La massima
In tema di diffamazione a mezzo stampa, il giornalista che effettua un'intervista può beneficiare dell'esimente del diritto di cronaca con riferimento al contenuto delle dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie a lui rilasciate, se riportate fedelmente ed in modo imparziale, senza commenti e chiose capziose a margine - tali da renderlo dissimulato coautore - e sempre che l'intervista presenti profili di interesse pubblico all'informazione, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, al suo oggetto e al contesto delle dichiarazioni rilasciate (Cassazione penale sez. V - 21/11/2019, n. 16959).
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La sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. La decisione in epigrafe ha confermato la pronuncia del Tribunale di Monza del 25.9.2015, appellata dalla parte civile, con cui T.L.D. e U.D. sono stati assolti rispettivamente dai reati di omesso controllo ex art. 57 c.p. e diffamazione in relazione all'articolo apparso sulla rivista (OMISSIS) dal titolo "Scrivere mi ha aiutato ad uscire dal tunnel degli psicofarmaci", con cui si offendeva la reputazione della società "Le Betulle"- Casa di cura s.r.l. poichè, all'interno del testo dell'articolo giornalistico, veniva riportata una frase dell'intervistata - P.L.V. - riferita a tale struttura di cura, del seguente tenore: "A Le Betulle sono finita in mano a dei delinquenti, psichiatri che erano peggio di spacciatori e che hanno sbagliato cura".
2. Avverso la pronuncia di secondo grado ricorre la parte civile, s.r.l. Casa di cura "Le Betulle", in persona del consigliere e procuratore della società, B.C. tramite il difensore e procuratore speciale, avv. Strina, deducendo otto distinti motivi.
2.1. Il primo argomento difensivo eccepisce mancanza di motivazione in relazione ai motivi d'appello proposti dalla parte civile.
La Corte di merito ha incentrato la sua conferma della pronuncia di primo grado sulla sussistenza della scriminante del diritto di cronaca, non tenendo conto del fatto che, invece, il primo giudice aveva motivato l'assoluzione sull'assenza dell'elemento doloso, necessario coefficiente soggettivo della diffamazione, limitando la responsabilità per la lesione all'immagine, pur ammessa, alla sola intervistata P.L., nei cui confronti risultava emessa comunque già sentenza di condanna passata in giudicato. Erano stati disattesi, pertanto, i motivi difensivi riferiti alla natura del dolo del reato di cui all'art. 595 c.p., che è generico e può manifestarsi anche nelle forme del mero dolo eventuale, là dove l'agente utilizza consapevolmente parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, nonchè le eccezioni relative alla sostanziale condivisione manifestata dal giornalista nell'articolo sul punto di vista dell'intervistata quanto a "scomode verità" legate alla assunzione di psicofarmaci.
2.2. Il secondo argomento di ricorso deduce mancanza di motivazione in relazione ai motivi d'impugnazione riferiti alla mancata presa di distanza e neutralità del giornalista e del direttore responsabile del giornale dalle affermazioni dell'intervistata riferite all'uso ed alla somministrazione degli psicofarmaci nella casa di cura "Le Betulle".
2.3. La terza censura attiene al vizio di motivazione mancante sul motivo d'appello che rappresentava come i contenuti dell'articolo non corrispondessero a quelli del libro di cui è autrice l'intervistata, dal titolo "Come una lumaca quando piove", poichè nel libro, a differenza che nell'articolo giornalistico, le frasi ingiuriose all'indirizzo dei medici della struttura di cura parte civile sono attribuite al padre (noto medico, coinvolto in scandali della sanità pubblica) ed alla madre dell'intervistata e non a lei stessa.
2.4. La quarta e la quinta eccezione difensiva hanno ad oggetto la mancanza di motivazione quanto alla possibilità di configurare la scriminante del diritto di cronaca nel caso di specie, in cui non si rivela alcun interesse pubblico alla notizia, data la notorietà non così rilevante dell'intervistata e l'oggetto dell'intervista, non direttamente collegato al tema dell'abuso degli psicofarmaci, ma alla vita personale di costei, e vengono riportate "alla lettera" le dichiarazioni del soggetto intervistato senza che questi abbia specifica notorietà e particolari competenze nella materia che costituisce l'oggetto dell'argomento diffamatorio (l'uso e l'abuso degli psicofarmaci).
