione quanto alla omessa rideterminazione della pena, pur in presenza di una pronunzia assolutoria per i reati di cui capi 67), 126), 131), 174) per non essere più i fatti previsti come reati e per quelli di cui ai capi 47), 48), 74), 151) e 170) perchè l'azione non poteva essere iniziata per difetto di valida querela.
2.6. N.C., con due distinti ricorsi uno proposto personalmente l'altro a mezzo del difensore di fiducia Avv. Ciccarelli Mario Domenico, formula quattro motivi interamente sovrapponibili ai motivi proposti da C.M. relativi a: difetto di motivazione e travisamento della prova in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 416 cod. pen.; - violazione di legge e difetto di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità degli episodi di calunnia contestati; - violazione di legge relativamente ai criteri di valutazione della prova previsti dall'art. 192 c.p.p., comma 3 nonchè mancanza, mera apparenza ovvero contraddittorietà della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei reati di frode assicurativa; illogicità della motivazione quanto alla omessa rideterminazione della pena, pur in presenza di una pronunzia assolutoria per i reati di cui capi 67), 126), 131), 174) per non essere più i fatti previsti come reati e per quelli di cui ai capi 47), 48), 74), 151) e 170) perchè l'azione non poteva essere iniziata per difetto di valida querela.
Con ulteriore motivo (sub. 4 di entrambi i ricorsi) lamenta mancanza, mera apparenza ovvero contraddittorietà della motivazione quanto alla ritenuta sussistenza dei reati di furto aggravato ed utilizzo indebito di tessere Bancomat (capi 212. e 213. della rubrica).
Si assume che difettava la prova del furto perpetrato in danno della persona offesa S.S. e che, parimenti, mancava ogni riscontro all'utilizzo da parte della ricorrente delle tessere Bancomat in questione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso avanzato da N.K.R. deve ritenersi inammissibile in quanto manifestamente infondato.
1.2. Va, invero, osservato che tutte le censure proposte con il presente ricorso dalla predetta imputata costituiscono una pedissequa e tralaticia riproposizione delle stesse doglianze dedotte con i motivi di appello. Il ricorso, quindi, deve essere ritenuto null'altro che un modo surrettizio di introdurre, in questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la quale, con motivazione logica, priva di aporie e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, ha puntualmente disatteso la tesi difensiva ritenendo la predetta responsabile a pieno titolo di tutti i reati contestati di truffa di cui ai capi 153), 164), 165), 182), 190), 191) e di ricettazione cui al capo 234) sulla scorta delle complessive emergenze processuali, valorizzando, in particolare, il "contesto in cui tali truffe sono state realizzate" (nell'ambito del quale è emerso il pieno coinvolgimento della ricorrente) nonchè il "ruolo attivo" svolto dalla predetta imputata nella truffa compiuta con l'assegno falso fornito per il pagamento da C.M. (v. sent. ff. 161 e segg.).
1.3. Occorre del resto rilevare che in tema di giudizio di cassazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 - dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 26548201).
1.4. Deve, anche, osservarsi che nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate; siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. (Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012 - dep. 28/12/2012, Muià e altri, Rv. 25410701), sicchè tutte le censure proposte sono inidonee ad intaccare l'iter motivazionale adeguato, congruo e logico della pronunzia impugnata.
2. Il ricorso di D.G.D. è anch' esso inammissibile.
Le doglianze formulate sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate alle complessive emergenze processuali, si palesano immuni da vizi logici e giuridici.
La corte territoriale, con motivazione congrua ed adeguata, ha esaminato tutte le questioni oggetto dei motivi di ricorso (la complessiva valenza probatoria degli atti di querela, v. f. 161; la validità delle querele, v. ff. 146 e segg.; la insussistenza di un falso grossolano, v. f. 160) ma a fronte delle puntuali ed articolate argomentazioni della corte territoriale il D.G. ha proposto delle censure del tutto generiche ed aspecifiche che non si confrontano in alcun modo con le puntuali motivazioni della sentenza impugnata.
