La massima
Integra il reato di diffamazione la condotta di pubblicazione in un sito internet (nella specie, nel social network facebook) di immagini fotografiche che ritraggono una persona in atteggiamenti pornografici, in un contesto e per destinatari diversi da quelli in relazione ai quali sia stato precedentemente prestato il consenso alla pubblicazione (Cassazione penale sez. III - 19/03/2019, n. 19659).
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La sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 22 giugno 2017, la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano che, all'esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato la penale responsabilità di R.F.G. per i reati di tentata estorsione, di diffamazione aggravata, e di sostituzione di persona, in danno di C.C., di violenza sessuale continuata in danno di L.J., e di detenzione di film a contenuto pedopornografico, e gli aveva irrogato la pena di tre anni e quattro mesi di reclusione e di 600 Euro di multa, ritenuta la continuazione tra le condotte, con esclusione delle circostanze attenuanti generiche ed applicata la diminuente per il rito.
Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, l'imputato: 1) aveva compiuto, nel 2009 e poi nel (OMISSIS), atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere C.C. ad avere rapporti sessuali e professionali con lui, attribuendosi un falso nome, trattando fotografie erotiche ed a carattere pornografico della ragazza, creando un falso profilo facebook a nome della stessa, così da permetterne la visione a terzi e da ledere l'immagine della vittima, e minacciando ulteriore divulgazione delle immagini a parenti ed amici della medesima; 2) aveva costretto L.J. a subire atti sessuali in due occasioni, il (OMISSIS), la prima volta abbracciandola da dietro e facendole sentite il proprio pene in erezione, e la seconda volta avvicinandole il proprio pene al volto per costringerla ad un rapporto orale; c) deteneva, alla data del (OMISSIS), sul proprio computer personale, 4 film a contenuto pedo-pornografico.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe, l'avvocato Enrico Giuseppe Banfi, quale difensore di fiducia dell'imputato, articolando quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 42,629,494 e 595 c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla ritenuta configurabilità della tentata estorsione nell'anno 2009 e degli altri reati in danno della persona offesa C.C..
Si deduce, innanzitutto, che la sentenza impugnata, con riferimento ai fatti di tentata estorsione commessi nel 2009, si basa indizi privi della consistenza richiesta dall'art. 192 c.p.p., comma 2.
Si premette che la decisione pone il suo fondamento essenzialmente sulla riferibilità della casella di posta elettronica "(OMISSIS)" all'imputato. Si osserva che: a) un analogo scambio di mail si era verificato nel 2008, senza alcun coinvolgimento dell'imputato, il quale, anzi, aveva immediatamente suggerito alla persona offesa di presentare denuncia, ed il fatto era stato attribuito da quest'ultima a tale R.R.; b) non è stato mai accertato a chi fosse riferibile la casella di posta elettronica "(OMISSIS)", stanti l'esito negativo della errata richiesta alla Yahoo Italia s.r.l., la mancata reiterazione della stessa in modo corretto, e la notizia comunicata dall'imputato alla persona offesa di indiscrezioni relative alla ascrivibilità dell'indirizzo al fotoamatore G.C., noto con lo pseudonimo " R.S."; c) anche in occasione delle richieste estorsive del 2009, l'imputato aveva suggerito alla persona offesa di presentare denuncia alla polizia.
Si contesta, poi, che la configurabilità del reato di cui all'art. 494 c.p. è affermata nonostante lo pseudonimo utilizzato, " G.R.", fosse di mera fantasia, e sebbene la fattispecie delittuosa in questione richiede l'attribuzione delle generalità di un diverso soggetto effettivamente esistente (si cita Sez. 3, n. 12479 del 15/12/2011, dep. 2012).
Si censura, ancora, l'affermazione della sussistenza dl reato di diffamazione, posto che la persona offesa non ha dato alcuna dimostrazione in ordine agli impegni fatti sottoscrivere dai fotoamatori in ordine all'uso meramente personale delle fotografie e che, anzi, la donna era consapevole della diffusione di tali immagini in un network di fotoamatori e non aveva mai formulato alcuna opposizione in proposito.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 42 e 609-bis c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla ritenuta configurabilità dei reati in danno della persona offesa L.J..