2.5. Il sesto motivo di ricorso deduce la contraddittorietà tra le motivazioni assolutorie di primo e secondo grado, la prima incentrata sul difetto dell'elemento psicologico; la seconda sulla sussistenza dei caratteri di verità, pertinenza e continenza propri della scriminante del diritto di cronaca, nonchè ribadisce ancora la incoerenza dell'operatività della scriminante in relazione a frasi riportate fedelmente che, tuttavia, non costituiscono l'espressione di pensiero di un soggetto noto e competente sul tema.
2.6. Il settimo e l'ottavo motivo riepilogano, in ultima analisi, le doglianze già in precedenza prospettate, evidenziando, il primo, la complessiva mancanza di motivazione e confronto della sentenza impugnata con i motivi di appello proposti; il secondo, l'insussistenza della scriminante del diritto di cronaca, sotto il profilo della violazione di legge.
3. In data 1 ottobre 2019 è pervenuta in Cancelleria della Quinta Sezione Penale di questa Corte copia dell'estratto per riassunto del registro atti di morte rilasciato dal Comune di Mesenzana relativo all'imputato T.D.L..
4. In data 15.11.2019 è stata depositata memoria difensiva dell'avv. Pendini in favore dell'imputato U. con cui si chiede che venga dichiarato inammissibile o infondato il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Anzitutto il Collegio dà atto che, in data 10.10.2019, l'avv. Barlassina ha fatto pervenire alla Quinta Sezione il certificato del Comune di Mesenzana che attesta la morte dell'imputato T.D.L. il giorno (OMISSIS).
Ciò determina l'inammissibilità del ricorso della parte civile nei confronti di T.M.L. per morte dello stesso.
Ed infatti, la morte dell'imputato, intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza, comporta la cessazione sia del rapporto processuale penale, che del rapporto processuale civile nel processo penale, e determina, di conseguenza, anche il venir meno delle eventuali statuizioni civilistiche senza la necessità di una apposita dichiarazione da parte del giudice penale (così Sez. 3, n. 47894 del 23/3/2017, Modica, Rv. 271160 che, in applicazione del principio, in una fattispecie del tutto sovrapponibile a quella in esame, ha dichiarato inammissibile il ricorso della parte civile contro la sentenza di assoluzione dell'imputato; cfr. altresì Sez. 3, n. 5870 del 2/12/2011, dep. 2012, F., Rv. 251981; Sez. 2, n. 11073 del 17/2/2009, Leonardi, Rv. 243865,Sez. 4, n. 44663 del 14/10/2005, Merotto, Rv. 232620).
2. Il ricorso proposto dalla parte civile, che a questo punto, deve essere esaminato unicamente per la posizione di U.D., giornalista autore dell'intervista pubblicata sul settimanale "Vero", è infondato.
La vicenda è stata compiutamente ricostruita dai giudici di merito, con una doppia pronuncia conforme in punto di assoluzione che rivela un tessuto logico unico, caratterizzato da affidabilità argomentativa ed organica tenuta motivazionale dal punto di vista della ricostruzione fattuale, mentre non presta il fianco a censure per vizi di violazione di legge.
2.1. Il giudice di primo grado ha ritenuto che il giornalista avesse riportato fedelmente le frasi contestate come diffamatorie dell'intervistata, autrice di un libro all'epoca in uscita, in cui si raccontava anche del suo ricovero nella clinica predetta, ed avesse incentrato l'articolo sulla vita avventurosa di costei, della quale la vicenda del ricovero costituiva solo un marginale evento.
La sentenza, assolvendo gli imputati T. ed U. con formula perchè il fatto non costituisce reato, ha valutato, pertanto, da un lato, insussistente l'elemento psicologico doloso necessario a configurare il reato di diffamazione, dall'altro, sia pur non espressamente, la sussistenza della scriminante del diritto di cronaca, incentrando la sua valutazione sul tema della rilevanza alla diffusione pubblica dell'intervista, data la notorietà dell'intervistata e la natura dei contenuti della rivista Vero (si tratta di un settimanale di attualità e spettacolo).