2.1. Va pure rimarcato che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello, trattandosi di c.d. doppia conforme, si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando il giudice del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordi nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, sent. n. 44418 del 16/07/2013, dep. 04/11/2013, Rv. 257595), apparendo, dunque, la sentenza impugnata, da leggere unitamente alla sentenza di primo grado, immune dalle censure genericamente prospettate dal predetto imputato.
3. Il ricorso di N.L. è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Devono, infatti, ritenersi insussistenti i vizi di motivazione pur genericamente denunciati dal ricorrente perchè la Corte territoriale ha compiutamente esaminato le doglianze difensive del predetto imputato ed ha dato conto del proprio convincimento sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, esaurientemente argomentando circa la pronuncia di responsabilità del medesimo oltre che per le contestate calunnie anche in ordine ai reati di truffa de quibus finalizzati al conseguimento di illeciti profitti economici commessi mediante l'utilizzo di assegni oggetto di false denunce di furto o smarrimento da parte degli stessi associati (v. sent. ff. 158 e segg.).
Nell'esame operato dai giudici del merito le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la conferma delle conclusioni di colpevolezza.
3.1. In ordine alle contestazioni circa la asserita sussistenza di errori valutativi quanto alla lettura del compendio probatorio va, pervero, osservato che le contestazioni non colgono nel segno ove si evidenzi che "In tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione. (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013 - dep. 27/02/2013, Reggio, Rv. 25498801)", non risultando nè carente nè illogico l'iter motivazione contrariamente a quanto lamentato dal predetto imputato.
3.2. La motivazione del provvedimento impugnato si rivela, dunque, congrua in fatto ed adeguata in diritto sia nella parte in cui tenuto conto delle modalità delle condotte in questione ha ritenuto integrate le condotte truffaldine in contestazione sia laddove ha accertato, con ragionamento in fatto non sindacabile in questa sede, il ruolo del predetto quale istigatore ed ideatore delle plurime condotte di calunnia e truffa oggetto di causa.
3.3. Deve osservarsi, del resto, che "In tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento". (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, O., Rv. 26296501).
4. Devono ritenersi manifestamente infondati anche i motivi di ricorso formulati da G.A., C.M. e N.C., da esaminare congiuntamente in quanto fra loro connessi, afferenti la dedotta insussistenza del contestato reato associativo.
4.1. Va, in primo luogo, chiarito quanto al profilo relativo alla mera configurabilità di ipotesi di concorso e non già di un sodalizio criminoso che "Come è stato più volte affermato da questa Corte, alla stregua del paradigma della disposizione di cui all'art. 416 c.p., per potersi ritenere sussistente un'associazione per delinquere, occorre un accordo, tra più persone, di carattere generale e continuativo, per l'attuazione di un programma delinquenziale, affidato ad una stabile organizzazione, con predisposizione, da parte del sodalizio, di attività e di mezzi. Da ciò discende che criterio distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato, deve incentrarsi essenzialmente nel carattere dell'accordo criminoso, che, nella seconda ipotesi, si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati determinati (eventualmente ispirati da un medesimo disegno criminoso, che, tutti, comprenda e preveda), con la realizzazione dei quali, si esaurisce l'accordo dei correi - con cessazione di ogni motivo di pericolo di allarme sociale - mentre nella prima, l'accordo criminoso risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente ed al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati, che, come si sa, non è richiesta per la sussistenza del reato": ex plurimis Cass. 42635/2004 Rv. 229906; Cass. 933/2014 Rv. 258009. E va pure richiamato l'orientamento secondo cui "il discrimine tra la fattispecie plurisoggettiva e quella concorsuale non è qualificabile come rapporto di specialità, bensì deve essere individuato nella necessaria qualificazione dell'accordo associativo come una struttura permanente, nella quale i, singoli associati divengono - ciascuno nell'ambito dei propri compiti assunti od affidati - parti di un tutto, con il fine di commettere una serie indeterminata di delitti": ex plurimis Cass. 7957/2004 Rv. 228482.
