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Diffamazione: il contenuto allusivo rileva solo se immediatamente percepibile secondo l'uomo medio


Corte di Cassazione

La massima

In tema di diffamazione, il contenuto allusivo e insinuante di uno scritto o di una frase pronunciata non assume rilevanza penale nel caso in cui non sia immediatamente e inequivocabilmente percepibile secondo parametri di comune comprensione, ancorati al registro di verifica dell'uomo medio. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso che l'espressione "I tempi d'oro sono finiti… vi ricordo che i vertici della Procura sono cambiati!!!", pubblicata su "Facebook" e diretta all'amministrazione locale, fosse offensiva nei confronti del vertice dell'ufficio giudiziario - Cassazione penale sez. V - 09/11/2022, n. 1365).

Fonte: CED Cass. pen. 2023



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La sentenza integrale

Cassazione penale sez. V - 09/11/2022, n. 1365

RITENUTO IN FATTO

1. Viene in esame la sentenza della Corte d'Appello di Caltanissetta che, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha concesso a S.V.G. il beneficio della non menzione ed ha confermato nel resto la pronuncia del Tribunale di Caltanissetta datata 14.6.2020.


L'imputato è stato condannato alla pena di 1000 Euro di multa per il reato di diffamazione, oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile, P.V., magistrato, già Procuratore della Repubblica di (Omissis), offeso con un commento ad un link postato sul profilo facebook "(Omissis)", riferito all'imputato, e che rimandava ad un articolo di stampa, accompagnandolo con un post che aveva titolo e contenuti giudicati lesivi dell'onore della persona offesa.


In particolare, il post (con la frase "i tempi d'oro sono finiti...vi ricordo che i vertici della Procura sono cambiati") è stato ritenuto allusivo di una scarsa o assente attenzione dei vertici della Procura, precedentemente incaricati di dirigere l'ufficio, alle vicende dell'amministrazione comunale di Sciacca, mettendoli in paragone con quelli in servizio al momento della pubblicazione su facebook.


2. Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso l'imputato, tramite il difensore di fiducia, articolando quattro diversi motivi di censura.


2.1. Il primo ed il secondo argomento difensivo eccepiscono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'individuazione del ricorrente come l'autore del post pubblicato sul profilo facebook di pubblicazione, solo perché detto "account" era riconducibile a lui nominativamente e per alcune caratteristiche che non sono state neppure meglio specificate. La difesa ritiene che tali elementi non integrino la gravità indiziaria necessaria all'affermazione di colpevolezza, poiché non è stato svolto l'accertamento indispensabile sul fruitore reale dell'indirizzo IP da cui è partito il post ritenuto diffamatorio.


2.2. Il terzo motivo di ricorso eccepisce che i contenuti del post non siano oggettivamente diffamatori nei confronti del Dott. P., il quale, peraltro, non è destinatario neppure formalmente di esso, indirizzato, invece, alla classe dirigente del Comune di (Omissis) e tratto da un blog online dell'associazione L'Acquario, da cui è stato "riportato" sul profilo facebook dell'imputato.


2.3. Il quarto argomento difensivo deduce l'inoffensività del commento postato, rispetto ad un articolo di blog che non aveva alcun contenuto diffamatorio nei confronti della persona offesa, secondo il criterio valutativo del "lettore medio", che avrebbe potuto facilmente avvedersi che l'articolo commentato con il post incriminato non aveva alcuna attinenza con la persona offesa, ma serviva soltanto a provocare "like" (e cioè reazioni di consenso).


3. Il PG Andrea Venegoni ha chiesto l'inammissibilità o l'infondatezza del ricorso con requisitoria scritta ed in udienza ha concluso per il rigetto del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, quanto al terzo ed al quarto motivo, per le ragioni che si indicheranno di seguito.


