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Calunnia: va condannato chi addebita ad un terzo innocente un fatto concreto e determinato


Sentenze della Corte di Cassazione in relazione al reato di calunnia

La massima

In tema di rapporto tra diritto di difesa e accuse calunniose, l'imputato, nel corso del procedimento instaurato a suo carico, può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni a lui sfavorevoli, ma commette il reato di calunnia quando non si limita a ribadire la insussistenza delle accuse a lui addebitate, ma assume ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l'accusatore - di cui pure conosce l'innocenza - nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto (Cassazione penale , sez. II , 19/12/2017 , n. 14761).

 

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza in data 2 maggio 2014 il Tribunale di Roma ha condannato L.L. perchè responsabile dei reati di appropriazione indebita ascritti ai capi b) e dei reati di calunnia di cui al capo c), unificati i reati sotto il vincolo della continuazione; M.M. e S.G. per concorso nei reati di appropriazione indebita di cui ai capi b 1), b 5), b 6), unificati sotto il vincolo della continuazione; F.D. per concorso nelle appropriazioni indebite di cui al capo b1), concesse le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate.


Ha condannato gli imputati in solido a risarcire il danno derivante dal reato di appropriazione indebita in favore della parte civile (OMISSIS), da liquidarsi in sede civile e ha condannato il solo L. a risarcire alla parte civile R.F. il danno derivante dal delitto di calunnia, da liquidarsi in sede civile.


Ha disposto, ai sensi degli artt. 316 e 323 c.p.p. il mantenimento del sequestro sulle somme e sui beni immobili sottoposti a vincolo, a garanzia delle restituzioni e del risarcimento dei danni derivanti dai reati.


Ha infine assolto gli imputati dal reato associazione per delinquere di cui al capo a) perchè il fatto non sussiste e M. e S. dalle appropriazioni indebite di cui ai capi b2), b3), b4) perchè il fatto non costituisce reato.


La Corte d'Appello con sentenza in data 31.3.2016, in riforma della sentenza del Tribunale, appellata da tutti gli imputati, dal P.M. e dalle costituite parti civili ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati in relazione ai fatti appropriativi rispettivamente ascritti e commessi sino al (OMISSIS) perchè estinti per prescrizione ed ha eliminato la relativa pena, determinando la pena in relazione alle residue imputazioni.


Ha dichiarato la nullità del sequestro conservativo disposto con la sentenza di primo grado e ne ha disposto la revoca e la cancellazione.


Ha ordinato la confisca di tutti i beni oggetto dei provvedimenti di sequestro preventivo. Ha confermato nel resto la decisione del primo giudice.


I giudici d'appello hanno respinto l'eccezione di nullità della sentenza di primo grado sollevata dalla difesa L. quale conseguenza della nullità della notificazione all'imputato dell'avviso di conclusione delle indagini e hanno sostanzialmente condiviso la decisione del Tribunale in punto sussistenza dei reati, responsabilità del L. e concorso dei due commercialisti e di F.D..


La sentenza impugnata ha escluso la sussistenza del reato associativo ritenendo che in atti vi fosse la prova che l'attività continuativa di appropriazione del danaro del partito, fosse stata certamente oggetto di un ben congegnato sistema criminoso, non occasionale o contingente, ma che mancasse la prova che quell'accordo facesse parte di un più generale programma permanente ed indeterminato di azioni illecite, pur del medesimo genere, da perdurare anche dopo il perseguimento dell'unico e determinato obiettivo accertato.


Avverso la sentenza hanno presentato ricorso per Cassazione, le parti civili e gli imputati.


R.F., premesso di essersi costituito parte civile con riguardo tutti i capi d'imputazione e nei confronti di tutti gli imputati, ha rilevato che la decisione assunta da (OMISSIS) che fin dal 2012 ha espresso la propria scelta di devolvere allo stato il proprio patrimonio non assume interferenza con la sua ferma intenzione di ottenere l'integrale ristoro dei danni sofferti in conseguenza delle condotte delittuose poste in essere dal L..


Con un unico motivo di ricorso deduce violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo all'assoluzione degli imputati per il reato associativo. Rileva che la sentenza impugnata non si è confrontata con tutte le argomentazioni sollevate nei motivi d'appello e in particolare non ha ritenuto sussistente l'indeterminatezza del programma criminoso nonostante nei motivi di gravame fosse stato evidenziato che le "ruberie" risalivano agli anni 2005 e 2006, fatti che non sono stati oggetto di valutazione perchè già prescritti al momento dell'inizio dell'indagine.


(OMISSIS) in liquidazione ha presentato un unico motivo di ricorso con il quale si duole per la affermata insussistenza del reato di associazione a delinquere sostenendo che la corte territoriale è incorsa in violazione di legge e vizio della motivazione nell'affermare l'assenza del presupposto dell'indeterminatezza del programma criminoso. Sostiene che la circostanza di avere un unico obiettivo o un'unica persona offesa da aggredire patrimonialmente, seppure in numerose e complesse azioni delittuose, non è un elemento dirimente per distinguere il concorso di più persone nel reato continuato dall'associazione per delinquere. Così come è palesemente illogico ritenere che una condotta così reiterata nel tempo sia stata ispirata da un unico iniziale disegno criminoso. Rileva, richiamando l'esempio posto a base della sentenza impugnata - che ha richiamato per affermare l'insussistenza del reato una sentenza di questa Corte (n. 19783 del 2013) - che se è ammissibile l'insussistenza del requisito dell'indeterminatezza del programma criminoso nel progetto di spoliazione di una biblioteca formata da libri antichi, tale assunto non può essere trasferito all'appropriazione reiterata per 97 volte di somme rilevanti dal conto corrente del soggetto passivo in un periodo di quattro anni, comportamento reiterato fino alla scoperta da parte dell'autorità giudiziaria, perchè mentre nel primo caso le singole sottrazioni non possono che essere funzionali l'una all'altra e quindi unitariamente programmate (il valore del compendio sottratto risiede infatti solo nella pluralità delle cose di cui è composto), nel secondo caso ogni singola condotta ha una sua autonoma finalità criminosa, ravvisabile nell'arricchimento illecito che via via si andava costituendo.


Il 17 novembre 2017 depositava memoria con la quale chiedeva l'inammissibilità del ricorso di L.L..


L.L.:


1. Con il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge in relazione agli artt. 161,162171 c.p.p., nonchè art. 185 c.p.p.. Rileva il ricorrente di avere eccepito fin dalla fase dell'udienza preliminare la nullità della notifica dell'avviso ex art. 415 bis c.p.p., con conseguente nullità di tutti gli atti successivi, perchè avvenuta non presso il luogo di detenzione agli arresti domiciliari, ma presso il difensore di fiducia avvocato Petrucci Luca, dove l'indagato aveva eletto domicilio in sede di interrogatorio di garanzia.


Sostiene il difensore che l'elezione di domicilio operata in sede di interrogatorio di garanzia doveva considerarsi revocata dalla successiva comunicazione di domicilio presso il (OMISSIS), operata dall'imputato al momento della istanza di concessione degli arresti domiciliari e ciò in forza del principio, affermato anche dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, in base al quale la dichiarazione di domicilio effettuata successivamente prevale sulla precedente elezione di domicilio, determinandone implicitamente la revoca.


Contesta la decisione della sentenza impugnata secondo la quale non ci si troverebbe in presenza di una valida comunicazione di domicilio, non essendo state rispettate le formalità di cui all'art. 162 c.p.p., evidenziando che il provvedimento impugnato non considera che il domicilio - indicato nell'istanza di sostituzione della misura ed imposto dal GIP in accoglimento della stessa - era stato personalmente accettato dall'imputato al momento dell'esecuzione del trasferimento presso il luogo degli arresti domiciliari. La circostanza che si trattava di domicilio imposto dall'autorità giudiziaria e che tale domicilio era effettivo, perchè il L. lì aveva puntualmente eseguito la misura cautelare meno afflittiva, in uno con il fatto che la scelta promanava dall'imputato ed era stata dallo stesso confermata al momento dell'esecuzione, rendeva non necessario il ricorso alle formalità di cui all'art. 162 c.p.p. essendo la comunicazione di domicilio certa ed insita nel trasferimento presso il luogo di esecuzione degli arresti domiciliari.


Rileva inoltre la difesa che l'elezione di domicilio effettuata in sede di interrogatorio di garanzia doveva ritenersi inutiliter data perchè, essendo l'imputato in vinculis, la notifica doveva essere effettuata esclusivamente presso l'istituto penitenziario ai sensi dell'art. 156 c.p.p., comma 1. Sostiene anche che l'affermazione contenuta in sentenza, secondo la quale il provvedimento di elezione di domicilio non può considerarsi inefficace, perchè conserva validità al momento della successiva scarcerazione, contrasta con la norma di cui all'art. 161 c.p.p., comma 3 che prevede che il detenuto che deve essere scarcerato ha l'obbligo di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con atto ricevuto a verbale dal Direttore dell'istituto. Ulteriore argomento a favore della tesi difensiva viene ravvisata nella previsione contenuta nell'art. 164 c.p.p. a mente del quale la determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto previsto dall'art. 156 c.p.p. e art. 613 c.p.p., comma 2;


2. Con i motivi sub 2, 3 e 4 lamenta violazione di legge e vizio della motivazione, anche per travisamento, in ordine alla sussistenza del reato di calunnia.


In particolare:


- sostiene che nel caso di specie difetta la falsa incolpazione di un reato nei confronti di R.F. ad opera dell'imputato, differentemente da quanto ritenuto dai giudici di merito. Rileva che nel caso di specie la calunnia è stata ipotizzata e ravvisata nella duplice circostanza, testualmente indicata nel capo di imputazione "che il L. nelle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio al GIP in data 23 giugno 2012 e confermate poi in quello reso al Pubblico Ministero il 17 luglio 2012 aveva affermato che nei primi mesi del 2006 R.F. - all'epoca presidente del partito, mediante indicazioni inequivoche, gli aveva attribuito il preciso incarico di effettuare, con parte degli ingenti fondi a disposizioni della (OMISSIS), operazioni di intestazioni fiduciarie di beni immobili, autorizzandolo, inoltre, su sua pressante richiesta ad attribuirsi - a titolo di compenso per la sua attività di tesoriere - somme pari a diversi milioni di Euro, circostanze entrambe negate da R.". Sostiene di avere attribuito a R. l'indicazione di direttive generali, in sè non delittuose che quindi anche se non vere non potevano determinare l'imputazione per calunnia. Rileva che la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito conferma la mancata attribuzione a R. di fatti (veri o falsi che fossero) in sè costituenti reato. Dalle sentenze emerge infatti un'evidente distinzione tra le indicazione attribuite a R., come fornite negli incontri di inizio 2006, dirette al compimento di attività non estranee alle finalità gestorie ed amministrative delle risorse del partito e quindi nell'interesse dello stesso, e le attività appropriative, soltanto successivamente compiute dall'imputato, nella personale ed esclusiva esecuzione di quegli accordi. Incorre pertanto in travisamento probatorio la sentenza di secondo grado laddove afferma che nel corso degli interrogatori del 23 giugno e del 16 luglio 2012 viene imputato a R. il ruolo specifico di mandante di tutti gli atti di appropriazione consumata non avendo mai il L. fatto tali affermazioni ed avendo anzi lo stesso escluso espressamente che R. conoscesse le singole operazioni;


- rileva inoltre che tali affermazioni sono state rese nell'ambito del legittimo esercizio di difesa e che comunque non erano idonee a determinare l'apertura di un procedimento penale a carico di R.. Viene evidenziato che R. già prima degli interrogatori richiamati aveva presentato denuncia per calunnia nei confronti dell'imputato con riguardo alle dichiarazioni rese il 16 maggio 2012 nel corso della sua audizione avanti la Giunta delle Elezioni e delle Immunità Parlamentari del Senato della Repubblica e che detta denuncia era stata trasmessa dal Procuratore della Repubblica di Roma in data 22 maggio 2012 al Pubblico Ministero procedente. Dunque se il L. era già iscritto per il reato di calunnia nel momento in cui aveva effettuato gli interrogatori le sue dichiarazioni dovevano ritenersi scriminate ex art. 51 c.p.. Per contestare le argomentazioni dei giudici d'appello - che hanno ritenuto un travalicamento dei limiti del diritto di difesa - ha richiamato sentenza di questa corte che ha affermato che non esorbita dai limiti del diritto di difesa l'imputato che attribuisce un determinato fatto di reato ad altra persona che pure sa innocente soltanto per negare la propria responsabilità e ciò faccia nell'immediatezza dell'accertamento o nella sede processuale propria (Cass. n. 15928/13).