La Corte d'Appello ha condiviso tali conclusioni evidenziando che nella pronuncia confermata doveva cogliersi l'operare della scriminante del diritto di cronaca.
Vi è da aggiungere che P.L.V. è stata processata separatamente con rito abbreviato per il reato di diffamazione e condannata dal GUP presso il Tribunale di Monza, in data 20.4.2010, alla pena di 600 Euro di multa.
3. In tale prospettiva, e per rispondere unitariamente al primo ed al secondo motivo di ricorso, nonchè a quelli enucleati dal quarto all'ottavo, tutti collegati tra loro e sostanzialmente espressivi di un'unica, complessiva doglianza, il Collegio evidenzia che l'esito di tale ricostruzione effettuata dai giudici di merito rimane coerente e condiviso dalla due sentenze richiamate, nonostante le argomentazioni a sostegno dell'assoluzione - cui entrambe giungono - privilegino, quelle del Tribunale, la mancanza di prova del dolo del reato di diffamazione; quelle della Corte d'Appello, la sussistenza della scriminante del diritto di cronaca.
Non è di poco rilievo sottolineare, altresì, che il primo giudice ha anch'egli ripercorso la condotta dell'imputato, evidenziando che sono state riportante nell'articolo solo elementi di fatto "veri": la pubblicazione di un libro da parte di P.L.V. in cui ella raccontava le sue vicende tribolate di vita e, tra l'altro, narrava del ricovero presso la clinica Le Betulle e della somministrazione di psicofarmaci per scopi terapeutici cui ivi era stata sottoposta, circostanza ammessa dalla stessa persona offesa, che - secondo la ricostruzione del Tribunale di Monza - ha ritenuto indispensabile tale tipo di terapia.
Dunque, le due motivazioni, per come sintetizzate, si sommano e si integrano e non rivelano, nel confronto, profili di incompatibilità ovvero di illogicità reciproca.
Il Collegio rileva, infatti, come ben possano coesistere sia i caratteri della scriminante ex art. 51 c.p., del resto necessari, trattandosi di un articolo giornalistico che, dal punto di vista della condotta oggettiva, si caratterizza per avere dei contenuti potenzialmente lesivi dell'immagine della casa di cura "Le Betulle"; sia gli elementi dai quali desumere, comunque, anche l'assenza di prova del coefficiente soggettivo del reato, rappresentato, nella fattispecie tipica, dal dolo generico (Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, dep. 2014, Verratti, Rv. 258943).
Il sintetico richiamo finale alla mancanza del coefficiente soggettivo doloso "generico" non è censurabile da un punto di vista, oltre che logico, anche sistematico: la dimensione putativa di una scriminante, infatti, agisce proprio sulla configurabilità del dolo (anche di quello generico) di fattispecie.
In altre parole, il coefficiente soggettivo può essere escluso valutando l'atteggiamento volontaristico di chi agisca ritenendo di aver posto in essere tutte le cautele per accedere alla scriminante, che, dunque, si configura a livello putativo.
Ma nel caso del provvedimento di primo grado il Tribunale di Monza ha portato avanti, in realtà, argomentazioni per negare la configurabilità del reato di diffamazione a carico del giornalista intervistatore analizzando nettamente gli elementi di sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca tout court.
Richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità delle Sezioni civili della Cassazione, il provvedimento del primo giudice, infatti, evidenzia che il giornalista che pubblichi un'intervista a terzi, avente contenuto diffamatorio, risponde del danno patito dal diffamato se non si attiva, da un lato, per verificare la verità, quanto meno putativa, delle dichiarazioni rese dall'intervistato e, dall'altro, per presentare in modo obiettivo l'intervista ed i fatti in essa dichiarati, senza allusioni o sottintesi.
La Corte d'Appello di Milano ha condiviso tutto il portato logico-argomentativo della sentenza confermata, che, pertanto, deve essere analizzato nella sua unitaria valenza.