Si deduce che la dichiarazione di penale responsabilità per i reati in discorso si basa esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, valutate acriticamente. Si rileva, in particolare, che tali dichiarazioni sono state giudicate attendibili: a) senza considerare in alcun modo le perplessità affermate da terzi sulla tendenza a mentire della vittima nel corso di intercettazioni telefoniche; b) ravvisando un riscontro nel "frettoloso" abbandono, da parte della donna, dell'appartamento dell'imputato il pomeriggio del (OMISSIS), sebbene il primo episodio fosse del (OMISSIS), ed avesse ricevuto chiari "messaggi" il giorno (OMISSIS); c) trascurando che le stesse sono state rese solo a distanza di ventidue giorni dai fatti, e solo perchè la persona offesa era stata invitata a chiarire il significato di messaggi minacciosi da lei inviati all'imputato.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 42 e 600-quater c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla ritenuta configurabilità del reato di detenzione di materiale pedopornografico.
Si deduce che erroneamente è stato escluso che i quattro filmati siano stati scaricati accidentalmente, senza che l'imputato si rendesse della presenza di minori, e, quindi, senza il dolo specifico o, comunque, la necessaria consapevolezza richiesta dall'art. 600-quater c.p. Si rileva, a tal proposito, che i filmati risultano scaricati in una sola occasione, nel (OMISSIS), e sono stati rinvenuti esclusivamente in un personal computer e non anche nel cellulare, nelle macchine fotografiche, nelle schede di memoria ed in altri tre personal computer nella disponibilità dell'imputato.
2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 62-bis c.p., nonchè vizio di motivazione, a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Si deduce che l'imputato, ultracinquantenne, è incensurato ed ha ammesso le proprie responsabilità. Si aggiunge che la concedibilità delle circostanze attenuanti generiche è tanto più logicamente doverosa se si esclude la sussistenza dei reati di tentata estorsione commessa nel 2009, e dei reati di sostituzione di persona, di diffamazione, di violenza sessuale e di detenzione di materiale pedopornografico.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate.
2. In parte diverse da quelle consentite in sede di legittimità, nonchè prive di specificità, e in parte manifestamente infondate, sono le censure esposte nel primo motivo, che contestano l'affermazione di responsabilità per i reati di tentata estorsione in danno di C.C. commesso nel 2009, di sostituzione di persona e di diffamazione della medesima donna, deducendo, in sintesi, per il primo fatto, l'assenza di un quadro indiziario rispondente ai criteri di cui all'art. 192 c.p.p., per il secondo fatto, la non configurabilità del reato di cui all'art. 494 c.p. in caso di uso di nome di fantasia, e, per il terzo fatto, l'assenza di limiti apposti dalla persona offesa alla divulgabilità delle fotografie pornografiche.
2.1. La sentenza impugnata, nell'esaminare i fatti oggetto di tali imputazioni, dapprima dà conto, analiticamente, di quanto esposto nella decisione di primo grado e, quindi, illustra le proprie conclusioni.
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l'imputato aveva compiuto, nel 2009, come poi nel (OMISSIS) (vicenda in relazione alla quale non è proposta impugnazione in questa sede contro la condanna confermata in appello), atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere C.C. ad avere rapporti sessuali e professionali con lui, attribuendosi un falso nome, trattando fotografie erotiche ed a carattere pornografico della ragazza, creando un falso profilo facebook a nome della stessa, così da permetterne la visione a terzi e da ledere l'immagine della vittima, minacciando ulteriore divulgazione delle immagini a parenti ed amici della medesima.
A fondamento di questo assunto, si premette, innanzitutto, che non vi sono dubbi in ordine all'individuazione della persona la quale si presentava con il nome di " G.R. " nell'odierno ricorrente, posti: a) il riconoscimento fotografico effettuato dalla persona offesa, la quale ha detto di aver conosciuto l'imputato posando come modella per servizi fotografici anche di tipo pornografico; b) l'intestazione all'imputato dell'utenza cellulare utilizzata da " G.R." per contattare la donna; c) l'utilizzo da parte di " G.R." di una casella di posta elettronica da indirizzo IP correlato al negozio del ricorrente.