Ritiene comunque che le dichiarazioni non possedevano l'intrinseca idoneità a determinare l'apertura di un procedimento penale a carico di R. per due ragioni:


- la prima che tali dichiarazioni - rese quando il L. era già indagato - non potevano essere considerate di per se sole intrinsecamente credibili;


- la seconda che il L. nel riferire tali vicende le aveva collocate nel 2006 e dunque a distanza di sei anni e mezzo dal momento in cui gli interrogatori venivano resi, circostanza che determinava la originaria improcedibilità per decorso del termine massimo di prescrizione di eventuali reati di appropriazione indebita.


- rileva che la sentenza è inficiata da un ulteriore vizio, afferente alla pretesa falsità delle dichiarazioni rese da L. sul conto di R.. Sostiene che la falsità di tali dichiarazioni si fonda esclusivamente sulla negazione da parte del soggetto accusato. Evidenzia che nel caso in esame l'improprio ricorso alla asserita inverosimiglianza delle dichiarazioni sembra in sostanza avere supplito alla totale carenza di prova in ordine alla falsità delle stesse. Ritiene la sentenza impugnata illogica nella parte in cui ha ritenuto inverosimili le dichiarazione del L. e totalmente attendibili quelle di R..


3. Con il quinto motivo sostiene la non configurabilità del delitto di appropriazione indebita in relazione agli acquisti immobiliari ed alla ristrutturazione degli stessi. Ritiene che la Corte d'Appello, nel rigettare la tesi del ricorrente - che aveva sostenuto che non poteva esserci appropriazione indebita, mancando l'interversione del possesso rispetto a risorse economiche del partito ed essendosi soltanto determinata una trasformazione del denaro in immobili detenuti fiduciariamente per conto della (OMISSIS) - non ha considerato che l'uso di tali beni da parte dell'imputato avveniva a titolo di locazione, corrispondendo il ricorrente un canone di affitto alle società (fiduciariamente) proprietarie degli stessi e che tutti i beni sono stati immediatamente messi a disposizione della (OMISSIS) - con offerta di trasferimento delle quote delle società proprietarie e la costituzione di pegno volontario sugli stessi in favore del partito - circostanza questa significativa non soltanto della volontà di elidere le conseguenze patrimoniali dei fatti, ma anche espressione del fattivo riconoscimento della reale appartenenza di tali beni al partito. Sottolinea anche come la effettuazione di opere di ristrutturazione fosse funzionale alla valorizzazione dei beni acquistati e come il vantaggio economico che avrebbe tratto dall'uso temporaneo dei beni, è cosa diversa dall'acquisizione della proprietà in danno dell'effettivo titolare ed è anzi pienamente compatibile con il riconoscimento della titolarità sostanziale dei beni in capo al partito insita nella fiduciarietà dell'intestazione. Contesta anche l'entità delle somme indicate nel capo b.3;


4. Con il sesto motivo di ricorso lamenta che l'imputazione di cui al capo b.2 era già prescritta prima della pronuncia di appello considerato che tutti gli assegni erano stati consegnati al Me. entro la data del 24 dicembre 2007 e che tale circostanza emerge in maniera incontestabile dalle dichiarazioni rese dal Me. in sede di SIT del 21 febbraio 2012, acquisite al dibattimento di primo grado all'udienza del 24 aprile 2013. Rileva che non assume rilievo - in quanto la consumazione del reato è avvenuta con la consegna degli assegni - il fatto che l'atto di vendita ebbe in seguito delle vicende più complesse, perchè con la consegna degli assegni si è realizzata la interversione nel possesso del denaro, precedentemente detenuto dal L. per conto della (OMISSIS), che ne avrebbe fatto un uso personale incompatibili con i diritti dell'effettivo titolare;


5. Con il settimo motivo di ricorso lamenta che l'imputazione di cui al capo b.4 era già prescritta prima della pronuncia di appello. Anche in questo caso gli assegni furono consegnati entro l'anno 2007 e quindi il termine prescrizionale era interamente decorso, anche tenendo conto delle sospensioni, alla data del 31/8/2015. La circostanza emergerebbe dalle dichiarazioni di Ru.Ro. del 6 marzo 2012, acquisite in dibattimento all'udienza del 22 maggio 2013, dalle quali è dato apprendere che i lavori di ristrutturazione avvennero tra il 2006 e il 2007. Sostiene il ricorrente che la circostanza che il Ru. non si sia espresso con assoluta certezza nel collocare la data di effettuazione dei lavori (e di correlativa consegna degli assegni) non assume rilevanza considerato che è onere dell'accusa indicare con precisione il tempus commissi delicti e che l'eventuale incertezza su di esso non può che risolversi in favore del ricorrente in forza del principio in dubio pro reo;


6. Con l'ottavo motivo di ricorso lamenta che l'imputazione di cui al capo b.6 si è prescritta nelle more del deposito della sentenza di secondo grado;


7. Con il nono motivo contesta il diniego delle circostanze attenuanti generiche e l'entità della pena;


8. Con il decimo motivo si duole della mancata concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6. Chiede una revisione critica della giurisprudenza in materia di concessione dell'attenuante del risarcimento del danno sostenendo la valorizzazione dell'intenzione concreta e non meramente pretestuose di elidere le conseguenze prodotte del reato pur senza ristorare integralmente il danno;


9. Con l'undicesimo motivo contesta l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici sostenendo che in caso di reato continuato la misura della pena cui tenere conto ai fini della natura temporanea o perpetua dell'interdizione è quella inflitta per i singoli reati e non quella complessivamente risultante dalla sentenza in caso di condanna.


10. Con il dodicesimo motivo lamenta che il giudice d'appello ha disposto la confisca di tutti i beni oggetto dei provvedimenti di sequestro preventivo benchè la sentenza di primo grado non avesse applicato tale misure di sicurezza patrimoniale e il pubblico ministero non avesse proposto appello sul punto. Ritiene che la violazione di legge è maggiore in quanto la confisca irrogata è una confisca facoltativa ai sensi dell'art. 240 c.p., comma 1 e che i beni confiscati non possono in nessun modo qualificarsi prezzo del reato di appropriazione indebita, nè tantomeno cose intrinsecamente ed ontologicamente delittuose, di cui è sempre obbligatoria la confisca. Ritiene che tale illegittimità assorbe il vizio di mancanza di motivazione in merito alla relazione che deve necessariamente esistere tra le cose sequestrate e i reati contestati.


11. Con il tredicesimo motivo contesta l'illegittimità della confisca sotto altri profili.


- Con riferimento ai "valori all'attivo delle posizioni relative ai rapporti intestati al ricorrente e alla di lui moglie P.G. presso Allianz Bank SpA" osserva che il sequestro preventivo è stato disposto ai sensi della L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies sul presupposto della commissione dei reati di riciclaggio, reimpiego e intestazione fittizia per finalità elusiva rispetto ai quali non è mai seguita nè imputazione, nè condanna. Anzi in relazione a detti reati sia il L. che la di lui moglie sono stati destinatari di provvedimento di archiviazione emesso dal Gip del Tribunale di Roma in data 5 aprile 2016. Rileva inoltre che è stato completamente ignorato che la difesa aveva documentato nel giudizio di primo grado che nell'importo delle somme sequestrate erano confluite risorse personali.


- Con riferimento agli immobili siti in (OMISSIS) sequestrati quale ipotizzato prodotto o profitto del reato di appropriazione indebita contestato sub capo b.4 rileva che la proprietà di detti immobili è pacificamente preesistente in capo a L. rispetto alla ipotizzata consumazione dei reati. Detti immobili non potevano pertanto costituire profitto di reato o prodotto dallo stesso, con la conseguenza che non sussistono i presupposti per la confisca facoltativa. Rileva inoltre come osti alla statuizione di confisca la avvenuta prescrizione di detto reato contestato al capo b.4 anteriormente alla pronuncia della sentenza di appello.


S.G..


1. Con il primo motivo deduce vizio della motivazione. Sostiene che la sentenza impugnata non ha superato le doglianze difensive in merito al deficit probatorio che aveva caratterizzato la sentenza di primo grado. Il provvedimento impugnato si è limitato a collazionare passi parziali delle diverse dichiarazioni testimoniali che si sono succedute nel corso del processo di primo grado senza tenere conto dei rilievi formulati dalla difesa nei motivi di appello e comunque senza considerare che l'insieme di tutti gli elementi non permetteva di affermare che fosse stato proprio S.G. la persona che aveva manomesso e falsamente modificato la contabilità della (OMISSIS), al fine di favorire il suo tesoriere nelle condotte di indebita appropriazione.


Premesso che la sentenza impugnata ha ritenuto che dall'insieme delle dichiarazioni dei testi T., D.S. e D.M. è dato dedurre che il sistema escogitato per inabissare la TTT non poteva essere opera delle impiegate amministrative del partito, che benchè laureate non avevano l'esperienza professionale per concepirlo ed eseguirlo, così come non l'aveva il L. che per ogni problema dava disposizione di rivolgersi ai commercialisti, ritiene il ricorrente che dalla lettura integrale della deposizione dei testi emerge che il dato probatorio acquisito è incompatibile con la ricostruzione compiuta nel provvedimento impugnato. Proprio dall'esame dei testi ( T., B., D.S. e D.M.) è evidente che è il personale della struttura del partito ad occuparsi di tutto ciò che attiene all'amministrazione e che lo studio M.- S. si limitava a fornire consulenza fiscale e contabile. S. si recava presso la sede del partito una volta la settimana, salvo diverse necessità, a supporto del personale amministrativo. Rileva inoltre la difesa che, come spiegato dal ricorrente in sede di esame dibattimentale e nel corso delle dichiarazioni spontanee rese in fase di appello, gli espedienti utilizzati per occultare le condotte appropriative erano connotati da una tale grossolanità da escludere che fossero stati escogitati ed eseguiti da professionisti. Ritiene che la sentenza impugnata in maniera del tutto apodittica ha considerato l'esperienza e l'abilità professionale come unico elemento per sostenere la riconducibilità delle operazioni contestate ai commercialisti. Lamenta che il vizio di mancanza della motivazione inficia in modo particolare la sentenza impugnata in relazione alle contestazioni b.5 e b.6 considerato che non offre alcuna motivazione specifica circa il collegamento tra la condotta del ricorrente, gli assegni e i bonifici oggetto di contestazione e i destinatari descritte nel capo d'imputazione. Così come la sentenza non spiega le modalità con le quali il ricorrente avrebbe aiutato L. nel favorire i predetti beneficiari, tenuto conto che all'interno dell'amministrazione tutti sapevano dell'esistenza di numerosi bonifici privi di destinatario. Rileva che la motivazione è carente anche in relazione all'argomento del profitto che i commercialisti avrebbero tratto dal concorrere con L. nella commissione dei reati in contestazione. Contesta la motivazione perchè omette elementi essenziali emersi dall'esame dell'imputato e arriva ad affermare che, a fronte di appropriazione indebite per il valore di circa 25 milioni di Euro, i commercialisti avrebbero aiutato L. per anni, mettendo a rischio la propria carriera e la vita dello studio, solo per la speranza di qualche ulteriore incarico e nonostante fossero ben consapevoli che (OMISSIS) stava per confluire definitivamente nel (OMISSIS).


2. Con il secondo motivo lamenta vizio della motivazione con particolare riferimento all'elemento soggettivo del reato. Sostiene che, anche a volere ipotizzare che il ricorrente abbia modificato di anno in anno il bilancio del partito e commesso le irregolarità contabili contestate, non vi è prova alcuna della sua consapevolezza che le suddette operazioni fossero finalizzate a permettere al L. di appropriarsi dei beni del partito al fine di soddisfare interessi personali. Rileva che le modifiche al bilancio, così come l'emissione di assegni privi di destinatario - soprattutto in contesti politici - possono essere realizzate per diverse ragioni, magari non condivisibili, ma non per questo automaticamente integrative di condotte di indebita appropriazione. Rileva che la sentenza affronta il tema del profilo psicologico del reato solo in relazione all'emissione dei bonifici emessi in favore della TTT S.r.l., offrendo però una motivazione carente e contraddittoria. In particolare non è stato tenuto conto che il ricorrente era convinto che la TTT fosse una società riconducibile alla (OMISSIS) e che le operazioni verso la stessa fossero autorizzate dal partito. La motivazione è apodittica anche perchè parte da un presupposto del tutto indimostrato e cioè che i commercialisti sapessero che gli investimenti della TTT erano volti ad acquistare ville e appartamenti ad uso personale del L. e che i revisori e gli altri organi di controllo del partito, contravvenendo a quanto previsto dalla legge e dallo statuto, adempivano alle proprie funzioni in maniera meramente formale e che dunque non erano nelle condizioni di scoprire gli artifici contabili. Viene altresì rilevato che i giudici d'appello non hanno tenuto conto del fatto che la circostanza che la TTT nel 2009 aveva la sede presso lo stesso immobile in cui C., revisore della (OMISSIS), aveva il suo studio e poi nel 2011 nel medesimo immobile in cui aveva sede la (OMISSIS) di R., aveva ragionevolmente avvallato la convinzione dell'imputato circa il fatto che le scelte di L. fossero condivise o comunque note al partito. Così come il fatto che la costituzione era stata curata dal notaio di riferimento del partito.


