La massima
In tema di diffamazione, nel caso di "offesa alla memoria del defunto", i prossimi congiunti e gli altri soggetti indicati dall'art. 597, comma 3, c.p. sono legittimati "iure proprio" ad esercitare il diritto di querela, quali soggetti passivi dell'offesa. (In motivazione la Corte ha precisato che, in tale ipotesi, non occorre che i querelanti manifestino espressamente la volontà di tutelare la memoria del loro congiunto, essendo sufficiente che espongano l'accadimento storico ritenuto lesivo -Cassazione penale sez. V - 24/06/2021, n. 31530).
Fonte: CED Cass. pen. 2021
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La sentenza integrale
Cassazione penale sez. V - 24/06/2021, n. 31530
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Cagliari ha confermato, anche agli effetti civili, la condanna di M.A. per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, commesso ai danni di P.G.M., P.D., A.M. e A.V. con l'articolo a sua firma pubblicato sul quotidiano "(OMISSIS)" il (OMISSIS). La medesima Corte ha prosciolto il direttore responsabile del quotidiano, B.M., dal reato di cui alla L. n. 47 del 1958, art. 57, perché estinto per prescrizione, confermandone, però, la responsabilità civile, ai sensi dell'art. 578 c.p.p..
Secondo l'editto accusatorio, l'offesa alla reputazione dei querelanti riposava sul fatto che l'articolo, intitolato: "Il clan che flirtava con Prima Linea lo appoggia ancora", era strutturato "in modo tale da evocare, intorno alla figura dell'attuale sindaco di (OMISSIS) ( P.G.) all'epoca in campagna elettorale, la presenza e il sostegno di soggetti qualificati come "clan" - espressamente individuati nel testo dell'articolo nei componenti dei nuclei familiari A.- P. ed accostati al richiamo della storia degli anni di piombo e delle vicende del gruppo "Prima Linea", così insinuando illegittimamente l'esistenza di un legame tra le persone offese e un noto gruppo di matrice terroristica, quale appunto "(OMISSIS)". Proseguiva inoltre, dopo un'apertura in connotazione volutamente dubitativa in ordine alle ragioni dell'assoluzione di P. ( G.) dall'accusa di furto nel processo celebrato a suo carico nel 1985, nell'elencazione di una serie di dati in ordine a P.G.M., P.D., A.M. e A.V., legati a vario titolo di parentela all'attuale sindaco di Milano, strutturati con una connotazione chiaramente suggestiva, tale da non potere essere considerata rispettosa dei limiti del diritto di cronaca nella misura in cui, in particolare, faceva riferimento ai "misteri dell'antica e attuale militanza del candidato sindaco di (OMISSIS)" proseguendo in chiusura articolo ad ipotizzare scenari assolutamente non storicizzati in maniera puntuale in ordine alle ragioni del suicidio del fratello di P.G., insinuando ancora una volta, in maniera suggestiva, l'omessa effettuazione delle dovute indagini per non danneggiare la figura del candidato sindaco".
2. Avverso detta pronuncia ricorrono gli imputati, con un unico atto a firma del comune difensore, articolando due motivi.
2.1. Con il primo denunciano, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), la mancata risposta sulla eccezione, sollevata con l'atto di appello, di violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ex art. 521 c.p.p., nonché, sulla violazione di legge in relazione agli artt. 57,595 e 597 c.p., per inosservanza delle norme processuali di cui agli artt. 336,521 e 597 c.p.p..
2.1.1. In sede di gravame gli imputati si erano doluti:
- del fatto che la sentenza di primo grado aveva modificato il fatto contestato, sia laddove il Tribunale aveva ritenuto sussistente un allusivo collegamento tra i querelanti e l'organizzazione terroristica "(OMISSIS)" sulla scorta di passaggi e riferimenti dell'articolo estranei a quanto descritto nel capo di imputazione, sia laddove, limitatamente alla notizia del suicidio di P.G., ha fondato la condanna sulla lesione di un bene giuridico diverso da quello considerato leso dall'accusa formulata a carico degli imputati ai quali veniva rimproverato di aver riportato la notizia "insinuando ancora una volta, in maniera suggestiva, l'omessa effettuazione delle dovute indagini per non danneggiare la figura del candidato sindaco";
- della circostanza che il Tribunale aveva ritenuto sussistente la condizione di procedibilità indispensabile per procedere all'accertamento dell'eventuale lesione della memoria di P.G..
Secondo i ricorrenti la sentenza impugnata, per un verso, ignorerebbe i punti devoluti, incorrendo nel vizio di omessa motivazione, e, per altro verso, realizzerebbe una ulteriore "dilatazione" dell'imputazione, radicando l'offensività dell'articolo a elementi mai contestati né mai sottoposti alla cognizione del giudice di secondo grado.