Si descrivono, poi, alla luce di quanto risulta dalle dichiarazioni della persona offesa, e dalle numerose mail acquisite, gli accadimenti dei primi giorni di (OMISSIS). Precisamente, " G.R.", nella mattina dell'(OMISSIS), aveva più volte contattato, tramite mail, la donna per avvisarla che su internet, e in particolare su un forum, circolavano foto "compromettenti" della stessa, e che l'iniziativa era riferibile ad una persona animata dall'intenzione di farle un brutto scherzo e di avere rapporti sessuali con lei. La sera del medesimo 1 agosto, verso le 19, la persona offesa aveva letto sul suo indirizzo di posta elettronica una mail proveniente dall'indirizzo "(OMISSIS)", nella quale lo scrivente diceva di avere foto molto compromettenti della donna, e di volerle mandare a tutti i suoi contatti face-book se ella non avesse accettato di avere un rapporto sessuale con lui. La donna, quindi, aveva immediatamente iniziato, quella stessa sera, a partire dalla ore 19,28, uno scambio di mail con " G.R.", nel corso del quale l'uomo le aveva detto che avrebbe contattato la persona da cui provenivano le minacce per farle cambiare idea, ella lo aveva informato di essersi rivolta ad un ufficiale di polizia giudiziaria per denunciare i fatti, e l'interlocutore aveva replicato sconsigliandole di presentare la denuncia, anche per il rischio di far venire al corrente della vicenda anche i genitori della ragazza.
Sempre quella sera, alle ore 21,36, " G.R." aveva informato la persona offesa di aver convinto il "ricattatore" a desistere dai suoi propositi, e, poi, alle ore 21,40, alla donna era arrivata dall'indirizzo "(OMISSIS)" una richiesta di scuse; quindi, " G.R." le aveva detto che si sarebbero dovuti sentire il giorno successivo, ipotizzando una richiesta di "riconoscimento" per il suo intervento. Tra il (OMISSIS), alla denunciante erano pervenuti, dagli indirizzi di posta elettronica di " G.R." e di tale "paraponzipo.ymail.com", nonchè dal telefono cellulare intestato all'imputato, numerosi messaggi, contenenti dapprima la richiesta di un incontro e la prospettazione di pubblicizzare le fotografie della donna in nudo sui siti di fotografi, e poi insistenti inviti a ritirare la denuncia per le "pressioni" ricevute dal titolare dell'indirizzo "(OMISSIS)"; in un messaggio sms inviato dal cellulare intestato all'imputato, lo scrivente si era anche attribuito il nome di " F." (ossia quello della vita reale). I messaggi erano terminati dopo che la ragazza aveva detto che partiva per le vacanze e non avrebbe potuto più rispondere.
Si rappresenta, poi, che secondo le dichiarazioni della persona offesa, vi erano già stati precedenti rapporti tra la stessa ed il " G.R.". In particolare, questi era intervenuto per far eliminare da internet un messaggio che definiva "puttana" la donna, e la stessa, in cambio, aveva acconsentito a posare nuda per l'uomo, anche se si era rifiutata di avere rapporti sessuali con il medesimo.