3. Con il terzo motivo lamenta vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Si duole anche del fatto che i giudici di secondo grado hanno omesso qualunque riferimento alla contestata aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7 senza tener conto di tale valutazione nel calcolo della pena. E' altresì evidenziata la genericità della sentenza nella declaratoria di prescrizione che impedisce di sapere a quali assegni e bonifici faccia riferimento.


M.M..


Con il primo motivo di ricorso lamenta vizio della motivazione.


Sostiene che la sentenza impugnata ha affermato che i commercialisti ( M. e S.) sarebbero gli artefici di pretesi artifici contabili in base a considerazioni prive di qualsiasi supporto probatorio e basate sulla presunzione che i due professionisti per il loro mestiere sarebbero stati i soggetti più indicati per confezionarli quando le testimonianze indicata dalla corte territoriale, a supporto di tale dichiarazione di responsabilità, dimostrano esattamente il contrario. Viene in particolare richiamata la deposizione della teste T. che ha raccontato che lei stessa e gli altri contabili partecipavano alle riunioni con il senatore L. per il rendiconto, riunioni alle quali negli ultimi anni non venivano invitati i commercialisti e nelle quali lui ( L.) "decideva e nel caso indicava eventuali modifiche da apportare". E la deposizione della teste B. che ha escluso che il Dott. S. si fosse mai occupato di contabilità, se non sotto il profilo, strettamente professionale, di verifica della contabilità, smentendo così la motivazione della sentenza di appello che è fondata sulla presenza del S. negli uffici della (OMISSIS) e sui consigli da lui dati o che avrebbe potuto dare.


Il ricorrente si chiede anche se è giuridicamente corretto, come invece hanno fatto i giudici di merito, estendere automaticamente eventuali azioni od omissioni del S. al suo collega di studio. Viene altresì sottolineata l'illogicità del movente, individuato dalla Corte d'Appello nell'interesse a conservare un cliente importante che poteva portare loro altri clienti, evidenziando che se i commercialisti avessero dovuto operare una scelta interessata si sarebbero messi al servizio delle pretese vittime del L., ben più note ed influenti che detenevano il vero potere, al contrario di quello precario e da loro derivato del senatore L..


Viene altresì evidenziato che il presupposto del coinvolgimento nelle vicende di M. e S. è rappresentato dai pretesi, sofisticati, artifici contabili che i due commercialisti avrebbero posto in essere per nascondere al Collegio dei Revisori, al Comitato di Tesoreria, all'Assemblea ed ai maggiorenti del Partito, le ruberie del L.. Ma viene rilevato che gli artifici indicati dalla Corte d'Appello non erano certamente idonei a trarre in inganno chicchessia. Dai rilievi del consulente (Dott. D.) è infatti emerso che tutte le fatture TTT erano registrate nella contabilità anche se per il 45% la registrazione era stata eseguita con modalità non adeguate. Trattasi comunque di contabilizzazioni forse erronee, ma sicuramente non di artifici. Contabilizzazioni che peraltro, come emerso pacificamente dalle deposizioni testimoniali, erano esclusivo appannaggio delle dipendenti della (OMISSIS). E' vero che la Corte d'Appello assume che in 29 registrazioni contabili (pari all'importo di Euro 4.276,800) il riferimento a TTT è riportato nelle note descrittive delle registrazioni presenti nel libro giornale estratto in pdf e sulle rispettive note mentre risulta eliminato dalle note descrittive delle registrazioni presenti sul libro contabile bollato, ma si sostiene che anche in questo caso la contraddittorietà della motivazione è evidente: nelle 29 registrazioni il nome TTT era chiaramente esposto, così come lo era il relativo costo che è confluito nel conto economico, come indicato dal consulente D.. Non è pertanto possibile sostenere che le 29 registrazioni fossero finalizzate a nascondere la TTT. Lo stesso discorso vale per le 7 registrazione (per Euro 1032,00) per le quali mancherebbe la corrispondenza della numerazione tra il pdf e il libro giornale bollato, senza alcuna alterazione delle registrazioni contabili. In sintesi secondo il ricorrente la presenza della TTT poteva sfuggire solo a chi non la voleva vedere.


Rileva il M. che il vizio di motivazione emerge anche con riguardo la deposizione del Prof. T., membro del collegio dei revisori che, esaminando la contabilità dopo l'incriminazione di L., ha scoperto e riferito che nell'elenco fornitori del 2009, consegnato in sede di controllo, non era presente la TTT, mentre la stessa compariva in un elenco fornitori recuperato e loro consegnato nel 2009 e di cui il collega C. era ancora in possesso, circostanza che ha determinato l'idea che si trattasse di un sotterfugio per non fare apparire il nome TTT. Viene sottolineata l'illogicità di tale interpretazione rilevando che la corte territoriale non si è avveduta della contraddizione che può essere così sintetizzata: "perchè fare scomparire il nome della TTT nell'elenco fornitori del 2009, quando Io stesso compare proprio nell'elenco consegnato al collegio dei revisori nel 2009 recuperato successivamente da uno dei membri e comunque compariva negli elenchi del 2008 e del 2010, anni nei quali erano stati versati alla TTT importi ben più consistenti di quelli versati nel 2009". Si evidenzia anche che la sentenza ha omesso di considerare l'episodio riferito dall'onorevole Pa.Ar. all'udienza del 31 maggio 2013 che ha dichiarato di avere sollevato in assemblea nel 2008 l'interrogativo circa le ingenti spese che il partito sosteneva pur essendo inattivo. La sua protesta fu tacitata e negli anni successivi l'assemblea continuò ad approvare bilanci con uscite milionarie, complimentandosi con il Tesoriere e manlevandolo. Con riguardo alla visibilità della TTT viene richiamata anche la deposizione del notaio Pr..


Il ricorrente ritiene illogica e contraddittoria la sentenza impugnata anche con riguardo al concorso dei due commercialisti. Premesso che sia il Tribunale che la Corte d'appello hanno escluso che vi fosse tra di loro e il L. un previo accordo, rileva che i due professionisti sono stati condannati per concorso in appropriazione indebita senza neppure un solo riferimento concreto al contributo che avrebbero apportato, mentre i riferimenti generali apparsi nel capo di imputazione - che si riferiscono alla tenuta della contabilità - sono stati spazzati via dall'istruttoria dibattimentale che ha dimostrato, al di là di ogni dubbio, la loro completa estraneità alla tenuta della contabilità e a qualsiasi artificio. Veniva inoltre aggiunto che nessuno aveva mai detto che i due commercialisti avessero beneficiato di un solo Euro.


Con il secondo motivo lamenta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e l'entità della pena, sottolineandone l'illogicità della motivazione posto che la condanna del ricorrente è basata sulla condotta del collega di studio e la pena è stata fissata in termini più elevati senza alcuna giustificazione concreta se non quella che lui era il componente più anziano.


L'imputato in data 3 novembre 2017 depositava un motivo nuovo con il quale sollevava violazione dell'art. 29 c.p. sul presupposto che la pena irrogata per ciascuno dei reati posti in continuazione era inferiore a tre anni e quindi non poteva essere applicata l'interdizione dai PPUU per la durata di anni cinque, come invece disposto in sentenza.


Nella stessa data depositava memoria con la quale rilevava che le appropriazioni indebite contestate ai capi B5) e B6) erano prescritte e che i reati di cui al capo B1) erano in gran parte prescritti.


F.D..


Con il primo motivo deduce contraddittorietà e illogicità della motivazione nonchè travisamento della prova in ordine all'elemento psicologico del reato di appropriazione indebita.


In particolare il vizio coinvolge i seguenti punti della sentenza impugnata:


- errore sul capo di imputazione e travisamento della prova in ordine alle dimissioni della F. dalla TTT e in ordine alla conoscibilità dell'arricchimento personale del L..


Secondo la difesa la Corte d'Appello addebita all'imputata due fatti appropriativi estranei al capo di imputazione b.1 l'unico per il quale la F. ha subito condanna. I fatti sono: Euro 272.560,00 a titolo di finanziamento dei soci in data 28/9/2010 e di ed Euro 2.000.000,00 utilizzati per pagare, per il tramite della PARADISO Immobiliare, la ristrutturazione della (OMISSIS) e l'acquisto di un box auto in (OMISSIS). Fatti realizzati molto tempo dopo le sue dimissioni dalla TTT e dalla PARADISO, errore confermato dalla informativa della Banca d'Italia del 3.3.2012 che evidenzia che le operazioni riportate erroneamente dal giudice d'appello all'interno del capo di imputazione b.1 e riferite alla Paradiso immobiliare sono del periodo 2010-2012 e quindi dopo le dimissioni della F. formalizzate il 14 settembre 2009. Proprio questa erronea conoscenza e/o collocazione temporale di tali fatti e delle prove emerse nel dibattimento, secondo la ricorrente, ha portato la Corte d'Appello ad affermare che "lo stesso elevato bonus percepito dopo le dimissioni dalla TTT e dalla PARADISO sembrava più il prezzo del silenzio che non la presa di coscienza della attività illecite che si stavano dipanando nella sua inconsapevolezza". Secondo la ricorrente la Corte d'Appello ha ricostruito la vicenda delle dimissioni e delle liquidazioni tentando di raffigurare una personalità con una spiccata attitudine criminosa per arricchire la prova carente in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo con un fatto estraneo al processo.


E' vero che la F. non ha mai negato di essere a conoscenza dei lavori di ristrutturazione dell'immobile di via (OMISSIS) che risultano effettuati nel corso del 2009 e che sono costati circa Euro 100.000,00 (ristrutturazione non particolarmente costose e che poteva servire a mettere a reddito l'immobile) ma è altresì vero che la stessa non ha mai ritenuto che la casa fosse destinata all'utilizzo personale del L.. La conoscibilità e la conoscenza dell'arricchimento personale del L. è emersa solo verso la fine del 2010 in epoca di gran lunga successiva alle dimissioni della F., quando cioè è risultato evidente che i due immobili acquistati venivano fruiti personalmente dal L. e quando lo stesso utilizzò i soldi de (OMISSIS) per la ristrutturazione delle case di sua proprietà in (OMISSIS).


Aggiunge che la Corte d'Appello ha omesso di considerare che sebbene la F. si è dimessa nel settembre 2009, l'ultimo bonifico, e dunque l'ultimo atto della sua gestione, risaliva al dicembre 2008. Ed ha altresì omesso di considerare che "la gestione F." ha riguardato esclusivamente i bonifici a causale stereotipata mentre "la gestione Piva" è attraversata soprattutto da assegni in bianco, pagamenti in nero e grandi flussi di liquidità. Ha anche omesso di considerare che è pacifico che "l'inabissamento" della TTT avviene solo dopo le dimissioni della F..


- travisamento della prova in ordine alle modalità di gestione del trasferimento di denaro.


Rileva che la Corte d'Appello sembra non rendersi conto della illogicità del suo ragionamento laddove giustifica, sul piano della responsabilità penale, il pagamento in nero senza causale sulla base del fatto che "si è sempre fatto così" mentre stigmatizza i bonifici seriali che evidenziano, in modo palese, che si tratta di una simulazione contrattuale;


- travisamento della prova in ordine alle cifre percepite dalla F..


Osserva la difesa che al di là di ogni valutazione circa l'opportunità di determinati comportamenti, resta il fatto che l'imputata non ha mai usufruito personalmente della somma indicata nella relazione KPMG. Viene sottolineato come sia emerso dall'istruttoria dibattimentale che era prassi consolidata nel partito quella di non riferire direttamente, per ragioni di opportunità politica e di immagine, imputazioni di pagamento a titolo di giusto compenso professionale per la carica di Tesoriere come per altre cariche del partito.


Ciò premesso viene rilevato che, se è vero che la fattispecie prevista dall'art. 646 c.p.p. persegue allo stesso modo "procurare a sè ad altri un ingiusto profitto", è pur vero che nel caso in esame dall'istruttoria dibattimentale è emerso un contesto soggettivo e oggettivo che porta ad escludere in modo assoluto la conoscibilità da parte della F. della vera natura del motivo del trasferimento di denaro dalla (OMISSIS) alla TTT.


Vizio della motivazione ed erronea applicazione delle norme giuridiche extra penali sulle modalità di realizzazione del patto fiduciario, nonchè con riguardo alla qualifica di avvocato con riferimento all'elemento soggettivo.


Ritiene la difesa che l'operazione prospettata all'imputata dal L., dimostratesi solo molto dopo come inesistente sia un normale negozio fiduciario con obbligo di trasferimento. La scelta è caduta sull'imputata perchè persona in grado di comprendere le direttive e di totale fiducia.


CONSIDERATO IN DIRITTO

Ricorsi R.F. e (OMISSIS) in liquidazione.


I ricorsi delle parti civili, che trattando questioni analoghe vengono svolti congiuntamente, sono inammissibili sulla scorta delle seguenti considerazioni.