2.1.2. In particolare la Corte di appello ha ritenuto che l'accostamento delle parti civili a "(OMISSIS)" provenisse dal collegamento al termine "clan" utilizzato vuoi nel corpo dell'articolo per identificare la famiglia P.- A. vuoi nel sottotitolo ("Il clan che flirtava con (OMISSIS) lo appoggia ancora").
Tuttavia il termine clan era stato giudicato inoffensivo dal Tribunale e il punto non ha formato oggetto di impugnazione; dunque si è verificata una violazione del divieto di reformatio in peius.
Inoltre la lettura offerta dalla Corte di appello è errata perché il termine clan impiegato nel sottotitolo non poteva considerarsi riferito ai querelanti, né la responsabilità dell'eventuale accostamento poteva attribuirsi al M., dato che il "clan" del sottotitolo non è altro che la "compagnia di amici" citata nel titolo dell'articolo che non si riferisce ai familiari di P.G..
2.1.3. Circa la notizia del suicidio di Pi.Gi., la Corte di appello ha ritenuto sussistente la condizione di procedibilità, confondendo la querela con un'istanza rivolta ad ottenere la tutela della memoria del defunto; mentre dal tenore della querela presentata dalle parti civili emergerebbero solo riferimenti legati alla lesione diretta della loro personale reputazione.
Peraltro il capo di imputazione era privo di riferimenti associati al dato storico del suicidio, poiché poneva l'accento unicamente sulla offesa insita nella parte in cui l'articolo adombrava che le lacunose attività investigative conseguenti al suicidio fossero preordinate a non intralciare l'ascesa politica di P.G..
Del resto l'art. 336 c.p.p. impone che l'imputazione venga compendiata nei fatti individuati dagli estensori della querela; mentre restano irrilevanti le circostanze riferite in dibattimento dalle persone offese, postume rispetto alla presentazione dell'istanza di punizione e ininfluenti ai fini della definizione di ciò che avrebbe potuto costituire oggetto di un valido accertamento da parte del giudice.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al riconoscimento della recidiva aggravata nei confronti di M.A..
3. La parte civile ha depositato una memoria con la quale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Agli effetti penali deve essere rilevata l'estinzione per prescrizione del reato ascritto a M.A. (l'estinzione del reato addebitato a B.M. è già stata dichiarata in sede di appello).
Per il resto i ricorsi sono infondati.
2. Giova premettere un inquadramento della vicenda sulla scorta della attenta ricostruzione offerta dai giudici di merito.
2.1. Il processo trae origine dalla querela sporta da P.G.M., P.D., A.M. e A.V. (odierne parti civili) nei confronti di M.A. e B.M. per un articolo, a firma del primo, apparso il (OMISSIS) sul quotidiano "(OMISSIS)", diretto dal secondo.
Il Pubblico ministero ha esercitato l'azione penale chiamando M.A. e B.M. a rispondere, rispettivamente, dei reati di diffamazione a mezzo stampa e di omesso controllo ex L. n. 47 del 1958, art. 57, elaborando il capo di imputazione trascritto sopra nel "ritenuto in fatto".
2.2. All'esito del giudizio di primo grado gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli dei reati loro ascritti e sono stati condannati al risarcimento del danno in favore delle parti civili.
La sentenza del Tribunale di Cagliari esordisce con un'analisi del contesto di riferimento, per poi concentrarsi su due punti centrali (trascurando, dichiaratamente, il termine "clan" "che, fuori da disquisizioni linguistiche, può essere fastidioso, ma non lesivo della reputazione dei querelanti" (pag. 2 sentenza di primo grado):
- l'accostamento della famiglia P.- A. (e quindi dei suoi componenti) all'organizzazione terroristica (OMISSIS);
- la rievocazione della morte di Pi.Gi., fratello dei querelanti P.G.M. e P.D., e delle teorie del complotto che sarebbero circolate, all'epoca, negli ambienti dell'estrema sinistra.
La motivazione si conclude con l'esame della posizione del direttore responsabile.
2.2.1. Sul contesto di riferimento.
Il Tribunale ricorda che l'articolo in contestazione fu pubblicato nella terza pagina del quotidiano e rientrò nell'ambito della campagna promossa da "(OMISSIS)" contro l'avvocato P.G., facendo eco a un'accusa formulata da M.L. all'esito di un confronto televisivo; all'epoca G. P. era in lizza, proprio con M.L., per ricoprire la carica di sindaco del Comune di Milano.
La prima pagina del quotidiano "(OMISSIS)", distribuito il (OMISSIS), si apre con un titolo a caratteri cubitali "(OMISSIS)"; la seconda pagina è occupata da due articoli sugli avvenimenti posti in risalto da M.L.; la terza pagina è composta dall'articolo anticipato nella prima pagina ("(OMISSIS)") e da quello a firma di M.A. oggetto di addebito.
