La massima
In tema di diffamazione a mezzo stampa commessa mediante la pubblicazione di un'intervista, la remissione di querela nei confronti del giornalista estende i suoi effetti anche all'intervistato, in ragione dell'identità del reato derivante dalla necessaria cooperazione fra i due soggetti, senza che rilevi la mancata contestazione formale del concorso di persone nel reato. (In motivazione la Corte ha ritenuto che non viola i criteri espressi dalla cedu, nella sentenza Drassich c. Italia, la qualificazione nell'alveo del concorso di persone, operata in sede di legittimità, delle condotte separatamente e individualmente ascritte al giornalista e all'intervistato, poiché ciò determina un epilogo favorevole per quest'ultimo - Cassazione penale sez. V - 14/10/2021, n. 319).
Fonte: CED Cass. pen. 2022
Vuoi saperne di più sul reato di diffamazione?
Vuoi consultare altre sentenze in tema di diffamazione?
La sentenza integrale
Cassazione penale sez. V - 14/10/2021, n. 319
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Lucca il 9.11.2017, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di G.A. per essere il reato di diffamazione, a lui contestato ai sensi della L. n. 47 del 1948, art. 13 e dell'art. 595 c.p., comma 3, commesso ai danni del defunto S.P., estinto per remissione di querela, mentre ha confermato la condanna di A.M. alla pena di nove mesi di reclusione (e ad una provvisionale), in relazione alla condotta di diffamazione ex art. 595 c.p., comma 3.
La Corte d'Appello ha ritenuto non estensibili all'intervistato gli effetti liberatori della remissione di querela presentata nei confronti del giornalista, data l'autonomia delle fattispecie criminose a ciascuno imputate, ed ha, altresì, respinto un'eccezione di improcedibilità sollevata da A., esponente di organizzazioni dell'estrema destra italiana, arrestato in Francia e consegnato all'Italia in esecuzione di MAE, in relazione al principio di specialità vigente in tema di mandato di arresto ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 32.
La parte civile costituita è S.S., figlia di P., deceduto il (OMISSIS), esponente della destra eversiva, coinvolto nel processo per gli omicidi di A.M. e O.V., nonché nell'indagine sulla strage di Bologna, tutti delitti dai quali era stato assolto, dopo un periodo decennale anche di detenzione.
Viene in esame, quale condotta delittuosa, la pubblicazione, in data 16.5.2012, sul quotidiano online (OMISSIS), a firma dell'articolista e direttore del giornale, G.A., di un'intervista a A.M., anch'egli estremista di destra (già militante di Ordine Nuovo), in cui questi indicava, appunto, in S.P. un "infame", intendendo un soggetto che aveva avuto rapporti con i servizi segreti italiani all'epoca della militanza politica, così come altri che con lui condividevano simili ideali (tra questi, l'intervistato cita F., individuandolo come leader della compagine (OMISSIS), e D.C.S.).
2. Propone ricorso A.M., tramite il difensore, deducendo quattro motivi distinti.
2.1. Con la prima doglianza, il ricorrente eccepisce violazione di legge in relazione alla L. 22 aprile 2005, n. 69, artt. 26 e 32 in tema di MAE, per l'erronea applicazione del principio di specialità che sovrintende al mandato di arresto Europeo.
La tesi del ricorrente è che la giurisprudenza di legittimità cui si è richiamata la sentenza della Corte d'Appello - ispirata dal criterio di cosiddetta specialità "attenuata", secondo cui, ai sensi della L. n. 69 del 2005, art. 32, la persona consegnata in esecuzione di MAE può essere legittimamente sottoposta a procedimento penale per fatti anteriori e diversi da quelli per i quali il mandato d'arresto sia stato concesso, a condizione che non sia privata della libertà personale durante o in conseguenza di tale procedimento - non sia coerente con i principi dettati in materia dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969 (nonché dalla Decisione Quadro 2002/584 UE).