Si segnala, quindi, che le indagini per l'identificazione di " G.R.", mediante l'acquisizione dei dati relativi alle utenze cellulari, agli indirizzi di posta elettronica ed all'individuazione fotografica della persona offesa, erano terminate solo nel marzo 2013, e che la donna aveva presentato ulteriori denunce nel gennaio 2014, per nuovi, analoghi, contatti provenienti dall'indirizzo di " R.F." a partire dal dicembre 2013. In maggiore dettaglio, la ragazza, nelle dichiarazioni rese il 31 gennaio 2014, ha precisato che, accettando l'amicizia di " R.F.", aveva potuto constatare come lo stesso fosse in realtà " G.R."; ha poi detto che l'uomo, dopo plurimi contatti, finalizzati ad incontrarla per pretesi incontri professionali dei quali non erano però specificati i contenuti, in data 23 gennaio 2014, le aveva mandato un messaggio con due sue foto in atteggiamenti autoerotici ed un altro messaggio contenente la lista dei suoi contatti su face-book, facendo intendere di avere l'intenzione di inviare a tutti le medesime fotografie. Ha quindi raccontato, nelle dichiarazioni rese tra il (OMISSIS), che l'imputato le aveva mandato più messaggi in quei quattro giorni, dapprima invitandola a "valutare" quanto valessero le foto a lei mostrate e a fare "una proposta, un'offerta qualunque essa sia", poi mandandole un'altra fotografia illustrativa della donna in atteggiamenti autoerotici, quindi minacciandola esplicitamente di divulgare le fotografie anche a parenti stretti, e ribadendo l'invito a fare "una proposta", infine mandandole un mail contenente un link che collegava ad un profilo face-book recante il nome della persona offesa, in "copertina" una fotografia della stessa in costume da bagno, e, quindi, altre diciotto fotografie accessibili a chi chiedesse amicizia. Infine, ha riferito, il 15 febbraio 2014, che l'imputato, nei giorni (OMISSIS), aveva continuato ad inviarle messaggi di identico tenore sul profilo facebook, chiedendole di formulare "non meglio precisate proposte" e prospettandole, in caso contrario, la pubblicazione su internet di fotografie della donna a sfondo sessuale.
Sulla base degli elementi indicati, la sentenza di primo grado ha osservato che (anche) i fatti di tentata estorsione del 2009 sono sicuramente riferibili al ricorrente. Ha rilevato che, ferma restando l'accertata identità tra l'imputato e " G.R.", è l'evoluzione dei rapporti tra quest'ultimo, la donna e il titolare dell'indirizzo di "(OMISSIS)" a far ritenere come il ricorso a tale casella di posta elettronica sia stato un "abile stratagemma" predisposto dal ricorrente volto ad ottenere un rapporto sessuale per "gratitudine" collegata allo scampato pericolo della diffusione dei fotografie compromettenti, e che il risultato non sia stato conseguito solo per la denuncia della vittima all'autorità di polizia. Ha poi osservato che sussistono anche i reati di sostituzione di persona e di diffamazione, perchè: a) l'autoattribuzione del falso nome di " G.R." è avvenuto al fine di procurarsi un vantaggio di accreditarsi presso la persona offesa e di cercare di ottenere prestazioni sessuali mantenendo segrete le proprie generalità; b) la formazione, ammessa dall'imputato nel corso di spontanee dichiarazioni rese in udienza, di un falso profilo facebook contenente fotografie pornografiche della persona offesa, accessibile da un numero indeterminato di persone che avessero chiesto l'amicizia, è lesiva della reputazione ed immagine della stessa.
La sentenza di appello, per quanto attiene al reato di tentata estorsione commessa nel 2009, ha premesso che l'imputato, in sue spontanee dichiarazioni, ha anche affermato: "quanto al capo 1) ammetto i fatti che mi sono contestati con riferimento al 2009". Ha poi ritenuto condivisibili le conclusioni della sentenza di primo grado, ribadendo innanzitutto il giudizio sull'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, peraltro non specificamente contestata nel ricorso, per la "massima coerenza logica e puntualità" del racconto e per i riscontri evidenziati dagli accertamenti di polizia giudiziaria, e poi affermando l'affidabilità della prova logica circa la riconducibilità dell'indirizzo "(OMISSIS)" all'imputato, non più utilizzato dopo le denunce alla polizia, rese note al ricorrente, e funzionale allo scopo di ottenere un rapporto sessuale per "ringraziamento". Ha quindi rappresentato che nessun dubbio può sorgere sulla piena ammissione dei fatti del 2009, perchè effettuata sia in spontanee dichiarazioni, sia nell'interrogatorio del 5 maggio 2014, con parole estremamente chiare e precise.
Il giudice di secondo grado, poi, ha ritenuto condivisibili anche le conclusioni del giudice di primo grado con riferimento ai reati di sostituzione di persona e di diffamazione, aggiungendo che le fotografie erano inequivocabilmente di contenuto pornografico anche in considerazione degli accertamenti tecnici effettuati dal consulente nominato dal Pubblico ministero.
2.2. Le valutazioni della Corte di appello, con riferimento alla sussistenza del reato di tentata estorsione commesso nel 2009, risultano immuni da vizi.