L'articolo di M. - introdotto da un occhiello "(OMISSIS)", da un titolo "(OMISSIS) P.", cui segue il sommario "Il clan che flirtava con (OMISSIS) lo appoggia ancora" - si apre citando la vicenda processuale evocata da M.L. nel corso del dibattito televisivo.
P.G. era stato sottoposto a processo penale per aver concorso, con B.M. e altri terroristi, nel furto di un furgone, commesso il (OMISSIS), preordinato al sequestro di S.W., capo del servizio d'ordine del "(OMISSIS)".
All'esito del giudizio di primo grado, P.G. aveva beneficiato dell'amnistia, mentre la Corte di Assise di appello aveva assolto l'imputato con formula piena.
P.G. aveva un alibi: il giorno della riunione operativa finalizzata alla commissione del reato si trovava a (OMISSIS) perché ammalato, la circostanza era acclarata dal certificato medico rilasciato dal dottor A.C.A., zio di G. P. (e dei querelanti P.G.M. e P.D., fratelli di G.), nonché padre dei querelanti A.M. e A.V..
2.2.2. Sull'accostamento tra la famiglia P.- A. e (OMISSIS).
Il Tribunale formula le osservazioni di seguito sintetizzate, anche riportando alcuni brani della motivazione.
L'articolo prende le mosse da tale premessa per effettuare un "ardito passaggio" del seguente tenore: "il buen retiro di Santa e il clan A.- P. sono cardini attorno ai quali si possono approfondire, se non svelare, quasi tutti i misteri dell'attuale e antica militanza del candidato sindaco di Milano".
Dopo alcuni riferimenti al contesto familiare - piuttosto imprecisi - che menzionano espressamente i nominativi dei querelanti A.V. e A.M., l'articolo prosegue affermando che: "l'ambientazione di questo spezzone di storia degli anni di piombo ruota intorno a sei appartamenti per sei fratelli, figli dell'avvocato P.G., dotati di numerosi garage sotto i quali correva un'intercapedine, ora inspiegabilmente murata, sulle cui pareti ci si poteva liberamente esprimere a favore della dittatura del proletariato. E' in (OMISSIS), non solo durante l'estate ma soprattutto quando l'aria a Milano si faceva irrespirabile per gli scontri tra fazioni e le retate della polizia, che ci si rifugiava per discutere e gettare le basi del collettivo milanese di via (OMISSIS)".
L'articolo torna, poi, sul tema iniziale non solo insinuando un dubbio sulla innocenza di P.G., ma chiamando in causa una responsabilità collettiva dei suoi "cugini, amici e compagni": "Difficile distinguere tra cugini, amici e compagni, in quelle circostanze. Non si può più nemmeno stabilire con precisione se l'idea di infliggere una punizione esemplare a S. fosse davvero un'idea nata dagli ambienti della sinistra extraparlamentare contigui a (OMISSIS), come indicano le carte processuali, o fosse invece motivata dal durissimo pestaggio avvenuto ai danni di un ex paracadutista, amico fraterno - benché fosse di destra - di P.G. e del cugino T.M.".
Il contenuto diffamatorio viene individuato nel fatto che l'articolo:
- crea un legame tra il progetto terroristico del furto del furgone, da un lato, e (OMISSIS) e la famiglia A.- P., dall'altro, instillando nel lettore l'idea che attorno a quella località e a quelle persone ruotassero "i misteri" dell'antica e attuale militanza di G. P.. Giocando sugli equivoci, si stabilisce una linea di continuità tra la militanza politica di P.G. e dei suoi familiari (tra i quali vengono espressamente nominati A.M. e A.V.) e la prossimità alla organizzazione terroristica di (OMISSIS);
- alimenta l'equivoco, insistendo sulla ambientazione di "questo spezzone di storia degli anni di piombo" nei "sei appartamenti per sei fratelli, figli dell'avvocato P.G. (due dei figli sono i querelanti G.M. e P.D.) dotati di numerosi garage sotto i quali correva un'intercapedine, ora inspiegabilmente murata".
Si tratta di notizie, di elevata valenza diffamatoria, che non corrispondono a verità - non solo quanto all'allusivo accostamento del "clan A.- P." alla spietata organizzazione terroristica (OMISSIS) ma anche quanto a basilari dati di fatto afferenti allo stato dei luoghi (l'appartamento della famiglia P. a (OMISSIS) è solo uno, unico il garage, privo di intercapedini) - sulle quali il giornalista non ha svolto alcun serio accertamento, come il suo esame dibattimentale ha consentito di appurare.