La tesi del ricorrente è che anche la sola condanna ad una pena detentiva violi il principio di specialità e così pure la stessa sottoposizione a processo per un reato, quale quello previsto dall'art. 595 c.p., comma 3, che prevede il trattamento sanzionatorio della reclusione. Allo stesso modo, la pena eventualmente da eseguirsi perché divenuta definitiva, nonostante la violazione del principio di specialità, non potrebbe esserlo, se non in forza di una richiesta di consegna suppletiva allo Stato estero e, nella specie, all'autorità giudiziaria francese (la Corte d'Appello di Aix en Provence). Il ricorrente ritiene illogico spostare il problema in fase esecutiva.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce violazione dell'art. 155 c.p., invocando l'estensione degli effetti estintivi del reato derivati dalla remissione di querela nei confronti di G.A..
Il coimputato, direttore e giornalista del quotidiano online su cui è stata pubblicata l'intervista ritenuta diffamatoria, della quale egli è stato autore, ha concorso nel reato di diffamazione, essendone l'istigatore e l'ispiratore, avendo peraltro "provocato" il ricorrente, presentandolo, nell'incipit dell'intervista, come una persona dal passato torbido, e non avendo esercitato quel controllo sulla continenza espressiva delle dichiarazioni dell'intervistato, come era, invece, dovuto.
2.3. La terza ragione di censura attinge l'art. 595 c.p., che sarebbe stato erroneamente interpretato, nonché il vizio di motivazione, apparente ed illogica, in relazione alla condanna per tale reato. Si deduce, altresì, la mancata assunzione di una prova decisiva.
Sotto il primo profilo, il ricorrente evidenzia che le espressioni utilizzate nei confronti del defunto S.P. e, in particolare, l'epiteto "infame", non avrebbero una reale valenza diffamatoria, dato il contesto di narrazione e gli ulteriori contenuti dell'intervista, sicché tale aggettivo sarebbe stato erroneamente estrapolato e valutato atomisticamente; anche il carattere della continenza espressiva non sarebbe stato violato, in ragione dell'ambiente socio-culturale in cui l'espressione si è inserita. Inoltre, non si è tenuto conto del fatto che il titolo dell'articolo giornalistico ed il suo contenuto facevano riferimento alla qualità di "infame" dello stesso ricorrente, il quale, quindi, ha risposto ad un'offesa subita, nei limiti dell'ipotesi di "provocazione" prevista dall'art. 599 c.p., comma 2, quale causa di esclusione della punibilità.
Quanto alla mancata assunzione di una prova decisiva, il ricorso fa riferimento all'esame di due magistrati che sarebbe stato rigettato dalla Corte d'Appello perché (e benché, nella prospettazione difensiva) richiesto in merito all'esistenza di vicende "torbide" e non ancora chiarite sui rapporti con ambienti dei Servizi segreti di S. e degli altri personaggi citati, appartenenti all'estrema destra militante.
2.4. Infine, un ultimo motivo di ricorso deduce violazione di legge e omessa motivazione avuto riguardo al trattamento sanzionatorio riservato al ricorrente, che meglio avrebbe dovuto essere commisurato ad una pena soltanto pecuniaria e non detentiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato, per le ragioni che si indicheranno di seguito.
2. La prospettiva interpretativa contenuta nel primo motivo non può essere accolta.
Il ricorrente, arrestato in Francia e consegnato all'Italia in esecuzione di un Mandato d'Arresto Europeo (MAE) per reati diversi da quello contestato nel presente processo, dubita della correttezza dell'orientamento di legittimità relativo al principio di specialità attenuata, ritenendolo incoerente con i principi dettati in materia di estradizione e mandato d'arresto Europeo dalle norme sovranazionali (in specie dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969 e dalla Decisione Quadro 2002/584/GAI della UE); si sostiene, infatti, che anche la sola condanna ad una pena detentiva violi il principio di specialità e così pure la stessa sottoposizione a processo per un reato, quale quello previsto dall'art. 595 c.p., comma 3, che prevede il trattamento sanzionatorio della reclusione.