La parte civile "(OMISSIS)" in liquidazione ha ottenuto nei giudizi di merito la condanna generica degli imputati al risarcimento del danno subito in conseguenza dei reati di appropriazione e la parte civile R.F. la condanna generica di L.L. al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del reato di calunnia. In questa sede dette parti civili si dolgono della declaratoria di insussistenza del reato associativo, rispetto al quale si erano costituiti parti civili in qualità di danneggiati, limitando formalmente il petitum alla sola richiesta di carattere penale, ovvero alla pronuncia di condanna, senza formulare richieste direttamente o indirettamente (per il tramite del riferimento alla clausola degli "effetti civili") attinenti al risarcimento dei danni.


Sul punto non può che richiamarsi l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte che hanno affermato che l'impugnazione della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento che non abbia accolto le sue conclusioni (nel caso in esame con riguardo ad un singolo capo di imputazione), è ammissibile anche quando non contenga l'espressa indicazione che l'atto è proposto ai soli effetti civili (Sez. U, n. 6509 del 20/12/2012 - dep. 08/02/2013, P.C. in proc. Colucci e altri, Rv. 254130) perchè la richiesta di affermazione della responsabilità dell'imputato non può che avere, per espressa disposizione di legge, altro significato che quello di un accertamento incidentale ed ai soli effetti civili, sempre che venga svolta adeguata critica alla pronunzia stessa.


Ciò premesso deve però rilevarsi che dette parti civili non hanno svolto adeguata critica alla pronunzia stessa che ha concluso per l'insussistenza del reato per mancanza dell'indeterminatezza del programma criminoso, elemento che distingue il delitto in esame dal concorso nel reato continuato.


I Giudici di merito hanno sottolineato come il processo abbia accertato un "mirato programma" di spogliazione del patrimonio del partito (OMISSIS), patrimonio in qualche modo definito perchè il partito era disciolto e non erano previste ulteriori entrate da rimborsi elettorali, che non fossero quelle già maturate e note per la pregressa partecipazione a competizioni politiche. Hanno quindi accertato una complessa ed articolata attività finalizzata a quello specifico scopo, agevolata da un sistema di controllo e verifica della gestione delle risorse del partito di natura meramente formale, con particolare riferimento alle voci di uscita o all'impiego che di tali risorse veniva materialmente fatto, che aveva consentito al L. di impossessarsi di oltre venti milioni di Euro.


In altri termini hanno ritenuto accertata una condotta che nasce ed è destinata ad esaurirsi con il saccheggio del patrimonio del partito (OMISSIS).


Hanno quindi ritenuto sussistere nella fattispecie l'ipotesi del concorso di più persone in plurimi reati posti in essere all'interno di un preciso specifico ed unico scopo (depredare il patrimonio del partito), ma non quella del reato associativo caratterizzato dalla predisposizione di un programma permanente ed indeterminato di azioni illecite, pur del medesimo genere, destinato a perdurare anche dopo il perseguimento dell'unico e determinato obiettivo accertato.


Le censure delle parti civili valorizzano la reiterazione nel tempo della condotta criminosa, realizzata con un numero di falsificazioni sistematiche, e ritengono che tale ampiezza del raggio di azione e dei propositi criminosi non poteva che presupporre la indeterminatezza del programma. La parte civile Margherita rileva anche che gli imputati ogni volta che realizzavano una condotta appropriativa esaurivano il loro iter criminoso pur essendo pronti, nella medesima formazione, a realizzare una successiva azione illecita, diversamente da quanto era accaduto nel caso richiamato dai giudici di appello (Cass. Sez. 6 n. 19783 del 2013, pronuncia relativa allo smembramento e mutilazione della Biblioteca Statale Oratoriale annessa al Monumento Nazionale dei Girolamini) dove le singole sottrazioni non potevano che essere funzionali l'una all'altra e quindi unitariamente programmate perchè il valore del compendio sottratto risiedeva solo nella pluralità delle cose di cui era composto.


Tali censure non sono fondate in diritto e, per quanto attiene alla prospettiva di rivalutazione degli elementi di prova, risultano inammissibili perchè si risolvono in censure di merito non consentite.


Come già indicato la sentenza impugnata, al pari di quella di primo grado, ha ritenuto provato l'intento specifico e determinato del L. di appropriarsi del patrimonio del partito (OMISSIS), intento consapevolmente inseguito con comportamenti e predisposizione di modalità e mezzi idonei al perseguimento di quello specifico scopo, raggiunto il quale l'accordo contingente tra i correi si sarebbe esaurito, venendo meno ogni allarme sociale. In tale contesto gli accorgimenti organizzativi (artifici contabili posti in essere dai due commercialisti) erano strettamente strumentali a consentire le accertate appropriazioni. La eventuale complessità delle singole operazioni, la loro pluralità, non hanno rilevanza al fine di mutare la natura del contesto criminoso, perchè da esse non è possibile trarre la conclusione di una modificazione della qualità del collegamento tra i correi, da un'unione per il raggiungimento di uno scopo comune ad un'unione stabile destinata, nella comune consapevolezza, a durare a prescindere dalla sorte delle azioni in corso e dei reati consumati (Cass. N. 4825 del 1996 Rv. 203599, N. 10107 del 1998 Rv. 211403, N. 3886 del 2012 Rv. 251562).


Ricorso L.L..


In ordine al primo motivo di ricorso deve osservarsi che questa Corte, con orientamento assolutamente maggioritario, ha ritenuto validamente effettuata la notifica all'imputato detenuto, anche per altra causa, eseguita presso il domicilio eletto dal medesimo e non presso il luogo di detenzione, sul presupposto che anche l'imputato detenuto ha la facoltà di dichiarare o eleggere domicilio ai sensi dell'art. 161 c.p.p., comma 1. In particolare è stato precisato che attraverso la elezione di domicilio il soggetto eleggente, ben consapevole della esistenza di un procedimento penale a suo carico, indica un luogo ed un soggetto da lui liberamente ritenuti idonei per la ricezione delle comunicazioni che riguardano il procedimento nell'ambito del quale la elezione è stata fatta. E', pertanto, onere dell'individuo che ha provveduto alla elezione di domicilio, quello di conservare, entro il limite della esigibilità della condotta diligente, i rapporti con il domicilio eletto, onde mantenersi nella condizione di essere effettivamente e tempestivamente informato in ordine alla esistenza di notificazioni concernenti il procedimento in questione.


In tali termini conformi si sono espresse le sentenze: Sez. 2^ n. 15102 del 2017 Rv. 269863; Sez. 5^ n. 35542 del 2016 Rv. 268017; Sez. 3^ n. 42223 del 2015 Rv. 264963; Sez. 6^, 3 dicembre 2014, n. 4836/2015, (dep. 02/02/2015), Hassa, Rv. 262055; Sez. 6^, 14 ottobre 2014, n. 43772, Hassa, Rv. 260624; Sez. F., 24 luglio 2012, n. 31490, Orlandelli, Rv. 253224; Sez. 6^, 7 ottobre 2010, n. 1416/2011 (dep. 19/01/2011), Chatir, Rv. 249191; Sez. 2^, 30 ottobre 2003, n. 47379, Piazza, Rv. 227648. Nelle motivazioni viene affermato che la notifica presso il difensore domiciliatario ai sensi dell'art. 161 cod. proc. pen., ha carattere generale, ed al contempo non può attribuirsi portata derogatoria alla disciplina dettata dall'art. 156 cod. proc. pen. per le notificazioni all'imputato detenuto, atteso che anche a quest'ultimo è consentito avvalersi della facoltà di eleggere domicilio a norma del predetto art. 161 c.p.p.. Su tale ultimo punto la sentenza n. 47379/2003 sopra citata ha in particolare osservato che: "... L'art. 156 c.p.p., u.c. detta una regola di chiusura secondo la quale in nessun caso le notificazioni all'imputato detenuto o internato possono essere eseguite con le forme dell'art. 159 cod. proc. pen., nell'ovvia constatazione che la dichiarazione di irreperibilità presuppone il risultato negativo della ricerca anche presso l'Amministrazione carceraria". Con la conseguenza che "questa è l'unica inconciliabilità espressamente disciplinata" e che, pertanto, "all'imputato detenuto è consentito avvalersi della possibilità di dichiarare o eleggere domicilio a norma dell'art. 161 c.p.p., comma 1". Inoltre sotto altro profilo è stato sottolineato che il rapporto fiduciario instaurato tra l'imputato ed il difensore domiciliatario ed il connesso dovere di informazione incombente su quest'ultimo, non vengono meno per lo stato di detenzione del primo, e ciò persino nell'ipotesi di elezione di domicilio presso il difensore nominato d'ufficio (sentenza n. 42223/2015). Ed è stato altresì posto l'accento sul fatto che l'elezione di domicilio ha natura di dichiarazioni di volontà a carattere negozial-processuale, necessitante, ai fini di sua validità, del rispetto di determinate formalità (art. 161 c.p.p.), sicchè essa può essere superata, solo in forza di un atto formale di revoca e non in ragione di elementi fattuali (sentenza n. 15102 del 2017).


Correttamente pertanto è stata ritenuta valida la notifica dell'avviso ex art. 415 bis c.p.p. al domicilio eletto in sede di interrogatorio di garanzia.


I motivi sub 2, 3 e 4 che investono la sussistenza del reato di calunnia sono inammissibili sulla scorta delle seguenti considerazioni.


In relazione ai profili di doglianza indicati in detti motivi il ricorso non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dalla Corte d'appello, sostanzialmente reiterando, peraltro, le medesime censure già sollevate dinanzi ai Giudici di merito, che ne hanno conformemente escluso la fondatezza sulla base di un congruo e lineare percorso argomentativo, pervenendo alla decisione impugnata attraverso una completa ed approfondita disamina delle risultanze processuali.


Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di prime cure, la cui struttura motivazionale viene a saldarsi perfettamente con quella di secondo grado, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, la Corte di merito ha puntualmente disatteso la diversa ricostruzione prospettata nelle deduzioni e nei rilievi sollevati dalla difesa, ponendo in evidenza, con plausibili giustificazioni tutti gli elementi che hanno portato ad affermare che il L. ha falsamente accusato il presidente del partito, R.F., di concorso nelle realizzate appropriazioni indebite.


Al L., come indicato nel capo di imputazione, è stato contestato il reato di calunnia perchè, a più riprese, con affermazioni rese nel corso dell'interrogatorio effettuato in data 23 giugno 2012 avanti al giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma confermate poi nell'interrogatorio del 17 luglio 2012 avanti al pubblico ministero - aveva falsamente accusato R.F., che sapeva innocente, di averlo indotto ad effettuare talune delle operazioni di indebita appropriazione di cui al capo b), così concorrendo nel reato. In particolare ha affermato che nei primi mesi del 2006 R.F., all'epoca presidente del partito, mediante indicazioni inequivoche, gli aveva attribuito il preciso incarico di effettuare, con parte degli ingenti fondi a disposizione della (OMISSIS), operazioni di intestazione fiduciaria di beni immobili, autorizzandolo, inoltre, su sua pressante richiesta, ad attribuirsi - a titolo di compenso per la sua attività di tesoriere - somme pari a diversi milioni di Euro.