2.2.3. Sul suicidio di P.G..
Il Tribunale osserva che, nella seconda parte dell'articolo, il giornalista evidenzia la presenza, nelle liste elettorali a sostegno della candidatura di P.G., di una serie di "amici del mare" per poi concludere: "E' una gara di solidarietà cementata anche da un lutto, il suicidio del più piccolo dei fratelli P., G., trovato morto a ventisette anni sulla scogliera tra Paraggi e Portofino, agli inizi degli anni 1980. Perché il giovane era andato proprio là a spararsi? Probabilmente aveva problemi di droga, ma negli ambienti dell'ultrasinistra, a quei tempi stregati dal mito della lotta armata, si fantasticò addirittura a proposito di un complotto internazionale. Uscirono ipotesi assurde, come la consegna di un carico di armi ai palestinesi, sventata da un blitz israeliano. Nulla però che meritasse un approfondimento di indagine. Perché non ci possono essere scheletri nell'armadio di P.G.".
Secondo il giudizio del Tribunale questa parte dell'articolo deve ritenersi lesivo della memoria del defunto Pi.Gi., morto suicida nel 1982, poco più che ventennne; la diffamazione riguarda solo G.M. e P.D., fratelli di G., legittimati a proporre querela ex art. 593 c.p., comma 3 in combinazione con l'art. 307 c.p., comma 4.
Il Tribunale osserva che la documentazione versata in atti dalla parte civile ha dimostrato che Pi.Gi. era affetto da una grave forma di depressione e che sulle cause del decesso furono condotte indagini che, anche attraverso una consulenza medico-legale, accertarono che si trattò di suicidio: le mani presentavano tracce di sostanze chimiche compatibili con lo sparo e le macchie di sangue tipiche di quel tipo di azione suicida.
E' dunque falsa sia l'affermazione che il ragazzo "probabilmente aveva problemi di droga" sia la doglianza sul mancato espletamento di "approfondimenti di indagine".
Inoltre difettava un interesse pubblico alla diffusione della notizia sotto un duplice profilo:
- "in termini astratti, non vi è un interesse pubblico a riportare pettegolezzi incontrollati e non verificabili, quando abbiano un contenuto lesivo della reputazione altrui, perché la sola pubblicazione contribuisce ad amplificare la lesione";
- "nel concreto (il giornalista), pur essendo cosciente che si trattava di storie "assurde" (lo scrisse testualmente) sostanzialmente insinuò - senza alcuna verifica sugli atti giudiziari - che le indagini fossero state insabbiate per tutelare P.G., forse nella prospettiva che questi, trent'anni dopo, si potesse candidare come sindaco di Milano (...). In altri termini l'unica giustificazione alla pubblicazione della "notizia - se così si può definire la diffusione di una vox populi incontrollata e vagamente paranoide - era quella di insinuare ulteriori dubbi sul passato di P.G., non certo un interesse pubblico che possa giustificare che si infanghi la memoria di un ragazzo malato, morto a 21 anni in circostanze tragiche" (pag. 8 sentenza di primo grado).
2.2.4. Sulla posizione del direttore responsabile.
Il Tribunale ritiene provata la responsabilità colposa del direttore responsabile, B.M., in ordine al reato di omesso controllo sul contenuto della pubblicazione.
Ravvisa univoci indicatori di colpa: si tratta di articolo riportato con enorme evidenza sul quotidiano che non poteva sfuggire a una persona investita del ruolo di responsabile e che rientrava in una campagna giornalistica condotta dal quotidiano stesso; lo scritto non indicava alcuna fonte e la portata diffamatoria è immediatamente percepibile; nel corso del suo esame M.A. ha affermato "in termini netti" che l'articolo era stato in precedenza discusso e condiviso con una serie di figure interne al giornale, tra cui il direttore.
2.3. In secondo grado è stata confermata la responsabilità degli imputati, limitata, quella di B., agli effetti civili, in ragione del decorso termine prescrizionale del reato.
La Corte di appello ha recepito in toto le valutazioni del primo giudice, rilevando come la sentenza di primo grado sia: "fondata su un condivisibile ragionamento fattuale e giuridico (...) esente da censure" (pag. 29) e si limita a un discostamento circa la portata intrinsecamente offensiva che ritiene di dover attribuire al termine "clan" per come inserito e utilizzato nel contesto dell'articolo: esso, secondo la Corte di appello, "non ha nulla a che fare con l'innocua e antichissima origine gaelica della parola (...) esso assume il significato moderno di consorteria o sodalizio tipicamente criminale nell'accezione comune e amplissima delle associazioni per delinquere di stampo mafioso (...)" (pag. 30 sentenza impugnata).
3. Il primo motivo, comune ai due ricorrenti, e', nel complesso, infondato.
3.1. Anzitutto va osservato che le sentenze di primo e secondo grado, che si integrano a vicenda, sviluppano un costrutto argomentativo immune da vizi logici.
Non possono accedere al giudizio di legittimità tutti quegli argomenti, coltivati nei ricorsi, che sono diretti a sottoporre alla Corte di cassazione una rivalutazione del fatto.
