SOMMARIO:
1. Premessa: l’introduzione dell’art. 590-sexies cod. pen. ad opera della legge 8 marzo 2017, n. 24 e i precedenti risultati nomofilattici raggiunti dalla giurisprudenza della Quarta sezione della Corte
Nel corso dell’ultimo anno è stata depositata la motivazione della sentenza delle Sezioni unite penali n. 8770 del 21/12/2017, – dep. 2018 –, Mariotti, Rv. 272174 – 272175 – 272176 con la quale non soltanto è stato risolto il contrasto insorto, nell’ambito della Quarta sezione, in ordine all’interpretazione dell’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dall’art. 6 della legge 8 marzo 2017, n. 24, in tema di responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria (e alla conseguente individuazione della disciplina più favorevole tra quella introdotta dalla novella e quella dettata dall’abrogato art. 3 comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189), ma è stato chiarito quali tra i “risultati nomofilattici” raggiunti dalla giurisprudenza della Quarta sezione della Corte nel vigore dell’abrogata normativa mantengono attualità. In tema di responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria l’art. 6, comma 1, della legge 8 marzo 2017, n. 24, recante «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie» ha introdotto nel codice penale l’art. 590-sexies, che prevede: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
Il comma 2 del medesimo art. 6 ha abrogato l’art. 3, comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, che prevedeva: «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo.».
La legge 24 del 2017 reca una complessa riforma in materia sanitaria, che non si limita alla disciplina della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, ma comprende anche una articolata disciplina della responsabilità civile (artt. 7 e ss.), nonché l’introduzione di misure di risk management (artt. da 1 a 4), e l’introduzione di un sistema di accreditamento istituzionale delle linee guida (art. 5).
L’interpretazione dell’art. 590-sexies cod. pen. ha posto, fin dall’entrata in vigore della novella, importanti problemi dovuti al tenore del testo della disposizione che, come rilevato dalla Corte, «suscita alti dubbi interpretativi a prima vista irresolubili, subito messi in luce dai numerosi studiosi che si sono cimentati con la riforma: si mostrano, in effetti, incongruenze interne, tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo» (Sez. 4, n. 28187 del 20/4/2017, Tarabori, Rv. 270213 -270214).
La non punibilità dell’agente che rispetta le raccomandazioni previste dalle linee guida accreditate ai sensi di legge, nel caso in cui esse «risultino adeguate alle specificità del caso concreto» sembra, almeno a prima vista, ovvia, non comprendendosi quale spazio rimanga per la configurabilità di una colpa nel caso in cui l’agente rispetti le raccomandazioni previste da linee guida pertinenti, attualizzandole in concreto in un modo che risulti adeguato rispetto alle contingenze del caso concreto.
D’altra parte la novella, a differenza dell’art. 3 comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, non contiene alcun riferimento al grado della colpa, quale discrimine della rilevanza penale della condotta. La scelta del significato da attribuire alla disposizione in questione, inoltre, incide notevolmente sulla soluzione delle questioni di diritto intertemporale, stante l’intervenuta abrogazione della limitazione della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria prevista dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012: in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 si pone, infatti, la questione dell’individuazione della disposizione più favorevole, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2 cod. pen. Anche l’abrogato art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 presentava un’apparente contraddizione prevedendo un terapeuta che, contemporaneamente, rispettasse le linee guida e tuttavia fosse in colpa.
Tale illogicità era stata superata dalla Corte (Sez. 4, n. 16237 del 29/1/2013, Cantore, non mass. sul punto, confermata dalla giurisprudenza successiva) sulla base del rilievo che le linee guida danno direttive solo di massima che vanno in concreto applicate senza automatismi ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico, o addirittura disattese.
Di conseguenza era stato ritenuto possibile che fosse in colpa il terapeuta rispettoso delle linee guida tanto per errore nella scelta quanto per errore nell’esecuzione delle raccomandazioni previste dalle linee guida, cioè il professionista:
- che, “nel concreto farsi del trattamento” commettesse un errore nell’adattamento delle direttive di massima alle evenienze e peculiarità dello specifico caso clinico; - o che applicasse le linee guida a un caso in cui dovessero essere disattese, in ragione delle specificità del caso concreto (ad esempio nelle situazioni di comorbilità).