2.1. La tesi difensiva non corrisponde alla disciplina Europea vigente in materia di mandato d'arresto, per come recepita dal legislatore italiano e nell'interpretazione che di essa fornisce la Corte di Giustizia Europea.
Il mandato d'arresto Europeo è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro dell'Unione Europea ("Stato membro di emissione"), in vista dell'arresto e della consegna di una persona, da parte di un altro Stato membro ("Stato membro di esecuzione"), al fine dell'esercizio di azioni giudiziarie in materia penale o dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale.
La L. 22 aprile 2005, n. 69, secondo quanto emerge dallo stesso impianto normativo, attua, nell'ordinamento interno, le disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio d'Europa, relativa al mandato d'arresto Europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri dell'Unione Europea, nei limiti in cui tali disposizioni non sono incompatibili con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, nonché in tema di diritti di libertà e del giusto processo.
La disciplina normativa predetta costituisce, nel suo complesso, un'attuazione dell'azione comune in materia di cooperazione giudiziaria penale, ai sensi dell'art. 31, paragrafo 1, lettere a) e b), e art. 34, paragrafo 2, lettera b), del Trattato sull'Unione Europea, e successive modificazioni.
Orbene, in questo contesto, la L. n. 69 del 2005, art. 26, intitolato al principio di specialità ed inserito nel capo I dedicato alla procedura "passiva" di consegna, prevede al comma 1: "La consegna è sempre subordinata alla condizione che, per un fatto anteriore alla stessa e diverso da quello per il quale è stata concessa, la persona non venga sottoposta a un procedimento penale, né privata della libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, né altrimenti assoggettata ad altra misura privativa della libertà personale".
Al comma 2 sono previste, immediatamente dopo, le eccezioni a detto principio di specialità, che non si applica quando: a) il soggetto consegnato, avendone avuta la possibilità, non ha lasciato il territorio dello Stato al quale è stato consegnato decorsi quarantacinque giorni dalla sua definitiva liberazione ovvero, avendolo lasciato, vi ha fatto volontariamente ritorno; b) il reato non è punibile con una pena o con una misura di sicurezza privative della libertà personale; c) il procedimento penale non consente l'applicazione di una misura restrittiva della libertà personale; d) la persona è soggetta a una pena o a una misura che non implica la privazione della libertà, ivi inclusa una misura pecuniaria, anche se può limitare la sua libertà personale; e) il ricercato ha acconsentito alla propria consegna, oltre a rinunciare al principio di specialità con le forme di cui all'art. 14; f) dopo essere stata consegnata, la persona ha espressamente rinunciato a beneficiare del principio di specialità rispetto a particolari reati anteriori alla sua consegna; al comma 3, infine, è previsto che, successivamente alla consegna, ove lo Stato membro di emissione intenda sottoporre la persona a un procedimento penale ovvero assoggettare la stessa a un provvedimento coercitivo della libertà, è necessario chiedere un ampliamento del provvedimento autorizzatorio da parte dello Stato membro di esecuzione, mediante un ulteriore provvedimento della corte di appello competente.
L'art. 32 citato, che stabilisce la vigenza del principio di specialità dal lato della procedura "attiva" di consegna, prescrive che la consegna della persona ricercata è soggetta ai limiti del principio di specialità, con le medesime eccezioni previste, relativamente alla procedura passiva di consegna, dall'art. 26 predetto.
La giurisprudenza Europea, e precisamente l'interpretazione che si è affermata grazie all'elaborazione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in tema di mandato di arresto Europeo, ricostruisce il principio di specialità (recepito dai nostro artt. 26 e 32) come un principio di specialità "attenuata": la persona consegnata, cioè, può essere legittimamente sottoposta a procedimento penale per "fatti anteriori e diversi" da quelli per i quali è stata concessa la consegna, purché non sia privata della libertà personale, dovendo diversamente lo Stato di emissione - in assenza di altre eccezioni al principio di specialità - attivare la prescritta procedura per ottenere l'assenso dallo Stato di esecuzione.