4.2. Ciò posto in diritto ben può affermarsi che il giudici di merito - nella due sentenze le cui motivazioni, come detto, si integrano - hanno effettuato la disamina dei fatti in contestazione pervenendo, con motivazione che non è nè carente nè manifestamente illogica, alla affermazione della sussistenza della contestata associazione a delinquere cui hanno presso parte tutti i suindicati ricorrenti, individuando una serie di elementi fattuali, anche indiziari, idonei a comprovare la cointeressenza di N.C., C.M. e G.A. nelle attività dell'associazione stessa di cui sono risultati fare parte anche altri soggetti fra cui N.L. indicato quale promotore ed organizzatore del sodalizio criminoso.
4.3. La Corte di Appello di Milano con una motivazione ampia, adeguata, logica e coerente, (vedi ff. 137 e segg.) ha puntualmente ricostruito la struttura oggettiva e soggettiva della associazione de qua, precisando che "In definitiva, il compendio probatorio acquisito in primo grado consente di ritenere raggiunta la dimostrazione di tutti gli elementi costituivi del reato associativo, essendo stata provata l'esistenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, alcuni dei quali legati da vincoli familiari, che trascendeva e superava quello affettivo o parentale e si sostanziava in costanti frequentazioni finalizzate anche all'organizzazione dei reati scopo, da cui la banda traeva la principale fonte di sostentamento (come peraltro sostanzialmente confermato anche da N.L., N.C. e C.M.).
Allo stesso modo pienamente provata risulta la sussistenza di una rudimentale organizzazione sia materiale sia personale e l'esistenza di un programma criminoso volto alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, come dimostra il carattere seriale delle condotte poste in essere ed il sequestro di materiale chiaramente funzionale ad una reiterazione a tempo indeterminato di reati contro il patrimonio da cui il clan N. conseguiva la principale fonte di sostentamento".
4.4. Orbene i suindicati ricorrenti tentano, in realtà, di far leva sulla asserita autonomia dei singoli elementi indiziari e, quindi, di frazionare l'insieme del quadro probatorio al fine di meglio confutarlo. Per contro, come ha ripetutamente ritenuto la Suprema Corte, la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell'impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest'ultimo caso, implicitamente confutati.
4.5. Va, del resto, osservato che, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa dei ricorrenti suddetti, la prova dell'esistenza di un'associazione a delinquere ben può essere desunta, anche in via indiretta, da facta concludentia fra i quali assume una particolare pregnanza la consumazione di numerosi reati fine svolti con modalità seriale e che richiedono, per la loro consumazione, una distribuzione di ruoli fra vari soggetti, come precisato cfr. Cass. Sez. 1^, 29.3.1994, n. 348, Bellomo; vedi anche (Sez. 2, n. 486 del 21/12/1998 - dep. 15/01/1999, Avezzano, Rv. 21225101; Sez. 5, n. 6446 del 22/12/2014 - dep. 13/02/2015, Boschetti, Rv. 26266201, sicchè anche sotto tale profilo la sentenza che ha valutato complessivamente le condotte degli imputati e le modalità dai reati fine commessi con analoghe modalità, si appalesa immune da censure.
4.6. Deve, inoltre, evidenziarsi che, contrariamente a quanto lamentato dalle ricorrenti C.M. e N.C., non si ravvisa alcun travisamento della prova quanto alla valutazione delle dichiarazioni rese del teste T.I. il quale ha ricostruito in modo chiaro ed univoco, come affermato dai giudici di merito, le vicende afferenti l'associazione a delinquere in questione.