- La giurisprudenza della Corte (Sez. 4, n. 16237 del 29/1/2013, Cantore, non mass. sul punto, confermata anche sotto tale profilo dalla giurisprudenza successiva) aveva anche elaborato criteri idonei a guidare il giudizio nella valutazione della gravità della colpa, ritenendola configurabile, quando:
- «l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente»;
- «il terapeuta si attenga allo standard generalmente appropriato per un’affezione, trascurando i concomitanti fattori di rischio o le contingenze che giustifichino la necessità di discostarsi radicalmente dalla routine.
In tale situazione potrà parlarsi di colpa grave solo quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente».
Nell’ambito della giurisprudenza della Quarta sezione penale fino all’entrata in vigore della legge n. 24 del 2017 era rimasto, invece, ancora aperto il problema relativo, all’applicabilità o meno della norma di cui all’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012, oltre che alle condotte imperite, anche a quelle negligenti ed imprudenti e, conseguentemente, quello dell’esatta portata degli effetti parzialmente abrogativi ad essa connessi.
Alcune pronunce, infatti, ritenevano operante l’esonero da responsabilità per colpa lieve soltanto per l’imperizia, sulla base della considerazione che le linee guida conterrebbero soltanto regole di perizia (Sez. 4, n. 16944 del 20/03/2015, Rota, 263389; Sez. 4, n. 7346 dell’08/07/2014, Sozzi, Rv. 262243; Sez. 3, n. 5460 del 04/12/2013, Grassini, Rv. 258846; Sez. 4, n. 11493 del 24/01/2013, Pagano, Rv. 254756; Sez. 4, n. 26996 del 27/04/2015, Caldarazzo, Rv. 263826).
Secondo altre pronunce l’esonero di responsabilità per colpa lieve di cui alla “legge Balduzzi” si estendeva, invece, anche alla negligenza e all’imprudenza, sia perché contenuto delle linee guida possono essere anche regole che afferiscono al parametro della diligenza, come nel caso di professioni sanitarie diverse da quella medica, sia perché la norma abrogata non conteneva alcun richiamo al canone della perizia, sia per l’ «intrinseca opinabilità nella stessa distinzione dei tre profili di colpa generica, della diligenza, prudenza e perizia», (Sez. 4, n. 23283 dell’11/05/2016, Denegri, Rv. 266903; Sez. 4, n. 45527 dell’01/01/2015, Cerracchio, Rv. 264897; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739-260740; Sez. 4, n. 2168 dell’08/07/2014, Anelli, Rv. 261764).
Quanto ai profili di costituzionalità della norma si ricorda che il Tribunale di Milano, con ordinanza del 21/03/2013 (in G.U. del 05/06/2013, n. 23) aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012, sotto il duplice profilo dell’indeterminatezza e dell’irragionevole ampiezza della sua sfera di applicazione: la violazione del principio di tassatività veniva prospettata in ragione dell’indeterminatezza dell’area della non punibilità dovuta non soltanto all’omessa definizione normativa del concetto di colpa lieve, ma anche alla genericità del rinvio operato dalla norma alle linee guida, senza precisazione delle relative fonti, modalità di produzione e procedure di diffusione, rendendo, così, indeterminata l’area della non punibilità; mentre l’irragionevole ampiezza dell’esonero veniva, tra l’altro, ritenuta sussistente sia per la sua possibile applicazione a qualunque reato colposo, anche diverso dai reati contro la persona (quali, ad esempio, quelli in materia di sicurezza sul lavoro.
Come è noto la questione era stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 295 del 2013 per l’insufficiente descrizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta, e quindi per l’insufficiente motivazione circa la rilevanza della questione. In tale ordinanza, in via incidentale, la Consulta – con riferimento alla mancata precisazione se nel giudizio a quo fosse sorta questione in ordine al fatto che gli imputati si fossero attenuti a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica proprie del contesto di riferimento, così che potesse venire effettivamente in discussione l’applicabilità della norma censurata – aveva rilevato «che, al riguardo, occorre anche considerare come, nelle prime pronunce emesse in argomento, la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente».
La questione della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 158 del 2012 era stata successivamente valutata dalla Corte di cassazione (Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, Barberi, Rv. 267814) sotto il profilo della possibile irragionevolezza della disparità di trattamento della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria rispetto alla responsabilità penale di professionisti diversi.