Di seguito saranno esaminate soltanto le questioni idonee a varcare la soglia di ammissibilità.
3.2. Sempre in premessa merita osservare che è pacifica la portata diffamatoria dello scritto (anche) ai danni dei querelanti.
3.2.1. Come ritenuto dai giudici di merito, l'articolo in rassegna è congegnato attraverso espressioni ambigue, allusive, insinuanti, domande retoriche, che mescolano fatti disparati, riportati spesso in modo impreciso o parziale, sì da ingenerare nel lettore medio il convincimento che il passato del candidato sindaco P.G. fosse oscuro per legami con organizzazioni terroristiche, tanto che anche il progetto di sequestro di (non W.) S.W., forse non era un'idea maturata negli ambienti della sinistra extraparlamentare ma costituiva frutto di una vendetta privata da parte di P.G. e del cugino T.M..
A queste organizzazioni eversive e in particolare a (OMISSIS) - responsabile degli omicidi di magistrati, poliziotti, agenti di custodia, giornalisti, esponenti politici di destra -vengono accostati (in modo opaco nell'articolo e in modo espresso nel sommario) i familiari del politico (odierni querelanti), vale a dire i componenti del "clan A.- P." che, unitamente alla località di (OMISSIS), costituirebbe uno dei cardini attorno ai quali ruotano i misteri di quel passato oscuro "degli anni di piombo", tornato attuale.
Misteri alimentati dalla asserita esistenza di vari garage, di pertinenza dei sei figli di P.G., sotto i quali correva una intercapedine poi murata; misteri che si infittiscono quando il più giovane dei fratelli P., che probabilmente aveva problemi di droga, si suicida con un colpo di pistola, in circostanze mai realmente approfondite.
Si tratta di informazioni non rispondenti al vero che, per la parte qui in rilievo, coinvolgono soggetti privati, del tutto estranei alla contesa politica in atto in quel momento.
3.2.2. La decisione impugnata è conforme all'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui una notizia e una valutazione, di cui non risulti la corrispondenza al vero, anche se espresse in forma dubitativa e interrogativa, possono ledere l'altrui reputazione allorché le espressioni utilizzate nel contesto della comunicazione siano allusive, coinvolgenti, suggestive (Sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, dep. 2020, Parovel, Rv. 278318; Sez. 5, n. 41042 del 17/06/2014, Scancarello, Rv. 260772; Sez. 5, n. 37124 del 15/07/2008, De Luca, Rv. 242019; Sez. 5, n. 45910 del 04/10/2005, Fazzo, Rv. 233039).
3.2.3. La sentenza è rispettosa anche delle linee guida dettate dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, secondo cui la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l'art. 10 CEDU, a meno che non sia "prescritta dalla legge", non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10 par. 2 e non sia "necessaria in una società democratica".
Nel nostro ordinamento la restrizione alla libertà d'espressione è prescritta dalla legge e persegue lo scopo legittimo di proteggere la reputazione o i diritti dei terzi, nei termini di cui all'art. 10, paragrafo 2.
Quanto al requisito della "necessità" la Corte Edu evidenzia che: la libertà d'espressione è un caposaldo delle società democratiche e riguarda anche le manifestazioni offensive, sebbene sia soggetta ad alcune eccezioni, da individuarsi rigorosamente; l'aggettivo "necessario", di cui al paragrafo 2 dell'art. 10, implica l'esistenza di un pressante bisogno sociale, il cui apprezzamento è rimesso, entro certi limiti, agli Stati contraenti, spettando alla Corte di indicare i criteri di compatibilità delle restrizioni con i parametri di cui all'art. 10, paragrafo 2; le decisioni degli Stati Parti devono essere adottate in conformità a tali criteri, sotto il profilo della proporzionalità rispetto allo scopo perseguito e le motivazioni adottate dalle autorità nazionali devono essere adeguate e pertinenti (Handyside v. The United Kingdom, 7 dicembre 1976, Series A n. 24; Stoll v. Switzerland, (GC), n. 69698/01, p. 101, ECHR 2007-V, Pentikàinen v. Finland, (GC), n. 11882/10, p. 87, ECHR 2015, Be'dat v. Switzerland, (GC), n. 56925/08, p. 48, 29 marzo 2016; Balaskas v. Grecia, 5 novembre 2020).
I giudici nazionali devono operare un corretto bilanciamento dei diritti in gioco: la libertà d'espressione, da un lato, e il rispetto della vita privata sancito dall'art. 8, dall'altro.