3.1. Il Collegio, pertanto, rileva come effettivamente vi sia un'opzione dominante della giurisprudenza civile in tema di diffamazione secondo cui, operato un accorto bilanciamento dei beni giuridici contrapposti in campo (l'onore e la reputazione personali e l'interesse pubblico all'informazione espressione del diritto garantito dall'art. 21 Cost.), qualora un giornalista compia un'intervista i cui contenuti risultino diffamatori per le dichiarazioni rese dall'intervistato, egli non può essere ritenuto concorrente nel reato se si sia astenuto dal ricorrere ad accostamenti suggestivi o capziosi, tali da indurre in errore il lettore e fargli percepire come veritieri i fatti dichiarati da terzi, poichè in tal caso il giornalista, da osservatore terzo, diverrebbe diffamatore dissimulato (in tal senso si esprime la sentenza del Tribunale di Monza).
In altre parole, il giornalista può essere chiamato a rispondere del contenuto diffamatorio di un'intervista quando con le parole dell'intervistato si intreccino suoi commenti e chiose capziose tali da far sì che egli diventi a pieno titolo un coautore del contenuto complessivo dell'articolo, condividendone in buona sostanza le tesi ed anzi contribuendo con la sua condotta al consolidamento del risultato o del contenuto diffamatorio, ovvero, se non aderendovi in modo espresso, contribuendo scientemente con la sua condotta alla percezione del senso impressovi dall'intervistato (in tal senso si esprime Sez. 3 civ., n. 15112 del 17/6/2013, Rv. 626951, in motivazione).
Diventano rilevanti, per tale verifica, la consecuzione, la suggestività, l'articolazione di artifici dialettici o retorici nella formulazione delle domande o delle premesse o dei commenti (Sez. 3 civ., n. 15112 del 17/6/2013, Rv. 626951; Sez. 3 civ., n. 16917 del 20/7/2010, Rv. 614230).
Del resto, approfondendo ancora la giurisprudenza civile in tema di diffamazione, che offre squarci rilevanti sull'interpretazione della fattispecie sottoposta al Collegio, il giornalista, laddove non abbia manipolato od elaborato tali dichiarazioni, in modo da falsarne anche parzialmente il contenuto, non può essere chiamato a rispondere di quanto affermato dall'intervistato, semprechè ricorrano gli ulteriori requisiti dell'interesse pubblico alla diffusione dell'intervista e della continenza, da intendersi rispettato, quest'ultimo, per il sol fatto che il giornalista abbia riportato correttamente le dichiarazioni, a prescindere da qualsiasi valutazione sul loro contenuto (Sez. 3, ord. n. 10928 del 5/5/2017, Rv. 644067).
3.2. Le chiavi interpretative utilizzate dalla giurisprudenza di legittimità delle Sezioni civili della Corte di cassazione possono essere valutate anche sul piano penalistico, al fine di inquadrare bene l'ambito applicativo della fattispecie di cui all'art. 595 c.p., nel caso del rapporto intervistatore/intervistato.
E l'elaborazione suddetta si rivela utile anche per meglio inquadrare la pronuncia che costituisce tuttora un punto di riferimento nell'analisi interpretativa della fattispecie tipica "diffamazione" nel caso della responsabilità del giornalista per i contenuti delle dichiarazioni di altri rilasciategli in un'intervista: la sentenza Sez. U, n. 37140 del 30/5/2001, Galiero, Rv. 219651, più volte richiamata anche dall'elaborazione della Corte di cassazione civile.
Il massimo collegio di legittimità, sotto il profilo della sussistenza della scriminante del diritto di cronaca, infatti, ha chiarito che l'intervistatore, nella qualità di "diffusore mediatico" delle dichiarazioni di contenuto ingiurioso o diffamatorio, non può ritenersi responsabile del contenuto di queste, qualora esse siano riportate fedelmente in un'intervista condotta in modo imparziale.
Partendo dal presupposto che può ritenersi la sussistenza di un interesse del pubblico ad essere informato delle opinioni espresse da un personaggio noto e quindi qualificato, indipendentemente dalla verità oggettiva dei fatti da questo narrati e dalla correttezza delle espressioni usate, le Sezioni Unite hanno individuato il problema interpretativo cruciale nella qualificazione da dare al personaggio che rilascia l'intervista, al fine di accertare se effettivamente le sue dichiarazioni siano comunque meritevoli di essere pubblicate, al di là dell'accertamento sul controllo della veridicità del loro contenuto.