Tale irragionevolezza era stata esclusa dalla Corte valorizzando: - l’applicabilità ai professionisti diversi da quelli esercenti professioni sanitarie della disciplina emergente dal combinato disposto degli art. 43 cod. pen. e 2236 cod. civ., secondo l’orientamento ermeneutico affermatosi nella giurisprudenza di legittimità che ritiene che l’art. 2236 cod. civ., pur non essendo direttamente applicabile in campo penale, può essere utilizzato dal giudice, in ragione del criterio di razionalità del giudizio che esprime, quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito per imperizia, quando il caso specifico imponga la soluzione di problemi di particolare difficoltà di carattere tecnico-scientifico o ricorra una situazione di emergenza (Sez. 4, n. 4391 del 22/11/2011, Di Lella, Rv. 251941; Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Buggè, Rv. 237875); - i diversi presupposti di applicabilità delle due diverse limitazioni di responsabilità: il rispetto delle linee guida a prescindere dalle speciali difficoltà del caso, per quella di cui all’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012; la speciale difficoltà del caso, nell’ipotesi di inosservanza delle regole dell’arte, per quella di cui all’art. 2236 cod. civ..
Così delimitati gli ambiti di operatività delle due discipline, ad avviso della Corte, lo statuto della colpa professionale risultava connotato da un complesso equilibrio nel quale non era ravvisabile alcun indice concreto di irragionevolezza del differente trattamento riservato agli esercenti la professione sanitaria.
La nuova disciplina della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria introdotta dalla legge n. 24 del 2017, a differenza dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012:
- limita espressamente alla sola colpa per imperizia la “non punibilità” dell’agente che abbia rispettato le linee guida, così prendendo posizione in ordine alla questione che, con riferimento alla disciplina abrogata, era rimasta aperta nell’ambito della giurisprudenza della Quarta sezione della Corte;
- limita ai reati di omicidio e lesioni colposi l’applicabilità della fattispecie di “non punibilità” prevista dal secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., così da superare, sotto tale profilo, le censure di irragionevolezza mosse dal Tribunale di Milano all’ampiezza dell’esonero di responsabilità previsto dall’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012; - richiama il rispetto di linee guida di cui è individuata la fonte e disciplinata la procedura di accreditamento istituzionale (art. 5 della legge n. 24 del 2017), così superando le censure di indeterminatezza mosse dal tribunale di Milano nei confronti dell’abrogata fattispecie di esonero di responsabilità.
Se queste differenze consentono di ritenere superati i rilevati problemi posti dall’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012, altre differenze di disciplina hanno invece aperto nuove questioni.
La nuova disciplina, infatti, non richiama espressamente – a differenza dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012 – una gradazione della colpa a cui sia ancorata la fattispecie di “non punibilità”, con la conseguenza che, in base a un’interpretazione strettamente letterale della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen., potrebbe ritenersi esclusa la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria anche in caso di imperizia grave, con i conseguenti problemi di costituzionalità evidenziati fin da subito dalla giurisprudenza della Corte. D’altra parte per integrare la fattispecie di “non punibilità” prevista dalla novella, non è sufficiente – a differenza di quanto previsto dall’abrogata “legge Balduzzi” – il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida (o in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico-assistenziali), ma anche che tali raccomandazioni «risultino adeguate alle specificità del caso concreto»: con la conseguenza che appare difficilmente configurabile un ambito applicativo della norma, cioè un’ipotesi di imperizia in caso di rispetto di linee guida adeguate alle specificità del caso concreto.
Tale difficoltà emerge soprattutto avuto riguardo all’interpretazione della Corte che era riuscita a ricavare un ambito applicativo dell’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012 proprio sulla base del rilievo che poteva essere in colpa il professionista rispettoso delle linee guida perché queste contengono direttive solo di massima che devono essere adeguate alle specificità di ciascun caso clinico, per cui l’errore – non punibile se dovuto a colpa lieve – poteva profilarsi sia nella fase dell’adattamento/adeguamento delle linee guida al caso concreto, sia nella fase della scelta di seguire linee guida in un caso in cui le contingenze peculiari imponevano di disattenderle.