I giudici di merito hanno dato atto che in detti interrogatori il L., nel cercare di giustificare la sua condotta appropriativa, ne aveva attribuito l'ideazione e l'induzione a R.F., quale presidente della (OMISSIS), distinguendo le indicazioni ricevute da R. sia da un punto di vista cronologico che con riferimento alle modalità di sottrazione dei fondi del partito. In particolare L. ha raccontato di aver viaggiato in aereo con R., all'inizio del 2006, di ritorno da (OMISSIS), e che in tale occasione gli aveva prospettato la sua volontà di essere candidato alle elezioni politiche che si sarebbero tenute il maggio successivo. Era da tempo che si lamentava di svolgere il suo impegnativo mandato di Tesoriere senza ricevere alcun corrispettivo, non essendo neppure parlamentare. Ha riferito che R. in quell'occasione prese tempo, proponendogli in alternativa la nomina di amministratore di un grosso ente pubblico. Ha precisato che fino a quel momento non aveva posto in essere alcuna condotta volta ad appropriarsi del denaro del partito. Il tema del compenso del Tesoriere è stato ripreso, sempre secondo le affermazioni di L., qualche giorno dopo, nell'ufficio di R.. In quell'occasione le indicazioni del presidente diventarono esplicite e dettagliate. Dopo che R. gli disse che non intendeva sostenere la sua candidatura lui si lamentò di avere lavorato gratis per cinque anni e, poichè il Presidente gli fece presente che non era possibile formalizzare un accordo scritto sul punto ("... che mi fai discutere con Pa. del tuo contratto? E' evidente che mi dice di no....p. 35 interrogatorio 17 luglio richiamato dalla sentenza di primo grado) gli chiese come avrebbe dovuto comportarsi sentendosi dire "Che te lo devo dire io come fare?" A questo punto L. ha sostenuto di avere intrapreso una vera è propria contrattazione con R. in ordine all'entità del compenso, proponendo lui il 10% delle entrate della (OMISSIS) per ogni esercizio dal 2001 (quindi con effetto retroattivo) sentendosi contrapporre il 3%, per chiudere al 5% più imposte e tasse (pagg. 173 ss. interrogatorio 23 giugno e 35 interrogatorio 17 luglio). L. ha quindi precisato di avere iniziato le attività appropriative (ad esclusione di quelle riferibili all'acquisto degli immobili) in esecuzione di questo accordo non formalizzato. Negli indicati interrogatori ha sostenuto anche che nelle medesime circostanze R. gli avrebbe conferito l'incarico fiduciario di convertire la liquidità del partito in immobili al fine di salvaguardare il patrimonio de (OMISSIS) nell'imminente fusione con i (OMISSIS) che avrebbe portato alla fondazione del (OMISSIS). Secondo L. R. era preoccupato che nel regolare i rapporti economici tra i due partiti fondatori, i debiti dei (OMISSIS) (che però avevano un consistente patrimonio immobiliare) avrebbero fagocitato le risorse de (OMISSIS) che al contrario godeva di buona liquidità. Ha raccontato di aver proposto a R. di costituire delle società fiduciarie cui intestare i beni immobili da acquistare, ma che R. si sarebbe rifiutato perchè l'operazione sarebbe stata troppo facilmente riconducibile all'intenzione di sottrarre il patrimonio de (OMISSIS) alla fusione. Ha quindi affermato che R., di fronte alle sue perplessità, gli avrebbe allora detto: "scusa tu non hai una compagna in Canada? Inizia da là, qual è il problema? (pag. 30 dell'interrogatorio del 23 giugno 2012). Fu allora che decise di costituire prima la società LUIGIA e poi la TTT con le quali negli anni successivi avrebbe svolto attività di drenaggio del denaro confluito nell'acquisto degli immobili di via (OMISSIS) in (OMISSIS) e della (OMISSIS). Circa la destinazione finale degli immobili ha affermato che R. gli avrebbe dato la seguente indicazione: "tu tieni questi immobili, quando i tuoi figli sono cresciuti, sono grandi, li vendi, ti fai una cosa più piccola e il resto servirà per la prosecuzione del.... per il finanziamento alla prosecuzione della mia attività politica".


Da dette parole i giudici di merito hanno correttamente ritenuto sussistente la chiamata in correità di R., indicato come l'ideatore delle appropriazioni indebite realizzate successivamente dal L. secondo le modalità concordate, e come il mandante di un incarico finalizzato non alla tutela delle risorse del partito, ma a sottrarre una parte delle stesse, in vista della costituzione di una sorta di fondo di garanzia per le proprie successive attività politiche personali. E hanno reputato che, al di là delle dichiarazioni di R., che hanno sconfessato il racconto del ricorrente, la versione offerta dal L. era smentita da diverse circostanze emerse nel processo, dalle quali era dato evincersi la volontà di un'accusa mendace. In particolare:


1. l'entità della somma, pari ad almeno un milione di Euro l'anno, del tutto spropositata rispetto all'incarico;


2. il fatto che la ricezione del compenso sia stata posta come alternativa alla candidatura a parlamentare che R. non intendeva avallare, quando invece nelle elezioni politiche del maggio 2006, quindi pochi mesi dopo il colloquio, il L. è stato eletto senatore;


3. la circostanza che anche dopo essere stato nominato senatore il L. non cessa di stornare a suo favore ingenti somme di denaro, anzi risulta che dopo tale nomina le appropriazioni si siano fatte più consistenti;


3. il dato accertato che le appropriazioni sono iniziate prima del 2006. E' provato che nel 2005 furono emessi ottantotto assegni riconducibili all'attività illecita del L. per un importo pari all'1,91% delle uscite del partito;


4. il fatto che gli immobili acquistati sono stati intestati a società che in alcun modo potevano essere ricondotte al partito ma che erano di esclusiva proprietà del L. e dei suoi congiunti.


5. la scelta di investire in appartamenti e ville adibite a personale abitazione del L. e non in immobili produttivi di reddito. Gli immobili sono stati utilizzati per fini esclusivamente personali provvedendo a costose ristrutturazioni che non avevano alcun senso in un'ottica di patrimonializzazione delle risorse di partito. E' stato evidenziato che la società canadese LUIGIA, come dichiarato dallo stesso L., non era nota nè a R., nè ad altri esponenti di partito a lui vicini, che non era previsto un rendiconto degli investimenti e che non era stato stabilito il rientro dei beni nel patrimonio del partito che tra l'altro si trovava in fase di scioglimento, essendo stato tutto rimesso ad un'ipotetica data "quando i tuoi figli (di L.) sono cresciuti"..... solo allora i beni sarebbero stati venduti per finanziare l'attività politica di R.;


6. la mancata predisposizione di una scrittura privata idonea a dimostrare l'effettiva titolarità degli immobili stessi al verificarsi delle più eventuali e disparate evenienze (quali la cessazione del rapporto fiduciario, un'eventuale alienazione dei beni senza consenso, il decesso di uno dei due unici soggetti a conoscenza dell'accordo).


Proprio l'insieme di detti elementi, in uno con l'evidente interesse del L. a coinvolgere il presidente del partito per alleggerire la sua posizione sia a livello personale (non ruberie per interesse personale, ma per finalità politiche) sia a livello processuale (la condotta collaborativa nell'accertamento di altrui responsabilità gli avrebbe potuto portare benefici), hanno portato i giudici di merito a ritenere tali accuse calunniose.


Le stesse modalità con le quali si espresse il ricorrente che espose circostanza non veritiere risalenti ad anni prima denotano la volontà di esporre situazioni suscettibili di danneggiare R. e non manifestazione di eventi del tutto neutri, espressi in maniera del tutto occasionale, poichè il contesto in cui vennero formulate, dinanzi ad autorità che avevano l'obbligo di procedere, denota il proposito di coinvolgere negli illeciti commessi il presidente de (OMISSIS), rispetto al quale il L. non esprime, come indicato, elementi suscettibili di escludere la consapevolezza della falsità di quanto ricostruito. La prova dell'elemento soggettivo, è stata correttamente desunta dai Giudici di merito, sulla base delle concrete circostanze e modalità esecutive dell'azione, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è stato possibile evidenziare la cosciente volontà di un'accusa mendace, nell'ambito di una piena rappresentazione del fatto attribuito alla persona incolpata (Cass. N. 448 del 2003 Rv. 223321, N. 31446 del 2004 Rv. 229271, N. 32801 del 2012 Rv. 253270; N. 10289 del 2014 Rv. 259336).


Per contro la circostanza che all'atto della presentazione della denuncia l'ipotesi di reato fosse già estinta per prescrizione, risulta irrilevante per pacifica giurisprudenza (fra le tante: Sez. 6, n. 27081 del 2015 Rv. 263935 e Sez. 6, n. 49522 del 2009 Rv. 245660) al fine di escludere la fattispecie contestata. L'estinzione del reato presuppone comunque una verifica della configurabilità dell'ipotesi criminosa e l'analisi della individuazione della decorrenza del termine, elementi che richiedono un accertamento già idoneo a realizzare lo sviamento dell'amministrazione della giustizia poichè si sviluppa su circostanze non veritiere, il cui corretto svolgimento e la cui corretta esecuzione, unitamente alla tutela degli interessi del terzo accusato, costituisce oggetto della tutela penale.


E' noto, peraltro, che ai fini della configurabilità del reato di calunnia - che è di pericolo non è richiesto l'inizio di un procedimento penale a carico del calunniato, occorrendo soltanto che la falsa incolpazione contenga in sè gli elementi necessari e sufficienti per l'esercizio dell'azione penale nei confronti di una persona univocamente e agevolmente individuabile; cosicchè soltanto nel caso di addebito che non rivesta i caratteri della serietà, ma si compendi in circostanze assurde, inverosimili o grottesche, tali da non poter ragionevolmente adombrare - perchè in contrasto con i più elementari principi della logica e del buon senso - la concreta ipotizzabilità del reato denunciato, è da ritenere insussistente l'elemento materiale dell'atto di calunnia (Cass. N. 7526 del 1992, N. 26177 del 2009 Rv. 244357, N. 32325 del 2010 Rv. 248079; N. n. 10282 del 2014 Rv. 259268).


Deve aggiungersi, in tema di rapporto tra diritto di difesa e accuse calunniose, che secondo un pacifico insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte (N. 9929 del 2003 Rv. 223946, N. 13309 del 2004 Rv. 229238, N. 28620 del 2009 Rv. 244730, N. 2740 del 2010 Rv. 246042, N. 26455 del 2013 Rv. 255678; n. 18755 del 2015 Rv. 263550) l'imputato, nel corso del procedimento instaurato a suo carico, può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni a lui sfavorevoli ed in tal caso l'accusa di calunnia, implicita in tale condotta, integra un'ipotesi di legittimo esercizio del diritto di difesa e si sottrae perciò alla sfera di punibilità in applicazione della causa di giustificazione prevista dall'art. 51 c.p.. Quando però l'imputato, travalicando il rigoroso rapporto funzionale tra tale sua condotta e la confutazione dell'imputazione, non si limiti a ribadire la insussistenza delle accuse a suo carico, ma assuma ulteriori iniziative dirette a coinvolgere altre persone - di cui pure conosce l'innocenza - nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto, sicchè da ciò derivi la possibilità dell'inizio di una indagine penale da parte dell'autorità, si è al di fuori del mero esercizio del diritto di difesa e si realizzano, a carico dell'agente, tutti gli elementi costitutivi del delitto di calunnia.


Nel caso in esame, avuto riguardo a tale consolidato quadro di principi, deve rilevarsi come correttamente sia stata esclusa la sussistenza dell'invocata scriminante.


Può quindi affermarsi che a fronte di quanto indicato dai giudici di merito il ricorrente si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello di Roma ha dato al contenuto delle emergenze acquisite e, tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un "travisamento delle prove", vale a dire una incompatibilità tra l'apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell'intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di "travisamento dei fatti" oggetto di analisi, sollecitando un'inammissibile rivalutazione dell'intero materiale d'indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell'ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente. Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di "travisamento della prova", che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del "travisamento del fatto", stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).


Può quindi conclusivamente affermarsi che la motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità, avendo la Corte territoriale analiticamente spiegato, con valutazioni di fatto non sindacabili in questa sede, come il L. abbia falsamento accusato R. di concorso nelle realizzate appropriazioni indebite.


La Corte d'appello ha infatti compiutamente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione del delitto oggetto del tema d'accusa, ed ha evidenziato al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che la ricostruzione proposta dalla difesa si poneva solo quale mera ipotesi alternativa, peraltro smentita dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti.


La conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata riposa, in definitiva, su un quadro probatorio linearmente rappresentato come completo ed univoco, e come tale in nessun modo censurabile in questa sede.


Le doglianze di cui al quinto motivo di ricorso, attinente a violazione di legge e a travisamento probatorio, non risultano avanzate in appello, essendosi l'appellante con riguardo alle appropriazioni di cui ai capi B), B1), B2), B3), B4), B5) e B6) limitato a contestarne la sussistenza sul presupposto che tutte le uscite finanziarie addebitate a titolo di appropriazione indebita erano state indicate nei bilanci regolarmente approvati, sia in via preventiva che consuntiva dall'(OMISSIS).


Ciò detto deve rilevarsi che il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609 c.p.p., comma 1, il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleato dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi - contrassegnati dall'inderogabile "indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto" che sorreggono ogni atto d'impugnazione (art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c) - sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione. La disposizione in esame deve infatti essere letta in correlazione con quella dell'art. 606 c.p.p., comma 3 nella parte in cui prevede la non deducibilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti è facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perchè mai investito della verifica giurisdizionale.


Il motivo è pertanto inammissibile.


Con i motivi sub 6) e sub 7) lamenta il ricorrente che le imputazione di cui ai capi B2) e B4) erano già prescritte prima della pronuncia di appello. In particolare con riguardo al capo B2) rileva che tutti gli assegni erano stati consegnati al Me. entro la data del 24 dicembre 2007, circostanza emersa in maniera incontestabile dalle dichiarazioni rese dal Me. in sede di BIT del 21 febbraio 2012 acquisite al dibattimento di primo grado all'udienza del 24 aprile 2013 e con riguardo al capo B4) che gli assegni furono consegnati entro l'anno 2007 e quindi il termine prescrizionale era interamente decorso, anche tenendo conto delle sospensioni, alla data del 31/8/2015.


Anche queste doglianze non erano state avanzate in sede di appello.