2. Il primo ed il secondo motivo di censura sono privi di pregio e, in parte, inammissibili. La sentenza impugnata ha ricondotto in maniera del tutto logica all'imputato la paternità del "post" giudicato diffamatorio dalle sentenze di merito, né si ravvisano aporie argomentative o violazioni di norme attinenti alla valutazione delle prove, che abbiano inficiato il risultato cognitivo cui sono pervenuti i giudici d'appello.


L'attribuzione dello scritto al ricorrente è basata sulla constatata intestazione a lui stesso del profilo "facebook" su cui il "post" è stato pubblicato, mentre rimane nell'ambito di un'ipotesi assertiva e del tutto inverosimile, oltre che inespressa specificamente dalla difesa, la possibilità che terzi estranei abbiano utilizzato il profilo senza il consenso dell'imputato ovvero abbiano aperto un profilo a suo nome: il ricorrente si limita a mettere in dubbio la bontà dell'accertamento che riconduce a lui il "post", solo indicandone l'insufficienza e la necessità di un accertamento informatico sull'indirizzo IP, eventualità non indispensabile ma gestibile secondo la necessità ed i principi di gravità indiziaria - ai sensi dell'art. 192 c.p.p. - e del libero convincimento del giudice; neppure esistono rigidità acquisitive della prova, tanto che anche uno screenshot della traccia informatica può considerarsi utilizzabile (cfr. Sez. 5, n. 12062 del 5/2/2021, Di Calogero, Rv. 280758; nonché, in un'altra fattispecie, Sez. 5, n. 2658 del 6/10/2021, dep. 2022, M., Rv. 282771).


3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono fondati, poiché il messaggio postato non mostra contenuti diffamatori, già ad una prima, immediata disamina.


Il Collegio si richiama, infatti, al principio consolidato di questa Corte regolatrice, secondo cui il giudice di legittimità può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché rientra nel suo sindacato procedere, anzitutto, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (così, tra le molte, Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, Fabi, dep. 2020, Rv. 278145; Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv. 233749).


Ebbene, il senso del messaggio "postato" non ha un contenuto di attacco diretto e immediatamente comprensibile all'operato ed alla onorabilità dell'ufficio di Procura della Repubblica di (Omissis) e del suo precedente dirigente, il Dott. P., persona offesa dal reato.


Il testo fa riferimento, nel titolo già evocato in precedenza, all'amministrazione comunale di (Omissis) e così pure il contenuto dell'articolo cui il post-messaggio si riferiva; amministrazione comunale, che, dunque, si rivela il bersaglio univoco dell'attacco critico dell'autore del post.


Nell'ambito dello scritto "postato", poi, la frase "i tempi d'oro sono finiti...vi ricordo che i vertici della Procura sono cambiati", è stata ritenuta, con un troppo ampio salto logico, allusiva di una scarsa o assente attenzione dei vertici della Procura, precedentemente incaricati di dirigere l'ufficio, alle vicende dell'amministrazione comunale di (Omissis). Si è ritenuto, infatti, un implicito paragone negativo con la dirigenza in servizio al momento della pubblicazione su facebook, ma tale conclusione, per quanto rientrante nel novero di quelle possibili, ha valorizzato eccessivamente detta allusione, considerata diffamatoria al di là del suo significato diretto e comprensibile: accompagnare le accuse di gestione non oculata delle finanze pubbliche da parte dell'amministrazione comunale della cittadina siciliana all'avvertimento relativo al mutato vertice della Procura, pur costituendo un'evocativa insinuazione, infatti, non realizza una figura narrativa diffamatoria, poiché non si registra una carica offensiva percepibile in tale affermazione; né può sostenersi che, con tale frase, l'autore abbia voluto ipotizzare che eventuali cattive gestioni della macchina comunale sarebbero state perseguite dai nuovi vertici, contrariamente a quanto avrebbero fatto i precedenti.