Le stesse sono state esaminate correttamente dalla corte territoriale la quale, in conformità a quanto già evidenziato dai giudici di primo grado, ha verificato l'attendibilità intrinseca del teste, ex art. 197-bis cod. proc. pen. facendo corretta applicazione dei canoni di valutazione previsti dall'art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 ed ha individuato una serie elementi di riscontro alle dichiarazioni del medesimo (v. sent. ff. 142 e segg.), dovendosi, del resto, precisare che il giudizio sulla rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova è devoluto insindacabilmente ai giudici di merito e la scelta che essi compiono, per giungere al proprio libero convincimento, con riguardo alla prevalenza accordata a taluni elementi probatori, piuttosto che ad altri, ovvero alla fondatezza od attendibilità degli assunti difensivi, quando non sia fatta con affermazioni apodittiche o illogiche, si sottrae al controllo di legittimità della Corte Suprema. Si è in particolare osservato che non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti. (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011 - dep. 25/05/2011, Tosto, Rv. 25036201).
4.7. Ora, applicando i menzionati principi al caso di specie, sulla scorta delle considerazioni che precedono, deve concludersi nel senso che la motivazione della Corte territoriale, quanto alla ritenuta sussistenza della menzionata associazione a delinquere ed alla fattiva partecipazione di tutti i suindicati imputati, resiste alle censure di cui ai rispettivi ricorsi.
5. Osserva, quindi, il Collegio che è inammissibile il secondo motivo del primo ricorso proposto dal G. e riguardante la asserita violazione di legge ed il lamentato vizio di motivazione quanto alla affermazione di responsabilità dello stesso per i reati di calunnia contestatigli, doglianza che non risulta essere stata previamente dedotta come motivo di appello secondo quanto è prescritto a pena di inammissibilità dall'art. 606 c.p.p., comma 3, come si evince dalli esame dell'atto di appello (cfr., Sez. 5, n. 28514 del 23/04/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577, in cui si afferma che non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perchè non devolute alla sua cognizione): da qui l'impossibilità di una valutazione della detta censura nella presente sede di legittimità.
6. Va, poi, disatteso, in quanto manifestamente infondato, anche il terzo motivo con cui il suddetto ricorrente lamenta la mancata concessione delle attenuti generiche con giudizio di prevalenza rispetto alle contestate aggravanti sulla scorta del principio secondo cui in tema di concorso di circostanze, il giudizio di comparazione risulta sufficientemente motivato quando il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'art. 69 cod. pen. scelga la soluzione dell'equivalenza, anzichè della prevalenza delle attenuanti, ritenendola quella più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto. (Sez. 2, n. 31531 del 16/05/2017 - dep. 26/06/2017, Pistilli, Rv. 27048101), non sussistendo, quindi, alcun vizio motivazionale tenuto conto del complessivo iter argomentativo della sentenza impugnata su tale aspetto.
7. Deve ritenersi inammissibile, in quanto manifestamente infondata, la contestazione del G. relativa alla violazione dell'art. 81 c.p., comma 2 dovendosi in questa sede dare continuità al condivisibile orientamento secondo cui in tema di determinazione della pena nel reato continuato non sussiste obbligo di specifica motivazione per gli aumenti relativi ai reati satellite, essendo sufficienti a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base. (Sez. 2, n. 50987 del 06/10/2016 - dep. 30/11/2016, Aquila, Rv. 26873101).
7.1. E' stato, ancora, precisato che nel caso in cui. il giudice - nella specie la Corte d'appello - abbia congruamente motivato in ordine alla determinazione della pena, facendo riferimento alla natura dei reati, alla personalità dell'imputato e alle concesse attenuanti generiche, egli non ha l'obbligo di autonoma e specifica motivazione in ordine alla quantificazione dell'aumento per la continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base. (Sez. 3, n. 3034 del 26/09/1997 - dep. 10/11/1997, Coletta, Rv. 20936901).
Tenuto conto delle complessive argomentazioni dei giudici di merito in punto di dosimetria della pena non sussiste, quindi, sotto il dedotto profilo la lamentata violazione di legge.
8. Occorre, ancora, evidenziare che sono del tutto infondate le censure del G. relative alla asserita violazione da parte della corte territoriale del divieto di reformatio in peius.