La verifica deve essere condotta, tuttavia, in concreto, ammettono le Sezioni Unite, e non sulla base di astratte formule giuridiche poichè alla scriminante del diritto di cronaca non può attribuirsi una natura statica e immutabile, bensì una struttura dinamica e flessibile, adattabile di volta in volta a realtà diverse.
Proprio per tale ragione, la valutazione di sussistenza, o meno, della responsabilità del "giornalista intervistatore" per aver pubblicato dichiarazioni diffamatorie dell'intervistato deve essere necessariamente demandata al giudice del merito, il quale dovrà tener conto, in primo luogo, dell'effettivo grado di rilevanza pubblica dell'evento dichiarazione, considerando poi - al fine di verificare se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l'evento piuttosto che a divenire strumento della diffamazione - in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui e quale sia la plausibilità e l'occasione di tali dichiarazioni.
Il giudice di legittimità può soltanto controllare che le valutazioni del giudice di merito siano sorrette da adeguata e logica motivazione, nel rispetto dei criteri sopra individuati.
Le Sezioni Unite concludono la loro analisi segnalando come occorrerà accertare, attraverso una puntuale interpretazione dell'articolo, se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, che agisce contro il diffamato, poichè in quest'ultimo caso dovrà trovare applicazione la normativa sul concorso delle persone nel reato.
Pertanto, se l'aver riportato "alla lettera" nel testo dell'intervista le dichiarazioni del soggetto intervistato, qualora esse abbiano oggettivamente contenuto ingiurioso o diffamatorio, non integra di per sè la scriminante del diritto di cronaca, tuttavia il giornalista che assuma una posizione imparziale può essere scriminato in forza dell'esercizio del diritto di cronaca quando il fatto "in sè" dell'intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell'intervista presenti profili di interesse pubblico all'informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo.
Il richiamo delle Sezioni Unite alla conclamata notorietà e competenza, peraltro, come dimostra la fattispecie decisa dal massimo collegio nomofilattico, è anch'esso da leggersi nel contesto complessivo di accadimento dei fatti.
La sentenza Galiero, infatti, non ha mancato di sottolineare che esiste una scala di valori, in relazione alla notorietà del personaggio le cui dichiarazioni possono assumere un indubbio interesse sociale ad essere divulgate; scala di valori che, tuttavia, va contestualizzata: di essa fanno parte non soltanto alte cariche istituzionali, leader di partito, uomini politici che possono avere seguito ed influenza sull'opinione pubblica, ma anche esponenti di altri ambiti, quali la scienza, la medicina, la cultura in generale, lo spettacolo.
E si deve tener conto non soltanto di contesti rilevanti, afferenti ad ambiti nazionali o internazionali, ma anche di vicende locali o settoriali.
Orbene, se questi sono gli approdi fondamentali sul tema, mai contraddetti dalla giurisprudenza successiva, ma soltanto specificati in relazione alle fattispecie concrete di volta in volta analizzate, il Collegio ritiene che tali approdi debbano essere ulteriormente esplorati continuando nella ricerca di parametri interpretativi utili a stabilire il ruolo dell'intervistatore nella "resa" delle dichiarazioni dell'intervistato risultate diffamatorie.
Rispetto alla fattispecie in esame, si evidenzia come non possa assumere rilievo l'argomento difensivo dato dal fatto che l'intervistato non abbia specifiche competenze "professionali" sul tema oggetto dei contenuti ritenuti diffamatori dell'intervista, qualora egli abbia avuto un vissuto doloroso e patologico che l'ha costretto ad impattare con il problema intorno a cui ruotano le dichiarazioni lesive dell'onore altrui: nel caso della P.L., si tratta del mondo degli psicofarmaci, dei quali ella, pertanto, legittimamente poteva rappresentare le controindicazioni, del resto non negate neppure dalla parte civile e ricostruibili come fatto notorio.
Se si coglie nella valenza espressiva delle parole utilizzate dalla persona intervistata, la volontà di esercitare un proprio, legittimo diritto di critica sull'uso degli psicofarmaci ai quali era stata sottoposta e che riteneva le fossero stati somministrati impropriamente, allora sì che, oltre al diritto di cronaca giornalistica ed all'operatività della scriminante ex art. 51 c.p., viene in gioco, come affermato dal primo giudice, quanto meno la mancanza di prova dell'elemento volitivo diffamatorio in capo agli imputati.