Le censure, come si è sintetizzato nel ritenuto in fatto, hanno ad oggetto l'apprezzamento della prova indiziaria in ordine alla riferibilità dei messaggi provenienti dall'indirizzo "(OMISSIS)" al ricorrente.
La Corte d'appello ha ricostruito la vicenda sia sulla base di una prova indiziaria, sia sulla base delle ammissioni dell'imputato. La prova indiziaria è fondata su dati di fatto precisi, ricostruiti sulla base di fonti di prova nemmeno specificamente contestate, come le dichiarazioni della persona offesa e le mail dalla stessa prodotte, e su massime di esperienza sicuramente non arbitrarie; in particolare, ai fini della valutazione della congruità e non manifesta illogicità delle massime di esperienza utilizzate, non può non tenersi conto dell'intreccio, estremamente tempestivo e sincronico, tra le mail di " G.R." e quelle provenienti dall'indirizzo "(OMISSIS)". Inoltre, è illustrato in modo chiaro, anche mediante la trascrizione del contenuto di atti processuali, perchè deve ritenersi che l'imputato abbia ammesso non solo la tentata estorsione del 2014, ma anche quella del 2009.
A fronte di questi rilievi, le considerazioni circa il precedente episodio del 2008, commesso da altri, e per il quale l'imputato avrebbe consigliato alla persona offesa di presentare denuncia, ovvero circa il mancato compimento di precisi accertamenti relativi all'indirizzo "(OMISSIS)", per verificarne l'effettiva riferibilità anche alla luce delle indiscrezioni apprese ed esposte dal ricorrente, ovvero ancora circa il consiglio, dato anche nel 2009, di sporgere denuncia, costituiscono semplicemente un invito a rivalutare in una diversa prospettiva il materiale istruttorio acquisito. Le medesime considerazioni, inoltre, sono anche prive di specificità, perchè non si confrontano compiutamente con il complessivo discorso motivazionale della sentenza impugnata, e trascurano del tutto i riferimenti di questa alle ammissioni fatte dall'imputato.
2.3. Anche con riferimento al reato di sostituzione di persona, le valutazioni della Corte di appello sono immuni da vizi.
Il ricorso contesta che il reato di cui all'art. 494 c.p. sia configurabile mediante il ricorso ad un nome di fantasia.
Invero, la giurisprudenza ha già espressamente rilevato che integra il reato di cui all'art. 494 c.p. l'attribuzione a sè di un falso nome di persona immaginaria (così Sez. 2, n. 4250 del 21/12/2011, dep. 2012, Pinci, Rv. 252203-01, ma anche, indirettamente, Sez, 2, n. 2224 del 14/11/1969, dep. 1970, Petrocchi, Rv. 114114-01). Inoltre, la pronuncia citata dal ricorrente, Sez. 3, n. 12479 del 15/12/2011, dep. 2012, si riferisce ad un caso ben diverso, in cui erano stati utilizzati un account ed una casella di posta elettronica di un soggetto inconsapevole, ma in cui non veniva affatto in rilievo un nome riferibile a persona immaginaria.
Del resto, la configurabilità del reato di cui all'art. 494 c.p., in caso di uso di nome di persona immaginaria appare chiaramente evocata dal testo della disposizione incriminatrice, la quale sanziona la condotta di chi agisce "sostituendo la propria all'altrui persona, o attribuendo a sè o ad altri un falso nome". Innanzitutto, se fosse necessario l'uso del nome di una persona effettivamente esistente, la duplicità delle previsioni concernenti, in via alternativa, la sostituzione della propria persona ad altri, e l'attribuzione di un falso nome sarebbe sostanzialmente inutile, perchè sarebbe sufficiente la prima delle due. Inoltre, "falso nome", da un punto di vista lessicale, è solo "nome diverso dal vero": tale può essere, quindi, anche il "nome di persona inesistente".