Sul punto deve però rilevarsi che le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. n. 12602 del 2016, Ricci, Rv. 26681 premesso che "L'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. e art. 609 c.p.p., comma 2, l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza d'appello, ma non eccepita nel grado di merito, nè rilevata da quel giudice e neppure dedotta con i motivi di ricorso" hanno affermato che, a diversa conclusione deve pervenirsi nel caso in cui con il ricorso per cassazione è stata dedotta, sia pure come unica doglianza, l'estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza d'appello, ma non eccepita dalla parte interessata nel grado di merito nè rilevata da quel giudice. In questa ipotesi la doglianza non può ritenersi inammissibile e la causa di non punibilità se erroneamente non dichiarata dal giudice di merito deve essere rilevata e dichiarata, in accoglimento del proposto motivo, in sede di legittimità.


Tutto ciò premesso deve evidenziarsi che i giudici d'appello, preso atto che i fatti appropriativi di cui al capo B) che risultavano consumati sino al 10.9.2008 erano prescritti, pronunciavano declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione e rideterminavano l'aumento di pena stabilito ex art. 81 c.p. dal Tribunale.


Così come contestato al capo B) è stato infatti accertato che nel periodo 2007/2011 il L. ha prelevato dal conto della (OMISSIS), per finalità esclusivamente personali, più di 20 milioni di Euro utilizzando due canali di drenaggio: l'emissione di bonifici a fronte di fatture emesse dalla TTT S.r.l., società a lui direttamente riferibile, e l'emissione di numerosissimi assegni connotati dalla caratteristica di essere tutti a cifra "tonda" e supportati da annotazioni in contabilità talmente generiche da risultare di fatto prive di giustificazione e privi di ogni supporto documentale. Trattasi pertanto di contestazione di appropriazione indebita continuata in un arco temporale che va dal gennaio 2007 al dicembre 2011 le cui modalità di realizzazione sono state specificate nei punti B1), B2), B3), B4), B5) e B6).


In particolare con riguardo al punto B1) è stata ricostruita dai giudici di merito l'appropriazione della somma di Euro 13.579.200,00 attuata attraverso l'emissione di ben 96 bonifici in favore della TTT S.r.l. effettuati dal conto corrente numero (OMISSIS) della Banca Nazionale del Lavoro, intestato a (OMISSIS), nel periodo che va dal 3 agosto 2007 al 28 gennaio 2011. A sostegno di tali bonifici la TTT aveva emesso una serie di fatture a partire dal 2 agosto 2007 e fino al 23 dicembre 2010, le quali di fatto non corrispondevano ad alcuna prestazione effettiva.


Quanto al punto B2) è stata accertato che sul c/c (OMISSIS) intestato a (OMISSIS) erano stati tratti numerosi assegni bancari per un importo complessivo di un milione di Euro girati a tale Me.Pa. per l'acquisto dell'immobile (OMISSIS), sito in (OMISSIS). Nelle sentenze si legge che l'interessamento del L. per l'immobile risaliva al 2007, che il prezzo di vendita era stato stabilito in 2 milioni e mezzo di Euro, che il L. non voleva comparire come acquirente, per questo la villa doveva essere intestata alla TTT. A causa di particolari vicende, legate alle licenze urbanistiche ed al fallimento della società del Me., (OMISSIS) S.r.l., formalmente proprietaria di (OMISSIS), l'accordo definitivo fu stipulato il 25 ottobre 2010 ed ebbe ad oggetto il solo usufrutto che venne intestato fittiziamente alla moglie di un nipote dell'imputato che nell'occasione corrispose al Me. altri Euro 200.000,00 con assegni circolari della Banca delle Marche..


Il punto B3) si riferisce ad una serie di assegni, per un importo complessivo di Euro 3.281.000,00, tutti tratti sul suddetto conto corrente de (OMISSIS) e versati sul conto corrente numero (OMISSIS) della Unicredit intestato alla moglie del ricorrente, senza alcuna giustificazione.


Il punto B4) riguarda l'appropriazione indebita di una somma di oltre 1 milione di Euro, versata mediante numerosi assegni (ne sono stati accertati almeno 162) tratti dal solito conto a Ru.Ro., amministratore della società Ru.Ma. S.r.l. che aveva eseguito lavori di ristrutturazione di immobili del L. siti in (OMISSIS). Lo stesso Ru. ha fornito conferma delle appropriazioni indebite di cui al punto B5), relative ad una somma di circa Euro 2.600.000,00 corrispostagli, sempre a mezzo di assegni tratti dal solito conto corrente de (OMISSIS) per altri lavori di ristrutturazione eseguiti presso la (OMISSIS) intestata alla Paradiso Immobiliare. Sempre con riguardo alle fattispecie di appropriazione indebita il punto B6) è relativo all'acquisto da parte della TTT dell'appartamento di via (OMISSIS). Si tratta in particolare della somma versata in misura eccedente a quanto ufficialmente dichiarato nell'atto di compravendita. Per tale pagamento il L. ha utilizzato vari assegni, tratti dal conto della (OMISSIS), come confermato anche dal venditore L..


In questa sede il ricorrente ha chiesto la dichiarazione di estinzione dei fatti appropriativi di cui al punto B2) sul presupposto che erano già prescritti prima della pronuncia di appello considerato che tutti gli assegni erano stati consegnati al Me. entro la data del 24 dicembre 2007 e che tale circostanza emergerebbe in maniera incontestabile dalle dichiarazioni rese dal Me. in sede di SIT del 21 febbraio 2012 acquisite al dibattimento di primo grado all'udienza del 24 aprile 2013. E la dichiarazione di estinzione dei fatti appropriativi di cui al punto B4), sostenendo che anche in questo caso gli assegni furono consegnati entro l'anno 2007 e quindi il termine prescrizionale era interamente decorso, anche tenendo conto delle sospensioni, alla data del 31/8/2015. La circostanza emergerebbe dalle dichiarazioni di Ru.Ro. del 6 marzo 2012, acquisite in dibattimento all'udienza del 22 maggio 2013, dalle quali sarebbe dato apprendere che i lavori di ristrutturazione avvennero tra il 2006 e il 2007. Sostiene inoltre il ricorrente che il fatto che il Ru. non si sia espresso con assoluta certezza nel collocare la data di effettuazione dei lavori (e la correlativa consegna degli assegni) non assume rilevanza considerato che è onere dell'accusa indicare con precisione il tempus commissi delicti e che l'eventuale incertezza su di esso non può che risolversi in favore del ricorrente in forza del principio in dubio pro reo.


In merito a queste richieste deve evidenziarsi che, come indicato, ciascuno dei punti indicati sub capo B) riguarda più sottrazioni e preliminarmente rilevarsi che i giudici di appello hanno dichiarato la prescrizione di tutti i fatti appropriativi consumati sino al 10.9.2008 con la conseguenza che i fatti commessi nel 2007 sono coperti da tale pronuncia.


Ciò premesso deve comunque osservarsi che i poteri della Corte di cassazione, in tema di accertamento della data del commesso reato, non differiscono dagli ordinari poteri del giudice di legittimità. Nel senso che il giudice di legittimità deve prendere in considerazione la data del commesso reato contenuta nel capo d'imputazione ovvero quella accertata dai giudici di merito, non competendo alla Corte una ricostruzione fattuale estranea ai suoi compiti istituzionali (cfr. Cass., sez. 1^, 30 gennaio 2001 n. 11037, Ardito, rv. 218617; in senso ancor più rigoroso sez. 4^, 27 aprile 2000 n. 9944, Meloni, rv. 217255). Naturalmente il giudice di merito può errare in questo accertamento fattuale e dunque, in questi casi, è consentito alla parte che abbia interesse proporre ricorso. Non può però il ricorrente rimettere in discussione un accertamento fattuale compiuto dai giudici di merito le cui decisioni, sotto questo profilo, non hanno formato oggetto di impugnazione, considerato che solo davanti al giudice di merito può svolgersi un effettivo contradditorio tra le parti del processo su un punto riguardante un verifica in fatto.


Ci troviamo infatti in presenza di una preclusione che si è formata con la mancata impugnazione del punto della sentenza che riguardava la data del commesso reato. E' ragionevole pertanto ritenere che questa preclusione possa ritenersi superata solo in presenza di una prova incontrovertibile dell'erroneità dell'accertamento, ma non certo nei casi in cui la parte introduca, nel giudizio di legittimità, un elemento astrattamente controvertibile cioè smentibili da altri elementi di prova acquisiti al processo. L'accertamento in fatto richiesto al giudice di legittimità si scontrerà infatti inevitabilmente con il duplice ostacolo della formazione della ricordata preclusione e dei limiti del sindacato di legittimità che non può estendersi ad accertamenti fattuali. Nel caso in esame, al di là del fatto che, come già indicato, le appropriazioni commesse sino al 10.9.2008 sono già state dichiarate prescritte, deve rilevarsi che gli elementi indicati dal ricorrente, al fine di fissare la data di tutte le sottrazioni contestate ai punti B2) e B4) non appaiono dotati di quelle caratteristiche di incontrovertibilità che sole consentono l'accertamento richiesto in questa sede di legittimità. Con riguardo ai fatti di cui al punto B2) emerge infatti una dazione di denaro con assegno circolare da parte dell'intestatario fittizio al Me. all'atto della stipula il 25.10.2010 e con riguardo alle appropriazioni di cui al punto B4) è lo stesso ricorrente che riconosce che gli elementi addotti non sono da soli dotati certezza probatoria.


I motivi sono pertanto inammissibili.


La doglianza (motivo sub 9) in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche è manifestamente infondata. I giudici d'appello hanno motivato il diniego rilevando che le dichiarazioni ammissive, nel contesto in cui erano maturati i fatti, apparivano dettate dal proprio interesse personale. Segnalare una complessiva opacità nella gestione del patrimonio del partito serviva all'imputato a supportare le accuse, risultate calunniose, rivolte a R. e quindi tali ammissioni non poteva essere considerate espressione di una ravvedimento. Allo stesso modo non poteva considerarsi indice di resipiscenza la proposta di restituzione dei beni che, essendo sottoposti a sequestro, non erano destinati a rientrare nel patrimonio del ricorrente. Al contrario, non si poteva ignorare la estrema gravità dei fatti, la non occasionalità delle condotte, la consistente sequela di reati commessi, le accuse calunniose rivolte a R. dopo l'emersione delle condotte appropriative, a fronte della quale lo stato di incensuratezza non aveva alcun rilievo.


Sul punto va anche richiamato il principio, più volte stabilito da questa Corte, che, in caso di diniego, soprattutto dopo la specifica modifica dell'art. 62 bis c.p. operata con il D.L. 23 maggio 2008, n. 2002 convertito con modif. dalla L. 24 luglio 2008, n. 125 che ha sancito essere l'incensuratezza dell'imputato non più idonea da sola a giustificarne la concessione, è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dar conto, come nel caso in esame, di avere ritenuto l'assenza di elementi o circostanze positive a tale fine.


E' stato infatti affermato che "in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è proprio la suindicata meritevolezza che necessita, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda" (così, ex plurimis, sez. 1, n. 11361 del 19.10.1992, rv. 192381; sez. 1 n. 12496 del 21.9.1999, rv. 214570; sez. 6, n. 13048 del 20.6.2000, Occhipinti ed altri, rv. 217882; sez. 1, n. 29679 del 13.6.2011, rv. 219891; n. 44071 del 25/09/2014 Rv. 260610).


Dunque può affermarsi che i giudici di merito hanno motivato in modo congruo sul punto, richiamando i fattori valutativi presi in considerazione e dipanando la loro convinzione sulla base delle dinamiche dell'accaduto e della personalità dimostrata dal ricorrente.


La doglianza in punto pena è generica. Il ricorrente si limita a contestare l'eccessività della pena senza considerare che il giudice ha indicato in sentenza tutti gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p..


La richiesta della concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6 (motivo sub 10) è destituita di fondamento giuridico.


Il n. 6 dell'art. 62 c.p., contempla due circostanze attenuanti distinte e alternative tra loro: la riparazione del danno mediante il risarcimento e/o la restituzione della cosa; l'eliminazione delle conseguenze del reato.


Entrambe le circostanze richiedono che la condotta riparatoria sia realizzata "prima del giudizio" e, cioè, prima delle formalità di apertura del dibattimento di primo grado (Sez. 4^, 28.3.2008, n. 30802; Sez. 6^, 25.11.1993, n. 897). E' stata da questa Corte dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 62 c.p., n. 6, nella parte in cui subordina l'efficacia del risarcimento all'osservanza di un limite temporale, sul rilievo che tale previsione non determina alcuna irragionevole compressione del diritto di difesa, ma si pone, al contrario, in sintonia con la ratio dell'attenuante, che consiste nel dare rilevanza a comportamenti che, precedendo gli sviluppi del giudizio e i condizionamenti derivanti dalle connesse, contingenti esigenze difensive, possono considerarsi sintomatici di ravvedimento (Sez. 1^, 13.1.1995, n. 3340).