Sotto il profilo della libertà di espressione occorre distinguere tra le affermazioni sui fatti e i giudizi di valore, atteso che, a differenza delle prime, la verità dei secondi non è suscettibile di prova. Tuttavia, anche nel caso in cui una affermazione si traduca in un giudizio di valore, deve esistere una base di fatto sufficiente per giustificarla, in mancanza della quale essa deve considerarsi eccessiva (cfr. Pedersen and Baadsgaard v. Denmark (GC), no. 49017/99, p. 76, ECHR 2004-XI; e, quanto alla Grecia, Mika v. Greece, n. 10347/10, p. 31, 19 dicembre 2013; Koutsoliontos e Pantazis v. Greece, n. 54608/09 e 54590/09, p. 40, 22 settembre 2015; Kapsis e Danikas v. Greece, no. 52137/12, p. 34, 19 gennaio 2017; Athanasios Makris v. Greece, n. 55135/10, p. 26, 9 marzo 2017; Paraskevopoulos v. Greece, n. 64184/11, p. 32, 28 giugno 2018).
Sul versante del rispetto della vita privata, tale diritto deve risultare seriamente in pericolo (cfr. Bedat, sopra citata, p. 72; Axel Springer AG v. Germany (GC), n. 39954/08, p. 83, 7 febbraio 2012; A. v. Norway, n. 28070/06, p. 64, 9 aprile 2009) e non può essere invocato allorché la lesione della reputazione del soggetto sia conseguenza prevedibile delle sue azioni, come ad esempio nell'ipotesi di commissione di un reato (cfr. Axel Springer AG, sopra citata, p. 83, e Sidabras e Djiautas v. Lithuania, n. 55480/00 e 59330/00, p. 49).
Il privato può rivendicare una più penetrante tutela del suo diritto alla vita privata rispetto alle personalità pubbliche (cfr. Minelli c. Svizzera, n. 14991/02, 14 giugno 2005, e Petrenco c. Moldova, n. 20928/05, p. 55, 30 marzo 2010), poiché il diritto alla privacy è strettamente correlato alle funzioni svolte dal soggetto.
Nel caso di specie, secondo quanto esposto dai giudici di merito, viene in rilievo un articolo di stampa privo di una base fattuale corrispondente a verità o, comunque, seriamente verificata, che lede gravemente il diritto fondamentale all'onore e alla reputazione delle persone offese, i quali sono privati che non hanno dato causa, in alcun modo, ai contenuti dell'articolo oggetto di censura.
3.3. Circa l'omessa risposta sulle questioni giuridiche coltivate in sede di gravame, va ricordato che l'error iuris esula dall'area delle patologie del provvedimento giudiziario riconducibili al vizio di motivazione: infatti, secondo una pacifica ricostruzione dell'assetto dei vizi deducibili con il ricorso per cassazione, il vizio di motivazione non è denunciabile con riferimento a questioni di diritto, poiché queste, se sono fondate e disattese dal giudice, motivatamente o meno, danno luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge, mentre, se sono infondate, il loro mancato esame non determina alcun vizio di legittimità della pronuncia (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027; Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoe', Rv. 268404; Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015, De Gennaro, Rv. 263326).
Ciò significa che l'omessa motivazione sulle questioni di diritto sollevate con l'atto di appello, e qui riproposte, non costituisce vizio della sentenza, dato che, come si vedrà, si tratta di questioni giuridicamente infondate.
3.4. Sul principio di corrispondenza tra accusa e sentenza.
I ricorrenti lamentano che i giudici di merito si siano pronunciati su profili di offensività non indicati nel capo di imputazione.
L'eccezione non è accoglibile.
3.4.1. Secondo ius receptum in tema di correlazione fra accusa e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non può esaurirsi nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter processuale, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U, n. 16 del 19 giugno 1996, Di Francesco, Rv. 205619; Sez. U, n. 36551 del 15 luglio 2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 31617 del 26 giugno 2015, Lucci, Rv. 264438).
Il principio generale è stato così declinato nel caso di reato di diffamazione: "il richiamo dell'imputazione all'intero testo dello scritto o dell'intervista ritenuti diffamatori, con la precisa indicazione degli estremi per la loro identificazione, comporta che l'addebito debba intendersi esteso al complessivo contenuto comunicativo, del quale non è richiesta l'integrale trascrizione, e non circoscritto alle espressioni riportate nella contestazione a titolo esemplificativo (Sez. 5, n. 34815 del 20/05/2019, Borghezio, Rv. 276776, che, in relazione a una fattispecie in tema di intervista radiofonica, ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna che aveva valorizzato espressioni ulteriori, rispetto a quelle estrapolate dal capo di imputazione).
Invero la precisa indicazione degli estremi per la identificazione dell'articolo è adempimento sufficiente per consentire all'imputato di conoscere i termini dell'accusa e apprestare le proprie difese.
3.4.2. Nella specie il capo di imputazione richiama l'intero testo dello scritto attribuito all'imputato (pur citandolo per brani); ciò comporta che l'addebito non debba essere circoscritto alle sole espressioni riportate nella contestazione, non essendo necessaria l'integrale trascrizione dell'articolo, dovendosi viceversa fare riferimento al complessivo contesto comunicativo elaborato dal giornalista (Sez. 5, n. 55796 del 27/09/2018, Ricci Antonio c/ Mauro Ezio, Rv. 274619).