8.1. Va, in proposito, ricordato che secondo quanto statuito dalle S.U. non viola il divieto di "reformatio in peius" previsto dall'art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell'impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest'ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall'identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014 - dep. 14/04/2014, C, Rv. 25865301).
Si è pure affermato che il giudice di appello, dopo aver escluso una circostanza aggravante o riconosciuto un'ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall'imputato, può, senza incorrere nel divieto di "reformatio in peius", confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purchè questo sia accompagnato da adeguata motivazione. (Sez. U, n. 33752 del 18/04/2013 - dep. 02/08/2013, Papola, Rv. 25566001).
8.2. Dal momento che è solo "la pena finale" che "non deve essere superata" dal giudice del gravame, la sentenza appare immune dalle prospettate censure avendo la corte territoriale, con motivazione congrua ed adeguata (v. ff. 56 e segg.), chiarito le ragioni per cui, pur a fronte di alcune assoluzione, andava confermata, a carico dei vari compiutati fra cui il G. la pena irrogata dal Tribunale in primo grado.
9. Osserva il Collegio che i vizi di motivazione, genericamente denunciati da N.C. e C.M., nei ricorsi quanto alla responsabilità delle medesime rispettivamente, per i reati di calunnia, truffa, frode assicurativa, furto nonchè utilizzo indebito di tessere Bancomat - i quali possono essere esaminati congiuntamente in quanto assimilabili nella rispettiva prospettazione - sono tutti manifestamente infondati dal momento che la Corte territoriale ha adeguatamente esaminato le doglianze difensive ed ha dato conto del proprio convincimento sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, esaurientemente argomentando circa la pronuncia di responsabilità, dovendosi, peraltro considerare, trattandosi di c.d. doppia conforme, che la motivazione della sentenza impugnata si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo.
9.1. Tutti i ricorsi delle predette imputate (contenenti motivi in parte sovrapponibili) si appalesano, dunque, inammissibili in quanto tendono a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito e non indicano in maniera specifica vizi di legittimità o profili di illogicità della motivazione della decisione impugnata ma mirano solo a prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti, indicata come preferibile rispetto a quella adottata dai giudici del merito, ricostruzione che è insuscettibile di valutazione in sede di controllo di legittimità.
9.2. Non pare superfluo al Collegio ricordare che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, Rv. 233708), anche alla luce della formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dettata dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) "effettiva", ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non "manifestamente illogica", ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non internamente "contraddittoria", ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente "incompatibile" con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell'affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l'esistenza di "atti del processo" non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l'atto processuale cui intende far riferimento, l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonchè dell'esistenza effettiva dell'atto processuale in questione, indicare le ragioni per cui quest'ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione).
9.3. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dalle suindicate ricorrenti siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. E', invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo".
9.4. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.
Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, "mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano" (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).
9.5. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all'esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa. Nè, la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l'argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all'esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, Ciavarella, Rv. 241214).
9.6. Muovendo da tali premesse la motivazione della sentenza impugnata, sui punti in contestazione, appare, invero, conforme diritto ed adeguata in fatto, risultando correttamente acclarata la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi di tutti i reati in contestazione rispettivamente addebitati in relazione ai quali è stata accertata la responsabilità delle predette ricorrenti (v. sent. p. 4.3. "Le censure riguardanti i reati di calunnia, truffa, ricettazione, falso in titoli di credito, frode assicurativa, furto ed utilizzo indebito di carte di pagamento", ff. 158 e segg.)
10. In ordine alla contestata sussistenza dei reati di calunnia de quibus specie, con riferimento all'asserito difetto dell'elemento psicologico, va, in particolare, osservato che per i principi affermati da consolidata giurisprudenza di legittimità integra il reato di calunnia la condotta del privato che denunci lo smarrimento di assegni bancari dopo averli consegnati in pagamento ad altro soggetto, simulando, così, il primo ai danni del prenditore del titolo, le tracce del reato di furto o di ricettazione (vedi Sez. 6, n. 24997 del 17/04/2013, Salvatore, Rv., 257029; Sez. 6, n. 12810 del 08/02/2012, Rv. 252557, Predieri).