2.3. Identica conclusione vale anche per il reato di diffamazione.
E' vero che, secondo una decisione di legittimità, la condotta di pubblicazione di fotografie di un'attrice nuda in pose ammiccanti non integra gli estremi del delitto di diffamazione, ma sempre che ciò avvenga in contesto non osceno e immune da qualsivoglia connotazione negativa (così Sez. 5, n. 42130 del 15/07/2011, Fantuzzi, Rv. 251706-01). Allo stesso modo, altra decisione, se ha ritenuto che non integra gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione la pubblicazione di un servizio fotografico relativo ad una modella, anche in questo caso è giunta a tale conclusione sull'espresso presupposto che il servizio fosse non offensivo, lecito, corretto ed inserito in una rivista contenente nudi femminili in pose non oscene (Sez. 5, n. 33654 del 06/04/2005, Antonelli, Rv. 23233401).
Più decisioni, poi, hanno chiaramente affermato che è configurabile il reato di diffamazione in caso di pubblicazione di immagini di parti intime di una persona tese a ledere esclusivamente la reputazione del soggetto interessato (Sez. 5, n. 42643 del 12/10/2004, Giuliani, Rv. 230066-01), ovvero in relazione a pubblicazione su internet di foto che ritraggono una persona in atteggiamenti pornografici (Sez. 6, n. 38571 del 30/09/2008, Ciriani, Rv. 241509-01).
Inoltre, è stato puntualizzato che il consenso alla pubblicazione di una foto non vale come scriminante del delitto di diffamazione se l'immagine sia riprodotta in un contesto diverso da quello per cui il consenso sia prestato, e che implichi valutazioni peculiari, anche negative sulla persona effigiata (Sez. 5, n. 30664 del 19/06/2008, Statera, Rv. 240452-01).
Il Collegio, in linea con l'orientamento direttamente o indirettamente espresso dalla decisioni citate, ritiene che la condotta di pubblicazione su internet, nella specie su un sito facebook, di immagini fotografiche che ritraggono una persona in atteggiamenti pornografici, in un contesto e per destinatari diversi da quelli in relazione al quale il consenso alla pubblicazione sia stato precedentemente prestato, integra il reato di diffamazione, in quanto azione idonea ad offendere l'altrui reputazione, comunicando con più persone.
Di conseguenza, corretta risulta la conclusione della sentenza impugnata, che ha confermato la dichiarazione di colpevolezza del ricorrente evidenziando che le fotografie "postate" sul sito in apparenza riconducibile alla persona offesa erano inequivocabilmente di contenuto pornografico ed erano accessibili a chiunque chiedesse l'amicizia, e che non era stato dato alcun consenso a tale forma di pubblicazione.
In ragione del principio giuridico applicabile, inoltre, del tutto irrilevanti sono sia l'ipotizzato consenso della vittima alla pubblicazione delle foto in un network di fotoamatori, sia la mancata prova di impegni sottoscritti dai fotoamatori in ordine all'uso meramente personale delle immagini.
3. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, nonchè prive di specificità, sono le censure esposte nel secondo motivo, che contestano l'affermazione di responsabilità per i reati di violenza sessuale in danno di L.J. commesso nel 2014, deducendo, in sintesi, l'inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa.
3.1. Anche nell'esaminare i fatti oggetto di tali imputazioni, la sentenza impugnata dapprima dà conto, analiticamente, di quanto esposto nella decisione di primo grado e, quindi, illustra le proprie conclusioni.
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l'imputato aveva costretto L.J. a subire atti sessuali in due occasioni, il (OMISSIS), la prima volta abbracciandola da dietro e facendole sentite il proprio pene in erezione, e la seconda volta avvicinandole il proprio pene al volto per costringerla ad un rapporto orale.