3.5. Sul divieto di reformatio in peius.
I ricorrenti fanno rilevare che il termine "clan" era stato giudicato inoffensivo dal Tribunale e che il punto non ha formato oggetto di impugnazione; la Corte di appello, invece, ha assegnato valenza intrinsecamente diffamatoria al termine "clan", pronunciandosi su un punto che non aveva formato oggetto di devoluzione e incorrendo, quindi, nella violazione del divieto di reformatio in peius.
La doglianza non ha pregio.
3.5.1. Il c.d. "divieto di reformatio in peius" si muove su un piano ben distinto rispetto al principio devolutivo e alle relative preclusioni, che sembrano gli effettivi temi chiamati in causa dalla censura in esame.
3.5.2. Il c.d. divieto di reformatio in peius viene disciplinato dall'art. 597 c.p.p., commi 3 e 4.
Il comma 3 si occupa del caso in cui appellante sia il solo imputato, e prevede che "il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l'imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici (...)".
Il comma 4 impone una corrispondente diminuzione della pena complessiva nel caso di accoglimento dell'appello dell'imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti.
Il caso in esame esula da tali ipotesi.
3.5.3. Diverso principio è quello devolutivo, dettato (per il grado di appello) dall'art. 597 c.p.p., comma 1, in forza del quale "L'appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti".
Ricondotto nel suo corretto alveo, il ragionamento dei ricorrenti suona così: il "punto" della decisione di primo grado che aveva escluso l'offensività in sé della parola "clan", non è stato impugnato e dunque il giudice di appello non avrebbe potuto spingere la sua cognizione su di esso, come invece ha fatto.
In realtà quella parte della sentenza di primo grado non risponde alla nozione di "punto" della decisione.
Valgono al riguardo gli insegnamenti delle Sezioni Unite Tuzzolino (n. 1 del 19/01/2000) e Michaeler (n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007).
"Il concetto di "punto della decisione" (...) riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo, tenendo presente, però, che non costituiscono punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione".
"Ne consegue che ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti".
Sono punti della decisione: "l'accertamento del fatto, l'attribuzione di esso all'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e - nel caso di condanna - l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio".
"I punti della sentenza non sono (...) suscettibili di acquistare autonomamente autorità di giudicato, potendo essere oggetto unicamente della preclusione correlata all'effetto devolutivo delle impugnazioni (tantum devolutum quantum appellatum) ed al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, da cui consegue che -in mancanza di un motivo di impugnazione afferente una delle varie questioni la cui soluzione è necessaria per la completa definizione del rapporto processuale concernente un reato- il giudice non può spingere la sua cognizione sul relativo punto, a meno che la legge processuale non preveda poteri esercitabili ex officio".
Da tali principi deriva che: punto della decisione è l'accertamento del fatto (nella specie la sussistenza di un articolo, nel suo complesso, diffamatorio), non sono punto della decisione le argomentazioni svolte a sostegno di tale accertamento (anche il termine "clan", in aggiunta al resto, ha valenza intrinsecamente diffamatoria).
Il punto costituito dall'accertamento del fatto era stato devoluto al giudice di appello che su di esso si è legittimamente pronunciato, ampliando, sulla scorta di una motivazione logica e coerente, gli argomenti a sostegno della affermazione di responsabilità.
In sintesi viene in rilievo una integrazione correttiva della motivazione, certamente consentita, che rafforza la potenzialità diffamatoria dell'articolo, ma che, in ogni caso, non incide sull'esito della decisione: al di là del senso attribuito al termine "clan", i giudici di primo e secondo grado sono concordi nel ritenere lesivo dell'onore e della reputazione dei querelanti l'accostamento del "clan A.- P." alla organizzazione terroristica "(OMISSIS)".
3.6. Sulla portata della querela.
I ricorrenti sostengono che, in relazione alla notizia del suicidio di Pi.Gi., la Corte di appello ha ritenuto sussistente la condizione di procedibilità, confondendo la querela con un'istanza rivolta ad ottenere la tutela della memoria del defunto; mentre dal tenore della querela presentata dalle parti civili emergerebbero solo riferimenti legati alla lesione diretta della loro personale reputazione. Aggiungono che l'art. 336 c.p.p. impone che l'imputazione venga compendiata nei fatti individuati dagli estensori della querela.
La tesi è infondata in fatto e in diritto.
3.6.1. L'art. 597 c.p. prevede, al comma 1, che il delitto previsto dall'art. 595 è punibile a querela della persona offesa.
Il comma 3 recita: "Se la persona offesa muore prima che sia decorso il termine per proporre la querela, o se si tratta di offesa alla memoria di un defunto, possono proporre querela i prossimi congiunti, l'adottante e l'adottato (...)".