Il risarcimento consiste nella compensazione, effettiva ed integrale, del danno patrimoniale e non patrimoniale che consegua dalla commissione del reato e sia economicamente risarcibile.


Poichè il risarcimento, per espressa dizione di legge, oltre che integrale, deve essere effettivo, la giurisprudenza ha escluso l'attenuante quando il reo abbia assunto un mero impegno per un successivo versamento, da effettuarsi a favore della parte lesa di una somma custodita in deposito presso il difensore (Sez. 4^, 17.12.2003, n. 16883); o abbia offerto un assegno bancario, i quali, costituendo una datio pro solvendo, sono equiparabili piuttosto ad una promessa di ristoro (Sez. 3^, 23.1.2014, n. 17864; C., Sez. 3^, 21.3.1994, n. 6155) o, ancora, quando il colpevole abbia manifestato la sua disponibilità al risarcimento (Sez. 6^, 25.6.1991).


Nel caso in esame dalle stesse parole del ricorrente emerge l'insussistenza dei presupposti per la concessione dell'attenuante in parola.


Con l'undicesimo motivo il ricorrente contesta per la prima volta in questa sede l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici sostenendo che in caso di reato continuato la misura della pena cui tenere conto ai fini della natura temporanea o perpetua dell'interdizione è quella inflitta per i singoli reati e non quella complessivamente risultante dalla sentenza in caso di condanna.


La critica è fondata nei termini di seguito indicati.


Il giudice di primo grado ha ritenuto non solo tutti i fatti appropriativi contestati al capo B) avvinti dal vincolo della continuazione, ma ha ravvisato tale vincolo anche con riguardo al reato di calunnia e ha condannato il L. alla pena di anni otto di recl. partendo da una pena base, per il più grave reato di calunnia, di anni 3 e mesi 6 di recl., aumentata ex art. 81 cpv. c.p. di nove mesi di reclusione per ciascuno degli episodi appropriativi di cui al capo B).


Alla pena così determinata è stata fatta conseguire la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e l'interdizione legale per il periodo di esecuzione della pena.


La Corte d'Appello, come già indicato ha ritenuto prescritti i fatti appropriativi contestati ai punti B1), B2, B3), B4), B5), B6) consumati fino al 10.9.2008 e ha rideterminato l'aumento di pena ex art. 81 cpv. c.p. in mesi 7 di recl. per ciascuna delle sei contestazioni, mantenendo la pena base per il reato di calunnia in anni 3 e mesi 6 di recl.


Non essendo stata investita della questione relativa alla pena accessoria non si è pronunciata sul punto.


Tuttavia bisogna tener presente che, ai fini dell'applicazione della pena accessoria in caso di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita per il reato più grave e non a quella complessiva risultante dall'aumento della continuazione (Sez. 7, n. 48787 del 29/10/2014, Di Tana ed altri, Rv. 2644780; Sez. 1, n. 7346 del 30/01/2013, Pg in proc. 2 Catapano, Rv. 25455101; Sez. 6, n. 17616 del 27/03/2008 Pizza e altri, Rv. 24006701). Nel caso di specie non sono stati correttamente applicati tali principi poichè la pena base applicata per il reato più grave, la calunnia, era inferiore a cinque anni. Essendo però la pena base superiore ad anni 3, ai sensi dell'art. 29 cod. pen., doveva essere applicata la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni 5 e non doveva essere applicata l'interdizione legale per il periodo di esecuzione della pena.


Considerato che è compito del giudice controllare l'osservanza del principio di legalità della pena sancito dall'art. 1 cod. pen. deve conseguentemente procedersi a tale controllo, e ritenere la nullità della sentenza che in violazione del menzionato principio abbia applicato pene principali o accessorie in violazione di legge.


Deve pertanto essere annullata la sentenza impugnata nei confronti del L. limitatamente alle pene accessorie della interdizione perpetua dai pubblici uffici che deve essere sostituita con quella temporanea di anni cinque e dell'interdizione legale che deve essere eliminata.


Ciò detto deve rilevarsi che la questione ha investito un punto della decisione attinente al solo capo della sentenza relativo al reato di calunnia.


Deve ricordarsi che le Sez. Unite di questa Corte, con la sentenza 28 giugno 2000, n. 1, Tuzzolino, Rv. 216239, hanno chiarito che, nel sistema delle impugnazioni, per "capo" della sentenza deve intendersi "ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all'imputato" (avendo tale nozione rilievo in particolar modo per la sentenza plurima o cumulativa caratterizzata dalla confluenza nell'unico processo dell'esercizio di più azioni penali e dalla costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola imputazione), "tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza". Il concetto di "punto della decisione", invece, al quale fa espresso riferimento l'art. 597 c.p.p., comma 1, avrebbe una portata più ristretta, riguardando "tutte le statuizioni - ma non le relative argomentazioni svolte a sostegno - suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo". Pertanto, se ciascun capo è concretato da ogni singolo reato oggetto di imputazione, i punti della decisione vengono a coincidere con le parti della sentenza relative alle "statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato". Ad ogni capo corrisponderebbe una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segnerebbe un "passaggio obbligato" per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato. Tali sono l'accertamento del fatto, l'attribuzione di esso all'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e - nel caso di condanna - l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio.


L'accoglimento della doglianza in esame, come già indicato ha investito solo il capo della sentenza relativo al reato di calunnia che alla data odierna non risulta prescritto, nessuna incidenza assume invece sui reati di appropriazione indebita di cui al capo B) rispetto ai quali sono stati presentati motivi di ricorso inammissibili con conseguente impossibilità di rilevare e dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione a norma dell'art. 129 cod. proc. pen.. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, (Cass. Sez. Un n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, ribadita anche recentemente nella sentenza delle Sezioni Unite n. 6903 del 27/05/2016, Aiello e altro Rv. 268965) l'inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude pertanto la possibilità di rilevare e dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (Sez. Un. n. 12602 del 17/12/2015, Ricci; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531).


Le predette argomentazioni determinano anche l'inammissibilità del motivo sub 8) considerato che è lo stesso ricorrente che riconosce che il termine per la prescrizione è decorso dopo la sentenza di appello.


Il dodicesimo e il tredicesimo motivo investono la confisca.


Il Tribunale con la sentenza aveva disposto, ai sensi dell'art. 316 c.p.p. e art. 323 c.p.p., comma 4 il mantenimento del sequestro sulle somme e sui beni immobili sottoposti a vincolo, a garanzia delle restituzioni e del risarcimento dei danni derivanti dai reati.


La Corte d'Appello ha dichiarato la nullità del sequestro conservativo disposto con la sentenza di primo grado rilevando che il Tribunale con provvedimento del 20 novembre 2013 aveva rigettato la richiesta della parte civile di sequestro conservativo di tutti i beni mobili e immobili sequestrati nella fase delle indagini e che, non essendo intervenuta successivamente alcuna richiesta del Pubblico Ministero o della parte civile, la misura ablativa disposto risultava applicata ex officio e in violazione dell'art. 316 c.p.p. e art. 323 c.p.p., comma 4. Ha quindi disposto la confisca di tutti i beni mobili e immobili sottoposti a sequestro perchè (OMISSIS), partito in liquidazione, aveva disposto nell'Assemblea Generale del 16 giugno 2012 la devoluzione allo Stato delle risorse residue e di quelli derivanti da azioni risarcitorie. In altre parole i giudici d'appello hanno ritenuto che i beni oggetto di sequestro, profitto o prodotto del reato di appropriazione indebita, dovessero essere restituiti a (OMISSIS), persona offesa e in quanto tale estranea al reato. Non sono infatti suscettibili di ablazione i beni appartenenti alla persona offesa neppure laddove essi abbiano subito trasformazioni nelle mani del colpevole o di altri o rappresentino il profitto del reato. Ma poichè il partito (OMISSIS) che era in


liquidazione aveva disposto con decisione assembleare del 16.6.2012 di devolvere allo Stato le risorse residue e quelle derivanti da azioni risarcitorie hanno considerato che la confisca di detti beni fosse in linea con le decisioni del partito e consentisse l'immediato rientro nel patrimonio dello Stato di risorse, all'origine pubbliche. Decisione, tra l'altro in linea con la richiesta avanzata dal L. nei motivi di gravame (p. 77 appello) laddove ha affermato che la destinazione finale dei rimborsi elettorali spettava "esclusivamente" allo Stato.


Il tredicesimo motivo investe valutazioni di merito, peraltro mai sollevate nei precedenti gradi di giudizio, e come tali inammissibili.


Ricorsi S.G. e M.M..


Si ritiene di trattare congiuntamente le due posizioni per evitare inutili ripetizioni, considerato che i motivi si fondano su doglianze sovrapponibili.


Con distinti ricorsi i due commercialisti de (OMISSIS) lamentano che la impugnata sentenza ha affermato il loro concorso nella realizzazione delle accertate appropriazioni in base a considerazioni prive di qualsiasi supporto probatorio e basate su presunzioni.


Le doglianze espresse dai ricorrenti nei relativi ricorsi con riguardo al loro ritenuto concorso consistono nella rinnovazione di una linea difensiva basata su ragioni di merito. In ordine ad esse i giudici di primo e secondo grado, le cui pronunce quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, si sono espressi con argomentazioni immuni da vizi logici e giuridici con l'affermare che dalle deposizioni dibattimentali, in sentenza riportate, emergeva con assoluta evidenza il sistema escogitato per inabissare la TTT che non poteva essere opera delle impiegate amministrative del partito, che benchè laureate non avevano un'esperienza professionale per concepirlo ed eseguirlo, così come non l'aveva il L. che per ogni problema dava disposizione di rivolgersi ai commercialisti che apportavano alle predisposte bozze di bilancio le modifiche alle voci di spesa secondo le indicazioni fornite dal Tesoriere. Conclusione che trovava conferma nella costante presenza negli uffici amministrativi di S. che aveva potuto agevolmente rendersi conto delle anomalie ed irregolarità contabili che caratterizzavano la gestione dei conti del partito, come attestato anche dalle dichiarazioni delle collaboratrici amministrative che hanno riferito di momenti di forte tensione esplicitati dal commercialista (a proposito della mancanza di corrispondenza tra la documentazione di dettaglio delle spese e la scritturazione contabile) che lo avevano portato ad affermare che non era possibile andare avanti con la contabilità così poco veritiera...... Circostanza confermata dallo stesso S. che ha riferito di essersi insospettito con riguardo ai rapporti tra la TTT e (OMISSIS) e di avere chiesto al M. - che aveva rapporti diretti con il L. - di parlarne con il Tesoriere che, secondo quanto riferitogli dal collega, lo aveva rassicurato dicendogli che si trattava di operazioni immobiliari autorizzate dai vertici del partito. La giustificazione, secondo la quale i due commercialisti non sarebbero stati consapevoli della finalità appropriative delle pur evidenti e conosciute irregolarità contabili, cui essi partecipavano attraverso la modificazione delle voci del rendiconto, in quanto rassicurati dal L. sul fatto che tali irregolarità avessero come scopo quello di creare un patrimonio immobiliare, comunque riferibili a (OMISSIS), è apparsa così inverosimile, considerata anche la qualità professionale degli imputati, che, come indicato dai giudici di merito, non poteva che essere considerata come rivelazione di una consapevole scelta "di non vedere". Non poteva infatti sfuggire loro che gli investimenti che si andavano realizzando per il partito erano a dir poco singolari perchè non venivano acquistati immobili produttivi di reddito, ma ville e appartamenti destinati ad abitazione personale del L. e comunque non era dato comprendere la ragione per cui, quando avevano avuto dubbi sulle operazioni loro richieste, non avevano chiesto delucidazione ai vertici del partito e si fossero limitati a chiedere spiegazione all'unico beneficiario degli investimenti sospetti dal cui rapporto traevano sicuramente vantaggi professionali come l'incarico di provvedere alla contabilità e ai bilanci dell'(OMISSIS), del (OMISSIS), de (OMISSIS), di (OMISSIS), del (OMISSIS).


Le conclusioni circa la responsabilità dei ricorrenti risultano quindi adeguatamente giustificate dai giudici di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni.