A ragionare diversamente, la scure della rilevanza penale ai sensi dell'art. 595 c.p. si leverebbe a reprimere le intenzioni possibili e sottostanti a frasi pronunciate o scritte e non, come dovrebbe, l'esternazione materiale percepibile del pensiero concretamente realizzatasi.


In altre parole, in tema di diffamazione, il contenuto allusivo ed insinuante di uno scritto o di una frase pronunciata non può assumere rilevanza penale quando non sia immediatamente ed inequivocamente percepibile secondo parametri di comune comprensione, ancorati al registro di verifica dell'uomo medio.


Del resto, anche sotto il diverso profilo dell'esercizio del diritto di critica rispetto a frasi oggettivamente inquadrabili nel reato di diffamazione, la Cassazione ha avuto modo di valorizzare sia la contestualizzazione di espressioni giudicate inizialmente diffamatorie, riportandole nell'alveo della liceità secondo parametri di uso comune del criterio di continenza espressivo (cfr. Sez. 5, n. 37397 del 24/6/2016, C., Rv. 267866); sia la peculiare possibilità di esercitare il diritto di critica nei riguardi del lavoro giudiziario (e dei magistrati) nel modo più ampio possibile, in ragione della necessità di assicurare un efficace strumento di controllo democratico dell'esercizio di una rilevante attività istituzionale (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 19960 del 30/1/2019, Giorgetti, Rv. 276891; Sez. 5, n. 45249 del 25/10/2021, Longo, Rv. 282379, in motivazione).


Alla luce di tali coordinate interpretative complessivamente considerate, pertanto, le frasi oggetto del post diffamatorio in contestazione devono ritenersi prive di rilevanza penale, non raggiungendo la soglia di tipicità oggettiva richiesta dall'art. 595 c.p..


3.1. Non e', altresì, di minor rilievo, ed anzi riveste un'indubbia valenza di sostegno alla non configurabilità del reato nella fattispecie in esame, segnalare come la figura della persona offesa P.V., magistrato, già Procuratore della Repubblica di (Omissis), non venga mai citata direttamente nello scritto ritenuto diffamatorio dai giudici di merito, sicché risulta problematico anche arguire della riferibilità a costui delle considerazioni attribuite al post dell'imputato; considerazioni che, come si è già evidenziato ed è opportuno ribadire, non contengono neppure una connotazione negativa immediatamente leggibile, ma si risolvono in una insinuazione relativa ad una presunta connivenza della Procura di (Omissis), impersonalmente evocata, in un determinato momento storico, rispetto a possibili, non meglio identificate irregolarità di gestione dell'amministrazione comunale, frutto di una lettura eccessivamente estesa dei contenuti solo in ipotesi prospettabili dello scritto al centro dell'imputazione.


Sul tema della necessaria individuabilità della persona offesa dalle frasi ritenute diffamatorie, la Cassazione ha già chiarito come il reato di diffamazione sia costituito dall'offesa alla reputazione di una persona determinata e non possa essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili (Sez. 5, n. 24065 del 23/02/2016, Toscani, Rv. 266861; Sez. 5, n. 3809 del 28/11/2017, Ranieri, Rv. 272320).


Se è corretto, dunque, affermare che non osta all'integrazione del reato di diffamazione l'assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell'offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, e i riferimenti personali e temporali (Sez. 6, n. 2598 del 6/12/2021, dep. 2022, F., Rv. 282679), è altrettanto innegabile che detti elementi devono condurre all'inequivoca riferibilità della frase diffamatoria ad un soggetto determinato ed individuabile, senza salti logici che elevino il coefficiente di libera interpretazione del giudice.


Nel caso di specie, l'individuabilità del soggetto al centro dell'attacco critico non è inequivocabilmente leggibile.


4. Alla luce delle osservazioni sin qui svolte, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste, con conseguente revoca delle statuizioni civili già disposte.


P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Revoca le statuizioni civili.


Così deciso in Roma, il 9 novembre 2022.


Depositato in Cancelleria, il 16 gennaio 2023

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