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Calunnia: sussiste se si accusa falsamente una persona di aver sporto una falsa denuncia

Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

Integra il reato di calunnia la condotta di colui che, pur sapendolo innocente, accusi un altro soggetto di aver reso una falsa denuncia (c.d. denuncia di calunnia), anche nel caso in cui le accuse asseritamente false da quest'ultimo formulate si rivelino, per accertamenti successivi, vere, assumendo esclusivo rilievo l'aver attribuito al calunniato un fatto non corrispondente al vero. (Fattispecie in cui la Corte, sottolineando la natura della calunnia quale reato di pericolo, ha annullato con rinvio l'assoluzione dell'imputato che, sapendoli innocenti, aveva accusato il difensore e il consulente tecnico di averlo indotto ad accusare dell'omicidio della nipote la propria figlia, poi effettivamente condannata per tale reato, rilevando l'ininfluenza di tale ultima circostanza e dovendo invece essere accertato se il predetto, nel formulare le accuse nei confronti di tali professionisti, avesse riferito o meno una circostanza falsa - Cassazione penale , sez. VI , 22/10/2020 , n. 30639).

 

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La sentenza integrale

Cassazione penale , sez. VI , 22/10/2020 , n. 30639

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, riformava parzialmente la prima pronuncia - assolvendo M.M.A. dal reato di calunnia aggravata e continuata, contestatogli al capo A), e dichiarando non doversi procedere nei confronti di G.F. in relazione al reato di diffamazione aggravata contestatogli al capo D) in danno di B.R. per difetto di querela, rideterminando per entrambi gli imputati la pena finale - e confermava nel resto la medesima pronuncia del 7 novembre 2018 con la quale il Tribunale di Taranto aveva condannato il M. per altri episodi di diffamazione aggravata, di cui ai capi d'imputazione B) e C), in danno della B. e di Ga.Da., e il G. per il citato episodio di diffamazione aggravata del capo D), con riferimento alla sola posizione della persona offesa Ga..


Rilevava la Corte territoriale come tali illeciti fossero collegati alla vicenda giudiziaria che aveva visto indagato dapprima il solo M. e poi la di lui figlia S. e la moglie Se.Co. per il sequestro di persona con omicidio, verificatosi ad (OMISSIS) ai danni della minore Sc.Sa., nipote del M. e della Se., e cugina di S.. Procedimento penale conclusosi, con sentenza oramai definitiva, con la condanna della Se. e di M.S. per quel grave delitto, e di contestuale condanna del M. per il delitto di soppressione di cadavere - nel corso del quale il M. si era dapprima autoaccusato di essere stato l'autore dell'uccisione della nipote; aveva in seguito ritrattato la prima versione, asserendo che la responsabile dell'omicidio fosse la figlia S.; ed aveva, ancora, modificato il suo racconto, tornando a confessare di essere l'unico autore di quel grave delitto.


In tale contesto, la Corte di merito sottolineava come il M. dovesse andare assolto dal reato di calunnia del capo A) - addebitatogli per avere, al fine di assicurare alla figlia l'impunità, rendendo in più occasioni, come imputato, dichiarazioni spontanee prima dinanzi al Giudice dell'udienza preliminare e poi dinanzi alla Corte di assise di Taranto, ed anche depositando uno scritto di proprio pugno, accusato falsamente il proprio difensore avv. Ga.Da. e la propria consulente Dott.sa B.R. di calunnia ai danni della di lui figlia S., pur sapendoli innocenti, sostenendo che le dichiarazioni da lui rese a carico di quest'ultima fossero state suggerite proprio dal Ga. e dalla B. - in quanto, a prescindere da altre valutazioni, tale delitto non poteva oggettivamente configurarsi, avendo egli accusato i due professionisti di una calunnia di cui gli stessi non avrebbero mai potuto rispondere, tenuto conto che M.S. è stata effettivamente ritenuta responsabile, con sentenza irrevocabile, dell'omicidio in argomento, e che, pertanto, nessuno avrebbe mai potuto essere dichiarato responsabile per averle attribuito un delitto che aveva realmente consumato.


Aggiungeva la Corte tarantina come, invece, il M. dovesse essere condannato in relazione ai più episodi di diffamazione aggravata, per avere offeso la reputazione dell'avvocato Ga. e della consulente B. che lo avevano assistito nella prima fase del procedimento penale, asserendo, in interviste a tre giornali e nel corso di una trasmissione televisiva, che il Ga. lo aveva costretto o quanto meno gli aveva suggerito di riferire falsamente la circostanza della partecipazione della figlia S. a quell'omicidio; e, rendendo una ulteriore intervista ad una trasmissione televisiva della (OMISSIS), che la B., cui egli non aveva conferito alcun incarico, assieme al Ga. gli avevano suggerito di dichiarare che la nipote Sarah era morta a causa di un incidente durante un gioco che la minore stava facendo assieme alla cugina S..