Questa ultima disposizione regola due ipotesi: il caso in cui il de cuius sia morto prima di aver esercitato il diritto di querela per l'offesa da lui subita in vita; quello, diverso, di offesa alla sua memoria.
Nella prima, ai prossimi congiunti, all'adottante e l'adottato (non a tutti gli eredi dell'offeso) viene attribuito iure successionis il diritto di querela non esercitato dal loro congiunto, in deroga a quanto stabilito dall'art. 126 c.p., comma 1, che esclude la trasmissione ereditaria del diritto di querela.
Nel diverso e autonomo caso di offesa alla memoria del defunto, i prossimi congiunti (l'adottante e l'adottato) vantano iure proprio il diritto di presentare la querela, poiché essi stessi - e non il de cuius - si qualificano come i soggetti passivi dell'offesa, in quanto titolari dell'interesse a difendere la memoria del loro congiunto.
Su altro versante occorre rammentare che, a mente dell'art. 336 c.p.p., la querela è proposta mediante dichiarazione nella quale si manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato.
Per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ciò significa che il querelante è tenuto solo ad esporre il fatto stesso nella sua materialità, considerato che il diritto di querela concerne unicamente il fatto delittuoso, quale enunciato nella sua essenzialità, da interpretare attraverso l'indagine della effettiva volontà della parte non vincolata a manifestarla con l'uso di formule rituali (cfr. tra le tante Sez. 5, n. 15643 del 11/03/2005, Scalfari, Rv. 232136; Sez. 5, n. 19020 del 22/01/2009, Cané, Rv. 243604; Sez. 5, n. 24381 del 25/03/2011, Ciancio Sanfilippo, Rv. 250456; Sez. 5, n. 27964 del 01/07/2020, L., Rv. 279531).
Raccordando i principi appena esposti, si trae la conseguenza che nella ipotesi di offesa alla memoria del defunto (come nella specie), non occorre che i querelanti, soggetti passivi del reato, manifestino espressamente la volontà di "tutelare la memoria del defunto", essendo sufficiente che espongano l'accadimento storico ritenuto lesivo.
3.6.2. Contrariamente all'assunto dei ricorrenti, la sentenza impugnata fornisce una precisa risposta al tema della violazione dell'art. 597 c.p., comma 3 e art. 336 c.p.p..
La Corte di appello valuta l'eccezione, respingendola.
Il giudice di secondo grado prende in esame la querela sporta da P.G.M. e P.D. (unici soggetti, tra i quattro querelanti, ritenuti legittimati a chiedere la punizione dei colpevoli della offesa alla memoria del proprio familiare defunto) e rileva che il tenore testuale della istanza punitiva non lascia margini di dubbio: la querela contiene univoci e continui richiami al grave pregiudizio cagionato alla memoria del congiunto, suicidatosi poco più che ventenne (pag. 39 sentenza impugnata).
Si tratta di valutazione congrua rispetto alle risultanze processuali e coerente con la disciplina che governa la materia.
4. Il secondo motivo, concernente la sola posizione di M.A., è assorbito.
Il ricorso di M. è infondato ma non inammissibile, dunque deve rilevarsi il decorso del termine di prescrizione del reato.
Al riguardo, il profilo della sussistenza o meno della recidiva aggravata (oggetto della censura in rassegna) è ininfluente, giacché qualunque sia la decisione sul motivo, l'esito del ricorso non muterebbe. Invero:
- se il motivo fosse respinto, il termine massimo di prescrizione del reato pari ad anni nove, considerata la recidiva specifica e infraquinquennale - sarebbe maturato il 13 maggio 2020;
- se il motivo di ricorso venisse accolto e la recidiva, in ipotesi, venisse esclusa, il termine (pari ad anni sette e mesi sei) sarebbe maturato il 13 novembre 2018 (come per il coimputato B.), dopo la sentenza di primo grado (pronunciata il 25 maggio 2018).
In entrambi i casi la sentenza impugnata va annullata agli effetti penali, mentre la condanna agli effetti civili rimane ferma ex art. 578 c.p.p..
5. Consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, agli effetti penali, nei confronti di M.A. perché il reato è estinto per prescrizione. Il ricorso di M. deve essere rigettato agli effetti civili.
Il ricorso di B.M. deve essere respinto, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Entrambi i ricorrenti risultano totalmente soccombenti rispetto alle pretese di carattere civilistico, dunque devono essere condannati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che, anche tenuto conto della pluralità di parti assistite, possono liquidarsi in complessivi Euro 5.000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, agli effetti penali, nei confronti di M.A. perché il reato è estinto per prescrizione; rigetta, agli effetti civili, il medesimo ricorso, nonché il ricorso di B.M. e condanna quest'ultimo al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi Euro 5.000,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2021