10.1. Deve, invero, evidenziarsi che la condotta del reato di calunnia consiste nell'aver portato a conoscenza dell'autorità giudiziaria o di altra autorità che a quella abbia obbligo di riferire, "circostanze idonee ad indicare taluno come colpevole di un fatto costituente reato" in forme tali da rendere possibile l'espletamento delle indagini.
Dunque, per la configurabilità del delitto di calunnia, è sufficiente che i fatti falsamente rappresentati all'Autorità giudiziaria (o ad altra Autorità che alla prima abbia l'obbligo di riferire), pur se non univocamente indicativi di una specifica fattispecie di reato, siano tali da rendere ragionevolmente prevedibile l'apertura di un procedimento penale per un fatto procedibile d'ufficio a carico di una persona determinata.
Pervero la falsa dichiarazione di smarrimento di assegni già consegnati conduce "necessariamente" ad indagini di polizia per verificare la responsabilità penale del prenditore dell'assegno, quale soggetto univocamente e agevolmente identificabile (grazie alle annotazioni contenute sull'assegno) ed induce a prospettare i reati di furto e/o ricettazione.
Quanto alla prova dell'elemento soggettivo, ciò può desumersi dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell'azione criminosa, attraverso le quali è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto, in modo da evidenziarne la cosciente volontà di un'accusa mendace ai danni di uno specifico soggetto.
Il reato di calunnia scatta anche se il denunciante sporge querela "contro ignoti", fingendo di non sapere chi è in possesso dell'assegno smarrito. Ciò in quanto, tutte le volte in cui l'accusato sia implicitamente, ma agevolmente, individuabile sulla base degli elementi contenuti nella querela, non assume alcun rilievo la circostanza che non sia stato denunciato un soggetto determinato.
In sintesi, la falsa denuncia di smarrimento di un assegno bancario consegnato in pagamento ad un terzo contiene, implicitamente, l'accusa di furto o di ricettazione nei confronti del prenditore del titolo, dato che è agevole risalire all'individuazione di tale persona, mediante le annotazioni apposte sul titolo e la ricostruzione dei vari passaggi del sistema legale di circolazione e di incasso del medesimo titolo presso la banca.
Si è, in particolare, affermato che in tema di calunnia, la prova dell'elemento soggettivo - correttamente riscontrato dai giudici di merito in relazione ai fatti oggetto dell'odierno procedimento - può desumersi dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell'azione criminosa, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile risalire alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto, in modo da evidenziarne la cosciente volontà di un'accusa mendace nell'ambito di una piena rappresentazione del fatto attribuito all'incolpato. (Sez. 6, n. 10289 del 22/01/2014 - dep. 04/03/2014, Lombardi, Rv. 25933601).
Resta, comunque, certa l'integrazione del delitto di calunnia anche ove, pur non formulata una diretta accusa di uno specifico reato nella natura di pericolo della calunnia, sia prevedibile l'apertura di un procedimento penale per un fatto procedibile d'ufficio a carico di persona determinata (Sez. 6, n. 8045 del 27/01/2016, Contenti, Rv. 266153).
11. Fermo restando che come detto, nel caso di falsa denuncia successiva alla negoziazione si è certamente in presenza di una calunnia formale o diretta, consumata nel momento in cui la denuncia viene resa ed è irrilevante la circostanza che non sia stato espressamente incolpato un soggetto determinato, giacchè il destinatario dell'incolpazione è implicitamente ma univocamente individuato nella persona a cui l'assegno era stato consegnato dal denunciante, occorre in questa sede dare continuità all'orientamento secondo cui la falsa denuncia di smarrimento di un assegno, presentata dopo la consegna del titolo da parte del denunciante ad altro soggetto, integra il delitto di calunnia cosiddetta formale o diretta, mentre, ove la denuncia di smarrimento venga presentata prima della consegna, è configurabile il delitto di calunnia cosiddetta reale o indiretta, a condizione, tuttavia, che risulti dimostrata la sussistenza di uno stretto e funzionale collegamento, oggettivo e soggettivo, tra la falsa denuncia e la successiva negoziazione, diversamente integrandosi il meno grave illecito di simulazione di reato (Sez. 6, n. 40021 del 15/09/2016 - dep. 26/09/2016, Verdi, Rv. 26796201), rimanendo, dunque, prive di pregio le contestazioni delle ricorrenti secondo cui non sarebbe configurabile il reato di calunnia in relazione alle ipotesi, desumibili dai capi di incolpazione, in cui la denunzia di smarrimento era stata presentata "prima" della consumazione del reato di truffa.