Concludeva la Corte ionica come anche il G., avvocato che aveva assunto in una seconda fase la difesa del M., dovesse essere condannato per il reato di diffamazione aggravata e continuata - esclusa la procedibilità in relazione alla posizione della persona offesa B., che non aveva presentato querela - per avere, in occasione di interviste rilasciate in due distinte trasmissioni televisive, offeso la reputazione del Ga., sostanzialmente riproponendo la versione resa dal proprio assistito e cioè che il "passaggio del M. da autoaccusatore ad accusatore della figlia non fosse credibile, non fosse stato spontaneo". In particolare, evidenziando come la condotta del G. non potesse essere scriminata dall'esercizio del diritto di cronaca o di critica, nè tanto meno per un asserito esercizio del diritto di difesa tecnica.


2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il Procuratore generale presso quella Corte di appello, il quale ha dedotto la violazione di legge, in relazione all'art. 368 c.p., per avere il giudice di secondo grado erroneamente riformato la prima sentenza assolvendo il M. dal delitto di calunnia del capo A), benchè tale illecito sia reato plurioffensivo di pericolo, essendo sufficiente l'astratta possibilità, nel momento della sua commissione, dell'avvio di un procedimento penale a carico del soggetto falsamente incolpato; e considerato che l'infondatezza della notizia di reato a carico delle due odierne persone offese fosse emersa solo dopo lo svolgimento di appositi accertamenti.


3. Avverso la medesima sentenza ha presentato ricorso anche il M., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale, con quattro distinti punti, ha dedotto i seguenti motivi.


2.1. Vizio di motivazione, per contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte di merito confermato la condanna per i reati di diffamazione aggravata dopo averlo assolto da quello di calunnia, nonostante il contenuto, tutt'altro che inverosimile, delle dichiarazioni rese dall'imputato nel corso del processo inducono a ritenere - anche per l'assenza di prove certe e per la presenza di una situazione di dubbio che avrebbe dovuto risolversi in suo favore - che egli abbia agito in difetto totale di dolo (primo e secondo punto del ricorso).


2.2. Vizio di motivazione, per illogicità, per avere la Corte territoriale ingiustificatamente disatteso l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado perchè motivata in maniera insufficiente sui punti decisivi della vicenda (terzo punto del ricorso).


2.3. Vizio di motivazione, per manifesta illogicità, per avere la Corte pugliese erroneamente escluso di poter riconoscere il vincolo della continuazione tra i reati di diffamazione oggetto del presente processo e quello di soppressione di cadavere per il quale è stato già condannato con sentenza definitiva - illeciti peraltro omogeni e commessi tutti in un limitato arco temporale - benchè proprio in tale decisione irrevocabile si fosse sostenuto che il M. aveva fornito plurime versioni dell'accaduto, proprio per aiutare la figlia, confondere l'iter giudiziario e creare una situazione di dubbio nel processo, sulla base di un accordo finalizzato ad allontanare i sospetti dai componenti del suo gruppo familiare (quarto punto del ricorso).


3. Contro la sentenza indicata in epigrafe ha proposto ricorso anche il G., con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto i seguenti due motivi.


3.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 420 ter e artt. 178 e 179 c.p.p., e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello disatteso l'eccezione di nullità del giudizio di primo grado, nel quale una richiesta difensiva di rinvio di una udienza fosse stata ingiustificatamente rigettata pur motivata da un contestuale impegno professionale che aveva reso legittimo l'impedimento del patrocinatore a comparire in quella udienza.


3.2. Violazione di legge, in relazione all'art. 51 c.p., e vizio di motivazione, per contraddittorietà, per avere la Corte distrettuale erroneamente escluso che la condotta dell'imputato fosse scriminata dall'esercizio del diritto di critica nell'ambito di una determinata linea difensiva, benchè fosse stato sostenuto che il G. avesse agito nel contesto di una "strategia difensiva" finalizzata ad accreditare la versione autoaccusatoria del M. e screditare la precedente dichiarazione a carico della figlia S.; e nonostante fosse stato dimostrato che il prevenuto aveva agito non per screditare il Ga., ma per criticarne legittimamente le condotte tenute nel corso dell'incidente probatorio svoltosi per l'ascolto del M., che significativamente erano state pure stigmatizzate dal giudice che aveva condotto l'esame dell'indagato.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, vada accolto.