I giudici di secondo grado con richiami specifici hanno dato atto di come le testimonianze, assunte in dibattimento, che hanno ricostruito le anomalie riscontrate nella redazione del bilancio e nella tenuta delle scritture contabili e la presenza costante di S.G. all'interno degli uffici amministrativi del partito, abbiano smentito in modo chiaro le prospettazioni difensive di un bilancio fondato su dati contabili elaborati esclusivamente dal personale amministrativo e dimostrato come ai due commercialisti fossero imputabili quegli artifici contabili che avevano consentito "l'inabissamento" della TTT agli occhi dei Revisori, del Comitato di Tesoreria e dell'Assemblea Federale. E' stato altresì evidenziato che i due commercialisti sapevano che i controlli dei revisori e degli altri organi erano solo formali e che l'elenco fornitori certamente nel 2009 era stato falsificato, e che quindi dalla mancanza di rilievi dei revisori non potevano trarne alcuna rassicurazione, così come è stato messo in evidenza che S., nonostante si lamentasse con il personale amministrativo per le richieste assurde di L., non si era mai sottratto alle direttive del Tesoriere alle quali, a differenza del personale amministrativo, lui libero professionista non aveva motivo di sottostare. Con riguardo al ritorno economico che gli imputati traevano dal concorso nell'illecita appropriazione, i giudici d'appello hanno ritenuto che, a prescindere dalla quantificazione dell'esatta incidenza percentuale sul fatturato dello studio del compenso percepito, non potevano non tenersi in considerazione gli ulteriori e importanti incarichi che avevano avuto grazie al rapporto con il Tesoriere del partito (ci si riferisce ai già indicati compiti di provvedere alla contabilità e bilanci dell'(OMISSIS), del (OMISSIS), dell'(OMISSIS), di (OMISSIS), del (OMISSIS)) e gli introiti derivanti dalla gestione della contabilità della TTT e della PARADISO. A detti incarichi doveva poi sommarsi la prospettiva di ulteriori consulenze che avrebbero potuto ottenere in ragione del rapporto privilegiato con L., in quel momento uomo di potere per la carica di senatore e per il ruolo di Tesoriere, nonchè persona stimata dai maggiorenti del partito.


Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile.


Al di là del dato enunciativo, i ricorrenti solo formalmente hanno indicato inosservanze di norme di diritto penale sostantivo e vizi di manifesta illogicità della motivazione della decisione gravata, ma non hanno prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; nè è stata lamentata una insufficiente descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento. Si sono, invero, limitato a criticare il significato che la Corte di appello ha dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l'istruttoria dibattimentale di primo grado.


Va d'altra parte qui ancora una volta ribadito che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Così: Cass., Sez. un., 24 novembre 1999, Spina; Cass. Sez. Un 31 maggio 2000, Jakani; Sez. Un, 24 settembre 2003, Petrella). L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato, come senz'altro è avvenuto nella specie, le ragioni del convincimento. In tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno; ed invero, avendo il legislatore attribuito rilievo esclusivamente al testo del provvedimento impugnato, che si presenta quale elaborato dell'intelletto costituente un sistema logico in sè compiuto ed autonomo, il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè e per sè considerata, necessariamente condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è "geneticamente" informata, ancorchè questi siano ipoteticamente sostituibili da altri.


Si dolgono i due imputati anche del diniego delle circostanze attenuanti generiche e lamentano l'eccessività della pena.


In ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche non può che ribadirsi quanto già affermato allorchè si è trattata la posizione L. e cioè che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice, come avvenuto nel caso in esame, con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato.


Con riguardo alla doglianza avanzata dal solo S. di omesso riferimento nel calcolo della pena della contestata aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7 deve rilevarsi che il giudice di primo grado nel determinare la pena era partito da una pena base che già considerava l'aumento per le aggravanti contestate, quindi anche quello per l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 7, la cui sussistenza non è stata oggetto di censure con l'atto di gravame dove era stata contestata la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 11, doglianza respinta dalla Corte Territoriale, e l'eccessività della pena lamentando l'eccessività dell'aumento per la continuazione, ma non la determinazione della pena base che riconosceva essere stata fissata in anni 2 mesi due di recl., in essa già conteggiati gli aumenti per le aggravanti.


Il motivo è pertanto inammissibile perchè investe aspetti valutativi mai formulati in sede di merito.


Premesso che l'interesse all'impugnazione deve presentare i caratteri della concretezza e dell'attualità nel senso che con il proposto gravame deve intendersi perseguire un risultato non soltanto teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole deve rilevarsi che manca tale interesse con riguardo alla tra l'altro generica doglianza della mancata specifica indicazione a quali assegni e bonifici la sentenza faccia riferimento laddove ha dichiarato la prescrizione di tutti i reati appropriativi consumati sino al (OMISSIS). Anche detta doglianza avanzata dal solo S. è pertanto inammissibile.


Così come M. non può dolersi della mancata motivazione in ordine alla fissazione della pena quando, come nel caso di specie, il giudice ha indicati in sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p..


In data 3 novembre 2017 M. depositava un motivo nuovo con il quale sollevava violazione dell'art. 29 c.p. sul presupposto che la pena irrogata per ciascuno dei reati posti in continuazione era inferiore a tre anni e quindi non poteva essere applicata l'interdizione dai PPUU per la durata di anni cinque, come invece disposto in sentenza.


I motivi nuovi che le parti possono addurre ai sensi dell'art. 584 c.p.p., comma 4 devono essere circoscritti al thema decidendum già devoluto al giudice dell'impugnazione, ossia devono riguardare - salva la prospettazione di argomenti nuovi e diversi - i capi e i punti della decisione impugnata già attinti con l'originario atto, come previsto dall'art. 581 c.p.p., comma 1 (C., Sez. 1^, 1.10.2009, n. 40174, in Mass. Uff., 245351; C., Sez. 6^, 20.5.2008, n. 27325, in Mass. Uff., 240367; C., Sez. 3^, 3.6.2008, n. 26762, in Mass. Uff., 240268; C., Sez. 5^, 22.9.2005, n. 45725, in Mass., Uff., 233210; C., Sez. Un., 25.2.1998, Bono, in CP, 1998, 2583).


Nel caso in esame il motivo investe un punto della decisione non oggetto di impugnazione. Il motivo è pertanto inammissibile. Come però già indicato l'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche d'ufficio (spettando sempre al giudice controllare l'osservanza del principio di legalità della pena sancito dall'art. 1 cod. pen.) purchè essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione.


Ribadito che ai fini dell'applicazione della pena accessoria in caso di più reati unificati sotto il vincolo della continuazione, occorre fare riferimento alla misura della pena base stabilita per il reato più grave e non a quella complessiva risultante dall'aumento della continuazione, deve rilevarsi che nel caso in esame essendo la pena base stabilita per M. in misura inferiore ad anni 3, ai sensi dell'art. 29 cod. pen., non doveva essere applicata la pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni 5 che deve pertanto essere eliminata.


Alla luce delle considerazioni espresse i ricorsi di S.G. e M.M. sono inammissibili.


Con riguardo alla richiesta di declaratoria di prescrizione avanzata da M. con la memoria depositata il 3 novembre 2017 non può che ribadirsi che l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. e art. 609 c.p.p., comma 2, l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata nè eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso (Cass. Sez. Un. n. 12602 del 17/12/2015 Rv. 266818).


Ricorso F.D..


Il ricorso di F.D. è inammissibile, perchè proposto per motivi non consentiti in sede di legittimità, poichè la ricorrente si è limitata a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio acquisito e valutato conformemente dai due giudici del merito, e comunque privi della necessaria specificità (ex art. 581 c.p.p., comma 1, lett. C)), poichè l'imputata reitera più o meno pedissequamente doglianze già esaminate ed incensurabilmente disattese dalla Corte di appello.


La ricorrente con i motivi d'appello aveva contestato la sussistenza dell'elemento psicologico del reato sostenendo che dall'istruttoria dibattimentale era emersa con chiarezza l'assenza della sua cosciente volontà di appropriarsi della cosa mobile altrui allo scopo di trarne ingiusto profitto. Aveva lamentato in particolare che il contesto illecito suggerito dall'emissione di fatture prive di prestazioni non poteva essere considerato l'unico criterio di valutazione perchè in quel caso la responsabilità veniva ricondotta ad "un suo chiudere gli occhi" di fronte alla realizzazione di reati per un vantaggio, quale quello di essere stata nominata amministratrice, di cui lei non aveva bisogno. Riteneva pertanto che nella condotta tenuta fosse al più ravvisabile un profilo di concorso colposo inapplicabile in un delitto, l'appropriazione indebita, punibile esclusivamente a titolo di dolo.


La Corte Territoriale ha sottolineata l'infondatezza delle notazioni difensive dirette a dimostrare l'inconsapevolezza della F. evidenziando in particolare come le rassicurazioni di L. che si trattasse di investimenti per il partito erano contraddette in modo palese dall'utilizzo, noto alla donna, delle somme di denaro per l'acquisto e l'esecuzione di costosissimi lavori di ristrutturazione di immobili che ricadevano nella disponibilità esclusiva e personale del L. e rilevando come non potesse sostenersi che la F. si sentisse rassicurata dalla fama di persona integerrima del L. considerate le a lei note modalità illecite di gestione della TTT attraverso false fatturazioni. E' stato altresì rilevato che non poteva spendersi l'argomento di una forma di metus nei confronti del Tesoriere in quanto la F., avvocato, aveva gli strumenti culturali per resistere "agli ordini" di L..


In sintesi la Corte Territoriale ha respinto le censure rilevando che la F., anche per il profilo professionale, non poteva non rendersi conto di partecipare ad un'attività illecita nel momento in cui assicurava alla TTT, di cui era amministratrice, introiti per servizi non prestati al partito e nel momento in cui sapeva che quegli ingenti flussi di denaro alimentavano il patrimonio personale del L.. E ha sottolineato che gli stessi elevati compensi percepiti erano dimostrazione del suo interesse a prestarsi all'attività illecita del L.. Elementi che hanno portato i giudici di merito a ritenere ravvisabili non profili di colpa ma coscienza e volontà di concorrere con il Tesoriere nelle illecite appropriazioni essendosi volontariamente prestata a drenare denaro dalle casse del partito, dissimulandone il relativo beneficiario.


In questa sede la F., al di là del dato enunciativo, solo formalmente ha indicato inosservanze di norme di diritto penale sostantivo e vizi di manifesta illogicità della motivazione della decisione gravata, ma non ha prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; nè è stata lamentata una insufficiente descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento. Si è infatti limitata, dietro lo schermo di un asserito travisamento della prova, a criticare il significato che i giudici d'appello hanno dato al contenuto di alcune emergenze processuali, tra l'altro neppure determinanti nel ragionamento della Corte territoriale.


Deve ricordarsi che il vizio di travisamento della prova è ravvisabile solo quando l'errore sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio, fermi restando il limite del "devolutum" in caso di cosiddetto "doppia conforme" e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio.


Può quindi affermarsi che lo sviluppo argomentativo della motivazione della sentenza impugnata è fondato su una coerente analisi critica degli elementi probatori e sulla loro coordinazione in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l'affermazione della responsabilità della F. che ha offerto un consapevole contributo causale al L. nella realizzazione delle condotte appropriative.


Tenuto conto del fatto che i ricorsi delle parti civili sono stati ritenuti inammissibili con riguardo alle doglianze avanzate in ordine alla sussistenza del reato di associazione per delinquere si ritiene corretto operare una parziale compensazione delle spese.


Alla luce di tutte le argomentazioni indicata la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di L.L. limitatamente alle pene accessorie della interdizione perpetua dai Pubblici Uffici che sostituisce con quella temporanea di anni cinque e dell'interdizione legale che elimina. Il ricorso dell'imputato deve essere dichiarato inammissibile nel resto. L.L. deve essere condannato alla rifusione del 50% delle spese, liquidate in Euro 2000,00, oltre spese generali nella misura del 15%, CPA e IVA sostenute dalla parte civile R.F., dichiarando compensata la restante metà.


Devono essere dichiarati inammissibili i ricorsi di M.M., S.G. e F.D. che devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende. Deve essere rettificata la sentenza impugnata eliminando la pena accessoria inflitta a M.M..


Devono essere dichiarati inammissibili i ricorsi delle parti civili che devono essere condannate al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 ciascuna a favore della Cassa delle Ammende.


L.L., M.M., S.G. e F.D. devono essere condannati alla rifusione del 50% delle spese, liquidate in Euro 2000,00, oltre spese generali nella misura del 15%, CPA e IVA sostenute dalla parte civile (OMISSIS) in liquidazione, dichiarando compensata la restante metà.


P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di L.L. limitatamente alle pene accessorie della interdizione perpetua dai Pubblici Uffici che sostituisce con quella temporanea di anni cinque e dell'interdizione legale che elimina; dichiara inammissibile nel resto il ricorso dell'imputato.


Dichiara inammissibili i ricorsi di M.M., S.G. e F.D. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende. Visto l'art. 619 c.p.p., comma 2 rettifica la sentenza impugnata eliminando la pena accessoria inflitta a M.M..


Dichiara inammissibili i ricorsi delle parti civili che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000,00 ciascuna a favore della Cassa delle Ammende.


Condanna L.L. alla rifusione del 50% delle spese, liquidate in Euro 2000,00, oltre spese generali nella misura del 15%, CPA e IVA sostenute dalla parte civile R.F., dichiarando compensata la restante metà.


Condanna L.L., M.M., S.G. e F.D. alla rifusione del 50% delle spese, liquidate in Euro 2000,00, oltre spese generali nella misura del 15%, CPA e IVA sostenute dalla parte civile (OMISSIS) in liquidazione, dichiarando compensata la restante metà.


Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2017.


Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2018

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