Appare, invero, adeguata in punto di fatto e corretta in diritto la motivazione della corte di appello la quale, ritenendo, anche implicitamente, sussistente un collegamento fra la falsa denunzia e la successiva negoziazione truffaldina, trattandosi di un constante modus operandi, nel ritenere configurabile il reato di calunnia contestato non ha dato rilievo alla dedotta anteriorità della denuncia rispetto alla negoziazione del titolo.
11.1. Il Collegio condivide, infatti, l'affermazione secondo cui la falsa denuncia di smarrimento di un assegno bancario, non preceduta, bensì seguita dalla negoziazione dell'assegno da parte del denunciante, possa integrare il delitto di calunnia.
Da una parte vale la considerazione che essa obbliga, comunque, l'autorità che la riceve ad indagare su possibili reati commessi dal detentore del titolo, tra i quali rientrano necessariamente il furto o la ricettazione; e, pertanto, lungi dal contenere l'enunciazione di un fatto penalmente indifferente essa è idonea a provocare l'apertura di un procedimento penale diretto a verificare l'eventuale configurabilità di un reato procedibile d'ufficio e a identificarne gli autori, e costituisce pertanto condotta idonea ad integrare gli estremi del reato di calunnia anche nel caso in cui il suo autore non abbia espressamente ipotizzato alcun reato a carico del prenditore e non abbia proposto alcuna istanza di punizione.
11.2. In ogni caso la negoziazione di assegno compiutasi successivamente alla falsa denuncia di smarrimento ha integrato, nei casi in esame, il segmento della condotta idonea a configurare il delitto di calunnia nella forma delineata dalla seconda parte dell'art. 368 c.p., comma 1 (c.d. calunnia reale o indiretta), evincendosi che le condotte via via poste in essere da C.M. e N.C. hanno rappresentato delle vere e proprie simulazioni di tracce di reato a carico del prenditore dell'assegno, risultando certo lo stretto e intenzionale collegamento, oggettivo e soggettivo, tra la falsa denuncia resa e la successiva negoziazione idonea a consentire alle predette ricorrenti di fruire di beni e servizi senza pagare alcunchè.
12. Va, infine, evidenziata l'inammissibilità dei motivi di censura (fra loro interamente sovrapponibili) proposti da N.C. ed C.M. e G. riguardanti la quantificazione della pena da parte dei giudici di appello e la asserita violazione del principio del divieto di reformatio in peius per le medesime ragioni già rilevate ai p.p. 8/8.2 in relazione all'identico motivo proposto dal G..
13. Per le considerazioni esposte, dunque, tutti i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. Alla declaratoria d'inammissibilità consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila ciascuno.
N.C. e N.L. vanno, altresì, condannati alla rifusione delle spese processuali del grado in favore della parte civile Zurich Insurance Ass.ni PLC liquidate in Euro 4.000,00 oltre rimborso spese forfettario nella misura del 15%, cpa ed iva.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende. Condanna altresì i ricorrenti N.C. e N.L. alla rifusione delle spese processuali del grado in favore della parte civile Zurich Insurance Ass.ni PLC liquidate in Euro 4.000,00 oltre rimborso spese forfettario nella misura del 15%, cpa ed iva.
Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2018.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2018