La Corte di Giustizia dell'Unione, infatti, nella sentenza 1 dicembre 2008, ric. Leymann e Pustovarov, C- 388/08, ha stabilito che è consentito allo Stato di emissione, senza l'assenso dello Stato di esecuzione, "incriminare e condannare" la persona consegnata per un reato diverso da quello che ha determinato la sua consegna e per il quale è prevista una pena o una misura privative della libertà, a condizione che la persona - in base alla legge o anche solo "per valutazione" dell'autorità giudiziaria - non sia ristretta né durante tale procedimento né in conseguenza di questo.
Detto altrimenti, secondo la Corte di giustizia, la persona consegnata può essere legittimamente sottoposta a procedimento penale per "fatti anteriori e diversi", purché non sia privata della libertà personale; in mancanza di tale condizione essenziale, lo Stato di emissione - in assenza di altre eccezioni al principio di specialità - deve attivare la prescritta procedura per ottenere l'assenso dallo Stato di esecuzione (e ciò, ovviamente, non esclude, come ha chiarito la citata sentenza della Corte di Lussemburgo, che la persona sia contemporaneamente sottoposta ad una misura restrittiva della libertà, prima che venga ottenuto l'assenso, qualora tale restrizione sia legalmente giustificata dai reati contenuti nel mandato di arresto Europeo).
Il criterio di "specialità attenuata", come è stato chiamato il principio modellato secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia, è ragionevolmente giustificato dall'elevato grado di fiducia tra gli Stati membri, derivante dalla omogeneità di sistemi giuridici e dalla garanzia equivalente dei diritti fondamentali, ed è tratto dalla stessa Decisione Quadro del 2002, che, secondo i giudici di Lussemburgo, ha voluto limitare l'incidenza della specialità, operante in materia di mandato d'arresto Europeo, alle sole situazioni in cui viene in gioco la privazione della libertà personale della persona consegnata. Si è inteso, insomma, da parte del legislatore Eurounitario, avuto riguardo agli altri reati, commessi anteriormente alla consegna e diversi da quelli che l'hanno giustificata, soltanto impedire la coercizione personale del consegnato, ma non l'instaurarsi di un procedimento penale a suo carico.
Tale conclusione interpretativa è evidente se si pone mente alla espressa previsione, contenuta nell'art. 27, par. 2, lett. c, della decisione quadro del 2002 citata, secondo cui il principio di specialità non si applica quando "il procedimento penale non dà luogo all'applicazione di una misura restrittiva della libertà personale", il che consente allo Stato di emissione di procedere penalmente nei confronti della persona consegnata qualora si tratti di reati "diversi ed anteriori" per i quali, indipendentemente dal tipo di pena che potrà essere inflitta all'esito del processo, la procedura non comporti l'applicazione di una misura restrittiva della libertà personale dell'interessato.
La pronuncia della Corte di Giustizia del 2008, come ha sottolineato la Corte costituzionale, ha ricostruito un'interpretazione "conforme" alla lettera ed allo scopo della decisione quadro, che è quello di creare un sistema semplificato di consegna delle persone condannate o imputate, eliminando le complessità ed i potenziali ritardi inerenti alla disciplina dell'estradizione (Corte Cost. n. 143 del 2008).
2.2. Parallelamente, anche in virtù degli effetti che le sentenze di Lussemburgo determinano nel sistema normativo degli Stati membri e per le rispettive giurisdizioni, la Corte di cassazione, interpretando la L. n. 69 del 2005, art. 26, comma 2, lett. c, e art. 32, ritiene che il principio di specialità non si applichi quando la persona consegnata sia sottoposta a procedimento penale per fatti anteriori e diversi da quelli che hanno giustificato la consegna, nei quali non venga in gioco il tema della attuale privazione della libertà personale.