Questi ultimi hanno sostanzialmente "ospitato", nella pubblicazione periodica "Vero", le dichiarazioni di un soggetto al quale sicuramente può essere ricollegato un interesse pubblico ad intervenire nel dibattito su di un tema senza dubbio avvertito come rilevante a livello sociale: l'interesse al dibattito pubblico non può essere appannaggio solo di "esperti tecnici" o di celebrità del relativo mondo professionale ma deve e può avvalersi anche del contributo dei pazienti (che, peraltro, come è accaduto nel caso di specie, rivestano un ruolo di particolare notorietà socio-mediatica, tale da "coprire" sicuramente il requisito dell'interesse pubblico alla notizia anche dal punto di vista soggettivo).
3.3. Deve ribadirsi, pertanto, coerentemente alla pronuncia delle Sezioni Unite Galiero, il principio secondo cui l'intervistatore, nella qualità di "diffusore mediatico" delle dichiarazioni di contenuto ingiurioso o diffamatorio, non può ritenersi responsabile del contenuto di queste, qualora esse siano riportate fedelmente in un'intervista condotta in modo imparziale, senza commenti e chiose capziose tali da far sì che egli diventi dissimulato coautore, sempre che il fatto "in sè" dell'intervista presenti profili di interesse pubblico all'informazione, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell'intervista, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo.
Con la precisazione - che rivela la peculiarità dell'analisi concreta delle differenti e molteplici fattispecie che offre la realtà, richiesta anche dalle Sezioni Unite Galiero secondo cui le qualità personali dell'intervistato non possono discriminare chi non abbia specifiche competenze "professionali" sul tema oggetto dei contenuti ritenuti diffamatori dell'intervista, qualora egli abbia avuto un vissuto doloroso e patologico che l'ha costretto ad impattare ed a confrontarsi, in concreto e direttamente, con il problema intorno a cui ruotano le dichiarazioni lesive dell'onore altrui.
Nel caso delle dichiarazioni rese da P.L.V., l'oggetto centrale della porzione di esse riconosciuta diffamatoria in altro procedimento a suo carico ha riguardato il mondo degli psicofarmaci, inteso come realtà del loro utilizzo terapeutico concreto e delle ricadute di tale utilizzo, argomenti dei quali ella legittimamente ha inteso rappresentare in pubblico le controindicazioni, del resto non negate neppure dalla parte civile e ricostruibili come fatto notorio, per averle vissute in prima persona con un'esperienza pesante e drammatica dal punto di vista delle conseguenze patologiche che ha denunciato di aver subito per il loro uso.
Su tali contenuti, l'intervistatore ha adeguatamente mantenuto una posizione di terzietà, purtuttavia legittimamente ritenendo di doverne dare contezza al pubblico dei lettori, trattandosi di esperienza direttamente vissuta dall'intervistata e raccontata da costei in maniera meramente narrativa e riepilogativa dal punto di vista delle conseguenze patite, salva la notazione di dispregio generalizzata per il personale della casa di cura Le Betulle, tutta ascrivibile, però, in tale contesto, alla responsabilità dell'intervistata.
Recentemente, peraltro, non si è mancato di ribadire - in una fattispecie tuttavia che presenta solo alcuni punti di analogia con quella dell'intervista diffamatoria - che, ai fini della responsabilità del giornalista per un articolo che riproduce il contenuto diffamatorio di un manifesto pubblico con finalità di critica politica (nella specie, avverso l'operato di un senatore), occorre accertare se egli, nel riportare la notizia, si sia posto con la prospettiva di "terzo osservatore" dei fatti, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, che agisca contro il diffamato. (Sez. 5, n. 29209 del 12/3/2018, Blasotta, Rv. 273172).
4. Il terzo motivo dedotto, infine, implica una rivalutazione di fatto delle affermazioni delle sentenze di merito sottratta al sindacato di legittimità: il confronto richiesto dalla difesa tra i contenuti del libro e quelli dell'intervista è operazione tipicamente riservata al giudizio sul fatto, che spetta unicamente al giudice dei gradi di merito.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile nei confronti di T.M.L. per morte dello stesso. Rigetta il medesimo ricorso nei confronti di U.D. e condanna la parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2020