I giudici di merito hanno sostenuto che l'imputato M. dovesse essere mandato assolto dal reato contestatogli al capo A) in quanto non può rispondere di calunnia colui che formuli accuse che, anche per accertamenti successivi, si rivelino vere: avendo nel caso di specie il prevenuto accusato l'avv. Ga.Da. e la Dott.sa B.R. di calunnia in danno di M.S., a sua volta così accusata di essere la responsabile dell'omicidio di Sarah Sc., che, in seguito a sentenza irrevocabile di condanna, si è accertato essere effettivamente colpevole di tale efferato delitto.


Non potendo essere calunniato si è concluso - il soggetto a cui si attribuisca un delitto inesistente.


Tale impostazione, pur suggestiva, non è condivisibile perchè basata su una erronea interpretazione della norma incriminatrice oggetto di addebito.


Costituisce espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale non integra il delitto di calunnia la condotta di colui il quale denunci un fatto realmente accaduto, qualificato con un preciso nomen iuris, ma non corrispondente ad alcuna fattispecie astratta di reato, laddove nell'azione indicata difetti l'alterazione, in tutto o in parte, della verità, dalla quale possa derivare l'incolpazione per il denunciato (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 33855 del 10/04/2001, Salonia, Rv. 219812). Al medesimo indirizzo esegetico è ascrivibile anche la pronuncia richiamata nella motivazione della sentenza gravata, nella quale questa Corte ha sostenuto che non era punibile il P.M. che nel corso di una udienza aveva riferito di un coinvolgimento dell'indagato in altre indagini penali, circostanza che era risultata effettivamente vera (Sez. 6, n. 25264 del 29/04/2014, p.o. in proc. Giovagnoli, non massimata).


Tuttavia, tale regula iuris impone di verificare se sia realmente verificato il fatto che costituisce direttamente oggetto dell'accusa, mentre, laddove il reato oggetto dell'accusa sia una calunnia, diventa ininfluente la veridicità del fatto oggetto di tale secondo illecito. In altri termini, il controllo in questione va compiuto con riferimento allo specifico fatto in relazione al quale possa conseguire una incolpazione del denunciato: nella fattispecie, dunque, non è rilevante se M.S. avesse o meno commesso l'omicidio della cugina, ma se il Ga. e la B. avessero o meno formulato o concorso a formulare quella che, in quel momento, risultava essere una calunnia in danno della M.; se, dunque, l'odierno imputato, nell'accusare il proprio difensore e la propria consulente di averlo indotto ad accusare la figlia, avesse riferito una circostanza vera o avesse alterato la verità dei fatti accaduti.


Il delitto di calunnia è reato di pericolo ed è punibile quando offenda entrambi gli interessi giudici protetti dall'art. 368 c.p., quello dello Stato alla corretta amministrazione della giustizia e quello dell'incolpato a non vedere messo in pericolo il suo onore e la sua libertà personale. Ed è indubbio che indipendentemente dalla colpevolezza di M.S. in relazione all'episodio omicidiario - se si dovesse appurare che l'accusa rivolta da M.M. al Ga. e alla B. sia stato il frutto di una consapevole e volontaria alterazione della verità, gli indicati beni giuridici risulterebbero messi in pericolo e il reato de quo sarebbe configurabile.


In accoglimento dell'impugnazione del Procuratore generale la sentenza impugnata va, dunque, annullata con rinvio alla Corte di appello di Lecce che, nel nuovo giudizio, si uniformerà all'indicato principio di diritto. E' appena il caso di aggiungere che, alla data odierna, il reato, in relazione alle prime date di commissione, non risulta ancora estinto per prescrizione, tenuto conto dei periodi di sospensione della decorrenza di quel termine maturati durante il giudizio e dell'ulteriore periodo di sospensione ex lege previsto dalla legislazione speciale in materia di emergenza sanitaria da Covid-19.


2. Il ricorso presentato nell'interesse di M.M.A. è inammissibile.


2.1. Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato.


Resta esente da qualsivoglia censura di illogicità il procedimento argomentativo posto dalla Corte di appello a base della sua pronuncia di conferma, essendo stato condivisibilmente spiegato come le emergenze processuali avessero dimostrato con certezza che il M. aveva agito con piena e consapevole volontà di diffamare il proprio difensore e il proprio consulente, asserendo di essere stato da loro indotto ad accusare dell'omicidio la figlia S.: avendo, in particolare, il M., anche rendendo deposizioni reiterate, spregiudicatamente escluso che il Ga. e la B. avessero agito in buona fede; e, soprattutto, avendo il M. sostenuto di essersi determinato ad accusare la figlia solamente dopo aver avuto un colloquio con la B., circostanza, questa, smentita per tabulas, posto che lo stesso aveva formulato per la prima volta la grave accusa contro S. già nell'(OMISSIS), ben prima che la seconda avesse da lui ricevuto l'incarico di svolgere una consulenza tecnica.