Si è così affermato il principio secondo cui la L. n. 69 del 2005, art. 32 pone un principio di specialità "attenuata", sulla base del quale la persona consegnata può essere legittimamente sottoposta a procedimento penale per "fatti anteriori e diversi" a condizione che non sia privata della libertà personale durante o in conseguenza di tale procedimento, dovendo diversamente lo Stato di emissione - in assenza di altre eccezioni al principio di specialità - attivare la prescritta procedura per ottenere l'assenso dallo Stato di esecuzione (Sez. 2, n. 14738 del 19/1/2017, Cascarino, Rv. 269430; Sez. 3, n. 47253 del 6/7/2016, Bertoni, Rv. 268062; Sez. 2, n. 14880 del 12/12/2014, dep. 2015, Bindi, Rv. 263292, in una fattispecie nella quale il ricorrente, consegnato dall'autorità giudiziaria slovena in seguito a MAE per l'esecuzione in Italia della pena inflittagli per una serie di reati, veniva sottoposto a procedimento e tratto a giudizio in stato di libertà per il diverso delitto di ricettazione; Sez. 6, n. 39240 del 23/09/2011, Caiazzo, Rv. 251366, in una fattispecie in cui la persona consegnata dall'autorità giudiziaria spagnola era stata assolta dai reati oggetto del mandato di arresto Europeo e, nel frattempo, processata in stato di libertà per reati anteriori e diversi rispetto a quelli per i quali era stata consegnata, nell'ambito di un procedimento in cui era stata sospesa l'esecuzione di un provvedimento cautelare emesso al fine di ottenere l'assenso dello Stato di consegna). Con chiarezza, nella stessa scia, si è affermato che, in tema di mandato di arresto Europeo, la deroga al principio di specialità contenuta nella L. n. 69 del 2005, art. 26, comma 2, lett. c), può essere interpretata, in conformità alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell'Unione Europea del 13 giugno 2002, nel senso che il principio di specialità è inoperante non solo quando il titolo di reato per cui si procede è ostativo all'adozione di una misura restrittiva, ma anche in ogni altro caso in cui si proceda penalmente contro la persona consegnata senza l'adozione di misure privative della libertà personale (Sez. 1, n. 18778 del 27/03/2013, Reccia, Rv. 256013); ed ancora, si è detto che il principio di specialità preclude alle Autorità dello Stato richiedente, in assenza di ulteriore espresso consenso dello Stato competente, non già l'adozione della misura cautelare personale in relazione a reati diversi da quelli per i quali la consegna è stata effettuata e commessi anteriormente ad essa, ma solo l'esecuzione della stessa (Sez. 1, n. 8349 del 26/11/2013, dep. 2014, Abbinante, Rv. 259164).
Deve conclusivamente affermarsi che la L. n. 69 del 2005, artt. 26 e 32, interpretati secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (sentenza Leymann e Pustovarov, C- 388/08, del 1 dicembre 2008), pongono un principio di specialità "attenuata", sulla base del quale la persona consegnata può essere legittimamente sottoposta a procedimento penale per "fatti anteriori e diversi da quelli che hanno giustificato la consegna", a condizione che non sia privata della libertà personale durante o in conseguenza di tale procedimento, dovendo diversamente lo Stato di emissione - in assenza di altre eccezioni al principio di specialità - attivare la prescritta procedura per ottenere l'assenso dallo Stato di esecuzione.
2.3. Le considerazioni sopra riportate impongono una valutazione di infondatezza delle ragioni difensive formulate nel primo motivo di ricorso - il cui esame era necessariamente preliminare a quello degli ulteriori motivi, poiché da esse avrebbe potuto discendere l'improcedibilità dell'azione penale - pur essendo innegabile che il problema di dover ampliare il titolo di consegna emesso dallo Stato di esecuzione nella successiva fase esecutiva della pena, in cui viene ad incidere il principio di specialità attenuata in caso di condanna definitiva ad una pena detentiva da eseguirsi effettivamente, rimane sullo sfondo e costituisce, verosimilmente, una scelta normativa consapevole del legislatore Eurounitario e di quello nazionale.
La questione, tuttavia, pur posta dal ricorrente in ragione della condanna alla pena della reclusione pari a nove mesi subita nel presente processo, si rivela, in ogni caso, nei suoi riguardi, soltanto ipotetica, come vedremo di qui a poco, dovendosi accogliere il secondo motivo di censura e, di conseguenza, dovendosi dichiarare l'estinzione del reato.
3. Il secondo motivo di doglianza eccepito dal ricorrente è fondato.
La Corte d'Appello ha ritenuto di non poter estendere all'intervistato, in attuazione di quanto disposto dall'art. 155 c.p., gli effetti estintivi del reato, derivati dalla remissione di querela da parte della persona offesa nei confronti del direttore del quotidiano online, redattore dell'articolo-intervista a A.M..
La decisione è errata sotto più profili.
Anzitutto, la giurisprudenza citata dai giudici di secondo grado non è coerente con la fattispecie in esame, che attiene ad una ipotesi in cui il direttore del quotidiano online riveste anche il ruolo di giornalista, autore dell'intervista al ricorrente, con valenza diffamatoria.
La Corte fiorentina si è basata, infatti, sulla sentenza di questa Sezione n. 38735 del 6/5/2014, Sgarbi, Rv. 262214 che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ha statuito che la remissione della querela proposta nei confronti del direttore del giornale, responsabile ai sensi dell'art. 57 c.p., non estende i suoi effetti nei confronti del giornalista per il reato di diffamazione, in quanto l'autonomia delle due fattispecie criminose è ostativa all'effetto estensivo, il cui presupposto è il concorso di più persone nel medesimo reato.
La pronuncia, a ben vedere, riguarda una fattispecie nient'affatto coincidente o analoga a quella oggi all'esame del Collegio, poiché attiene al rapporto tra due ipotesi di responsabilità criminosa distinte, poste da disposizioni incriminatrici differenti - quella prevista dall'art. 595 c.p. e quella di cui all'art. 57 c.p. - relative a titoli di attribuzione soggettiva della condotta al suo autore del tutto differenti: nel caso della diffamazione, contestata all'intervistato o al giornalista, si tratta di un delitto di natura dolosa, laddove, invece, il coefficiente soggettivo previsto dall'art. 57 c.p., avuto riguardo al direttore responsabile della pubblicazione a mezzo stampa, ha carattere omissivo colposo.
Viceversa, nella presente fattispecie, il giornalista autore dell'intervista (nonché direttore del quotidiano online (OMISSIS)) ed il soggetto intervistato che rilascia le dichiarazioni diffamatorie concorrono nel delitto di diffamazione - e ciò, come vedremo, a dispetto della configurazione autonoma delle due imputazioni proiettata nel processo dall'impostazione della pubblica accusa - sicché, qualora non sussistano, a monte, le condizioni di esclusione del reato nei confronti dell'intervistatore, per l'operare della scriminante del diritto di cronaca, secondo il criterio del prevalente interesse pubblico a conoscere il pensiero dell'intervistato ed escluso qualsiasi suo ruolo di dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria (in tema, cfr., per tutte, Sez. 5, n. 19889 del 17/2/2021, Parrino, Rv. 281264 e Sez. 5, n. 16959 del 21/11/2019, dep. 2020, Le Betulle casa di cura s.r.l., Rv. 279203), la remissione di querela proposta nei confronti del giornalista potrà e dovrà estendersi alla posizione dell'intervistato ai sensi dell'art. 155 c.p., comma 2.
La giurisprudenza di legittimità si è già espressa in termini coerenti con tale linea interpretativa, affermando che, nell'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa commessa mediante la pubblicazione di un'intervista, la remissione di querela effettuata nei confronti del giornalista estende i suoi effetti anche alla posizione dell'intervistato, in ragione della identità del reato derivante dalla necessaria cooperazione fra i due soggetti, e, quindi, dell'applicabilità della norma posta dall'art. 155 c.p., comma 2, (Sez. 5, n. 42918 del 5/2/2014, C., Rv. 260059, che, in motivazione, ha ribadito il principio in base al quale la remissione della querela nei confronti del giornalista-intervistatore non produce effetti anche nei confronti del direttore del giornale, responsabile ai sensi dell'art. 57 c.p., giacché l'autonomia delle due fattispecie criminose è ostativa all'effetto estensivo).