Le doglianze difensive, peraltro formulate in termini alquanto indeterminati, hanno finito così per risolversi nel tentativo di dare alle prove acquisite un differente e alternativo significato dimostrativo, operazione che non è consentita nel giudizio di legittimità.


2.2. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile perchè generico.


Nella giurisprudenza di legittimità si è avuto modo ripetutamente di chiarire che il requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l'onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.


Nel caso di specie il ricorrente si è limitato ad enunciare in forma molto indeterminata il dissenso rispetto alle valutazioni compiute dalla Corte territoriale, senza specificare gli aspetti di criticità di passaggi giustificativi della decisione, cioè omettendo di confrontarsi realmente con la motivazione della sentenza gravata: pronuncia con la quale era stato chiarito come sia pacifico nella decisioni di questa Corte di cassazione il principio secondo il quale l'insufficienza e la mancanza assoluta di motivazione della sentenza non rientrano tra i casi, tassativamente previsti dall'art. 604 c.p.p., per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante nella sentenza appellata (in questo senso Sez. U, n. 3287 del 27/11/2008, dep. 2009, R., Rv. 244118).


3.3. Anche il terzo motivo del ricorso è del tutto privo di pregio.


Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, ai fini della configurabilità della continuazione dei reati, rilevanza decisiva possiede l'identità del disegno criminoso, orienta più nettamente in senso soggettivo, come ideazione, volizione di uno scopo unitario che dà senso ad un programma complessivo, nel quale si collocano le singole azioni od omissioni, di volta in volta poi commesse con singole determinazioni, sul piano volitivo. Ciò esige, dunque, che lo scopo sia sufficientemente specifico, che la rappresentazione dell'agente ricomprenda tutta la serie degli illeciti, che si inquadrano nel programma, concepito nelle sue linee generali ed essenziali, sicchè una divergenza essenziale esclude l'illecito o gli illeciti dal disegno criminoso e quindi dalla continuazione. Occorre, inoltre, che il programma criminoso sia prefigurato fin dalla consumazione del primo reato, che si assume rientrare nella continuazione, dei quali i singoli reati costituiscono i momenti di attuazione. L'accertamento del disegno criminoso, così individuato sul piano normativo e concettuale, è rimesso all'apprezzamento del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, quando il convincimento del giudice sia sorretto da una motivazione adeguata e congrua, senza vizi logici e travisamenti di fatto.


Nel percorso argomentativo seguito nella fattispecie dalla Corte salentina non è riconoscibile alcuna incongruenza o frattura logica, avendo i giudici di merito sottolineato come non vi fosse alcun dato conoscitivo capace di dimostrare che il M., al momento della commissione del delitto di soppressione del cadavere in danno della nipote, si fosse già prefigurato un programma unitario in base al quale avrebbe poi commesso plurimi episodi di diffamazione ai danni del proprio difensore e del proprio consulente tecnico: reati, questi ultimi, consumati solo in ragione dei sopravvenuti e imprevedibili sviluppi processuali che avevano portato il prevenuto dapprima ad autoaccusarsi dell'omicidio, poi a modificare l'iniziale versione accusando la figlia, ed ancora dopo a modificare nuovamente la sua narrazione, cercando di scagionare S..


In tale contesto, le doglianze difensive non colgono affatto nel segno, sia perchè non è riconoscibile alcuna omogeneità tra i delitti per i quali era stata sollecitata l'applicazione della disciplina della continuazione, per la cui operatività è circostanza irrilevante la sola vicinanza o lontananza sul piano temporale dei diversi illeciti; sia anche perchè non è affatto convincente l'avere sostenuto che il M. avrebbe commesso i delitti in questione tutti allo scopo di aiutare i componenti della propria famiglia ad evitare loro una responsabilità penale, perchè, sotto questo punto di vista, la scelta intermedia del predetto di accusare la figlia aveva finito chiaramente per rappresentare una interruzione nella continuità volitiva prospettata dalla difesa dell'odierno ricorrente, cui ancorare il reato commesso in epoca precedente con quelli consumati nel periodo successivo.