Non sussiste, infatti, nei rapporti tra le condotte delittuose dell'intervistatore e dell'intervistato, quella autonomia strutturale tra fattispecie di reato (derivante anche e principalmente dalla diversa natura dell'elemento soggettivo di attribuzione della condotta al suo autore), che rappresenta il profilo insuperabile per ritenere l'inapplicabilità dell'art. 155 c.p., indipendentemente dalla stretta connessione ed interdipendenza esistente tra le condotte dei responsabili. Anzi, poiché, una volta esclusa la sussistenza della scriminante del diritto di cronaca in capo al giornalista, ricorre identità tra il reato commesso dal giornalista e quello dell'intervistato - attesa la cooperazione necessaria tra i due soggetti - la remissione di querela estende i suoi effetti alla posizione dell'intervistato. Non possono trovare ingresso, invero, in tal caso, i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di mancata estensione degli effetti della remissione di querela, nei rapporti tra giornalista e direttore responsabile del giornale e viceversa, mancando quei profili impeditivi rappresentati dalla autonomia strutturale dei reati, dalla diversità dell'elemento soggettivo e dalla esclusione del concorso di persone.
Viene in rilievo, da ultimo, ai fini della soluzione della ragione di ricorso proposta, un profilo cui si è già fatto cenno, e cioè la mancanza della contestazione del concorso di persone nel reato relativamente alle condotte diffamatorie attribuite al giornalista ed all'intervistato; al primo, infatti, l'imputazione delittuosa è stata ascritta individualmente e senza richiamo alla disposizione dell'art. 110 c.p., sotto il duplice profilo della L. n. 47 del 1948, art. 13 (cd. legge sulla stampa) e dell'art. 595 c.p., comma 3, secondo il paradigma normativo che configura, nella prima delle due disposizioni citate, la circostanza aggravante complessa costituita sia dall'avere attribuito alla persona offesa un fatto determinato, sia dall'essere stata commessa la diffamazione con il mezzo della stampa (cfr. Sez. 5, n. 312 del 19/10/1989, dep. 1990, Restaldi, Rv. 183032; Sez. 5, n. 28340 del 25/6/2021, Boccia, Rv. 281602, in motivazione).
Orbene, il Collegio, anche alla luce della giurisprudenza già citata, che ha incidentalmente fatto riferimento ad un'ipotesi di "concorso necessario" tra la condotta dell'intervistatore, complice delle dichiarazioni diffamatorie dell'intervistato, e quella di quest'ultimo (cfr. la citata sentenza n. 42918 del 2014), ritiene che possa essere rilevato comunque il concorso dei coimputati nel reato previsto dall'art. 595 c.p., comma 3, essendo le azioni delittuose a loro ascrivibili inscindibili, pur in assenza di una contestazione formale e di qualsiasi cenno al concorso di reati nella sentenza impugnata.
E ciò in un'ottica di favor rei, per non precludere l'applicazione di una causa estintiva del reato, quale la remissione di querela, che, altrimenti, sarebbe ingiustificatamente inapplicabile, sulla base di una scelta proiettata nel processo dall'impostazione accusatoria, priva di qualsiasi fondamento negli elementi di fatto che compongono le condotte.
Ed infatti, per la configurabilità del concorso di persone nel reato è necessario che il concorrente abbia posto in essere un qualsiasi comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato (Sez. 6, n. 1986 del 06/12/2016, dep. 2017, Salamone, Rv. 268972; sul concorso ex art. 110 c.p., v. Sez. U, n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, Sormani, Rv. 218525); tali indici fattuali e normativi di sussistenza del concorso di persone nel reato si manifestano pacificamente, per come già esposto, nel caso di specie.