4. Anche il ricorso presentato nell'interesse di G.F. è inammissibile.


4.1. il primo motivo del ricorso è aspecifico, in quanto la difesa del G. - nel lamentare la violazione dell'art. 420 quater c.p.p. per l'erroneo rigetto, nel corso del giudizio di primo grado, di una richiesta di rinvio della trattazione di una udienza per un concomitante impegno professionale del difensore dell'imputato - ha omesso di confrontarsi con la motivazione della sentenza gravata nella quale, oltre ad altre valutazioni, si era puntualizzato come l'interessato fosse decaduto dalla possibilità di far valere la prospettata nullità in quanto l'invalidità non risultava essere stata eccepita immediatamente dopo la commissione dell'atto che ne aveva determinato l'esistenza e, comunque, prima della pronuncia della sentenza di primo grado.


4.2. Il secondo motivo del ricorso presentato nell'interesse del G. è inammissibile perchè proposto per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.


La sentenza impugnata ricostruisce in fatto la vicenda con motivazione esaustiva, immune da vizi logici e strettamente ancorata alle emergenze processuali, sicchè può ritenersi definitivamente acclarato come il G. - che all'epoca aveva assunto l'incarico di difendere il M. nel processo più volte richiamato - rendendo dichiarazioni nel corso di due interviste televisive e non certo dinanzi all'autorità giudiziaria ovvero in altre sedi competenti, lungi dal prospettare una lettura della vicenda che potesse favorire giudiziariamente il suo assistito, aveva maldestramente cercato di accreditare l'ultima versione che il cliente aveva dato tornando ad autoaccusarsi di essere l'unico autore della uccisione della nipote.


E ciò il G. aveva fatto non limitandosi a riferire ciò che il proprio cliente aveva sostenuto, ma coinvolgendo direttamente il Ga. nella vicenda, nella sostanza prospettandone in maniera subdola un atteggiamento scorretto tendente a "manipolare la realtà", offendendone gravemente l'onore e la reputazione; dunque, raffigurando la persona offesa come avvocato privo di scrupoli, capace di accreditare una falsa accusa verso la figlia pur di aiutare il proprio assistito.


I rilievi formulati al riguardo dal ricorrente - tendenti a valorizzare oltre ogni misura le scelte del giudice che, nel corso di un incidente probatorio, aveva diretto l'esame del M. e correttamente aveva impedito all'allora suo difensore, il Ga., di tenere un comportamento deontologicamente discutibile, consistito nel formulare all'indirizzo dell'esaminato domande suggestive o nocive - si muovono nella prospettiva di accreditare una diversa lettura delle risultanze istruttorie e si risolvono, quindi, in non consentite censure in fatto all'iter argomentativo seguito dalla sentenza di merito, nella quale vi è risposta a detti rilievi, sovrapponibili a quelli già sottoposti all'attenzione della Corte territoriale.


Nè nella fattispecie è ravvisabile alcuna violazione delle norme di diritto penale sostanziale richiamate nel ricorso. Escluso in radice che la condotta del G. potesse ritenersi scriminata per l'esercizio di diritto di difesa tecnica, per la totale assenza dei presupposti indicati dall'art. 598 c.p., la Corte periferica ha condivisibilmente posto in risalto come l'iniziativa non potesse neppure essere giustificata in ragione di un prospettato diritto di critica, atteso che il contenuto delle sue indicazioni era risultato, nel nucleo essenziale, non veritiero e che il tenore delle frasi usate aveva superato il limite della continenza, essendo il G. arrivato a qualificare come "vergognoso" il comportamento del collega precedente difensore del M..


5. Segue la condanna dei ricorrenti privati al pagamento delle spese del procedimento e ciascuno a quella di una somma in favore della Cassa delle Ammende, fissata nella misura indicata in dispositivo. I due imputati vanno, altresì, condannati in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Ga. che, in ragione dell'attività difensiva effettivamente svolta in questo grado, si reputa equo liquidare nella misura pure si seguito indicata.


6. Nessuna pronuncia è dovuta sulla richiesta del difensore del responsabile civile Editrice Del Duca s.r.l. in quanto, in assenza di impugnazione di altre parti manca la devoluzione di questioni che potessero giustificare l'intervento di quel responsabile civile in questo giudizio di legittimità.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al capo A) e rinvia per nuovo giudizio su tale capo alla Corte di appello di Lecce.


Dichiara inammissibili i ricorsi delle parti private, che condanna al pagamento delle spese processuali, al versamento di Euro 3.000 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, nonchè in solido tra loro alla rifusione delle spese di rappresenta e difesa della parte civile Ga.Da., che si liquidano in Euro 3.510 complessivi, oltre spese generali, iva e cpa.


Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.


Depositato in Cancelleria il 3 novembre 2020




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