Quanto al richiamo alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13, disposizione in base alla quale la diffamazione del giornalista era punita, indefettibilmente, con la pena congiunta della reclusione e della multa, se ne deve constatare l'inutilità, alla luce del fatto che detta norma è stata dichiarata incostituzionale con sentenza n. 150 del 2021 della Corte costituzionale (per l'incompatibilità con il principio di libera manifestazione del pensiero sancito dall'art. 10 CEDU e dall'art. 21 Cost.; secondo i giudici della Consulta, l'inflizione indefettibile della reclusione "conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa, già definita "pietra angolare dell'ordine democratico" da una risalente pronuncia di questa Corte").
In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: nell'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa commessa mediante la pubblicazione di un'intervista, la remissione di querela effettuata nei confronti del giornalista estende i suoi effetti anche alla posizione dell'intervistato, in ragione della identità del reato derivante dalla necessaria cooperazione fra i due soggetti, e, quindi, dell'applicabilità della norma posta dall'art. 155 c.p., comma 2, senza che rilevi la mancata contestazione formale del concorso criminoso tra gli autori dell'unica condotta criminosa.
La diversa qualificazione giuridica delle condotte diffamatorie, separatamente ed individualmente contestate, nell'alveo, invece, dell'art. 110 c.p., dalla quale deriva l'estensione degli effetti estintivi del reato scaturenti dalla remissione di querela, è sempre rilevabile dal giudice di legittimità, senza che ciò determini alcuna interferenza con i principi del giusto processo (dettati dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6CEDU), trattandosi, da un lato, di un epilogo favorevole all'imputato, nei cui riguardi puntano le garanzie processuali del fair trial (cfr. Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, in motivazione); dall'altro, potendosi ritenere comunque rispettati, in ipotesi di tal fatta, i criteri espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU nella sentenza Drassich c. Italia del 11 dicembre 2007 (cfr., tra le altre, Sez. 5, n. 27905 del 3/5/2021, Ciontoli, Rv. 281817).
4. L'accoglimento del secondo motivo di ricorso non esime dall'esame della terza ragione di censura, che, in astratto, se accolta, comportando l'esclusione della valenza oggettivamente diffamatoria della condotta, ovvero l'applicazione della scusante prevista dall'art. 599 c.p., comma 2, potrebbe portare ad un esito più favorevole di assoluzione piena, nel merito, per l'imputato, in ragione dell'insussistenza del fatto oppure con formula "perché il fatto non costituisce reato".
Ebbene, nel caso di specie, non può essere accolta nessuna delle due prospettive difensive.
Sotto un primo profilo, il ricorrente, secondo la contestazione, ha appellato con l'epiteto "infame" la persona offesa, oggi deceduta, S.P., contestandogli rapporti torbidi con i servizi segreti italiani, finalizzati ad obiettivi non meglio chiariti.
Tale condotta, per quanto inserita in un contesto di rievocazione storica connotato indubitabilmente da pieghe ancora oggi oscure, non può ritenersi priva di offensività o di carica negativa per l'onore (e la memoria) di colui al quale viene ascritta l'aggettivazione, peraltro caratterizzata, di per sé, da una valenza spregiativa per pacifico significato lessicale.
Quanto alla sussistenza dell'ipotesi di provocazione, pure invocata nel ricorso, alla luce del contenuto complessivo dell'intervista, che si apre con un titolo che rivolgeva allo stesso ricorrente l'attribuzione di disprezzo integrata dalla qualità di "infame", il Collegio rileva la sua manifesta infondatezza, per la palese incoerenza dell'accusa rivolta al ricorrente (il presunto "fatto ingiusto altrui") con il comportamento di reazione, diretto alla diffamazione di una terza persona non coinvolta dall'intervistatore nel suo intervento di esordio.
5. In conclusione, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il reato è estinto per remissione di querela, restando assorbita l'ultima ragione di ricorso, attinente alla dosimetria sanzionatoria.
5.1. La declaratoria di estinzione del reato travolge le statuizioni civili, mentre le spese del procedimento rimangono, comunque, a carico del querelato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per remissione di querela e dispone la revoca delle statuizioni civili; pone le spese del procedimento a carico del querelato.
Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2022