A fondamento di questa conclusione si richiamano le dichiarazioni della persona offesa, la quale era stata controllata all'interno dell'abitazione del ricorrente in data (OMISSIS), in occasione della perquisizione effettuata a seguito delle plurime informazioni assunte da C.C., nonchè le risultanze di intercettazioni telefoniche e di messaggi. L.J., al momento della perquisizione, in data (OMISSIS), ha raccontato di essere stata contattata dall'imputato che aveva visto le sue foto su facebook, le aveva proposto di lanciarla come modella e le aveva dato ospitalità nella sua abitazione. Le successive intercettazioni telefoniche consentivano l'acquisizione di sms dai quali risultava che la donna accusava l'uomo di essere un "violentatore" ed uno "stupratore". Invitata dalla polizia a rendere nuove dichiarazioni, anche per chiarire il contenuto dei messaggi intercettati, la persona offesa, in data 12 marzo 2014, ha detto, in particolare, che la sera del (OMISSIS), mentre era a letto, era stata abbracciata dall'imputato da dietro, ed aveva sentito sul suo sedere il pene dell'uomo in erezione, ma lo aveva respinto; il giorno successivo, l'uomo le aveva detto che, se voleva lavorare, doveva avere rapporti sessuali con lui. La donna ha poi aggiunto che, la mattina del (OMISSIS), l'uomo, con indosso solo un accappatoio, l'aveva abbracciata, aveva scoperto il suo pene in erezione e con questo le aveva toccato il collo chiedendo un rapporto orale, e, quindi, al suo rifiuto, le aveva più volte ripetuto che, se voleva lavorare, doveva avere rapporti sessuali con lui; a questo punto, ella era andata via rapidamente dalla casa dell'imputato. La donna ha poi mostrato più messaggi in cui ella aveva contestato all'uomo, tra l'altro, di essere un "violentatore" ed uno "stupratore e truffatore", e più messaggi di risposta, nei quali l'imputato le aveva replicato in modo tracotante ed irridente.
La sentenza di primo grado ha ritenuto l'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, in quanto "intrinsecamente coerenti e circostanziate", e perchè confermate dal contenuto dei messaggi suoi e dell'imputato, spediti da entrambi senza sapere delle intercettazioni in corso.
La Corte d'appello ha ribadito quanto osservato dal Tribunale, sottolineando che, significativamente, nei messaggi, mentre la donna aveva accusato l'uomo di essere uno "stupratore", questi non aveva contestato l'accusa, ma le aveva risposto con iattanza. Ha, inoltre, detto, che la decisione di presentare querela ventidue giorni dopo i fatti non incide sull'attendibilità, stante l'espressa previsione per legge di un ben più ampio periodo di tempo perchè la persona offesa del reato di violenza sessuale assuma le proprie determinazioni in proposito.
3.2. Le indicate conclusioni risultano immuni da vizi.
Invero, costituisce principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, anche nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (così Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214, nonchè, più di recente, tra le decisioni massimate, Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104).
La sentenza impugnata ha valutato le indicate dichiarazioni sulla base di massime di esperienza "accettabili", sia quando ha esaminato il contenuto intrinseco del racconto, sia quando ha ritenuto che questo riceva conferma dalle risultanze emerse dalle intercettazioni. I riferimenti del ricorso a perplessità di terzi circa la tendenza al mendacio della vittima, la tolleranza manifestata dopo il primo "approccio sessuale" e la distanza di ventidue giorni tra i fatti e la querela sono elementi che non evidenziano vizi logici o giuridici, ma si presentano come funzionali ad ottenere una diversa valutazione delle risultanze istruttorie. Inoltre, le censure, in quanto imperniate sulle considerazioni appena sintetizzate, sono anche prive di specificità, perchè non si confrontano compiutamente con il complessivo discorso motivazionale della sentenza impugnata, e trascurano del tutto i riferimenti di questa alle risultanze dei messaggi telefonici intercettati.
4. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure esposte nel terzo motivo, che contestano l'affermazione di responsabilità per il reato di detenzione di detenzione di materiale pedopornografico, commesso fino al (OMISSIS), deducendo, in sintesi, l'accidentalità dell'acquisizione dello stesso.
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l'imputato deteneva, alla data del (OMISSIS), sul proprio computer personale, quattro film a contenuto pedo-pornografico, e precisamente tre video ritraenti minorenni che si spogliano ed un video ritraente una minorenne che compie atti sessuali. Si precisa che, come evidenziato anche nella relazione del consulente tecnico del Pubblico ministero, è immediatamente percepibile dalle immagini, e che l'imputato, nelle spontanee dichiarazioni rese in udienza, ha detto di aver visto le stesse "una sola volta". Si osserva, in particolare, che l'ammissione di aver visionato i video esclude ogni fondamento alla tesi dell'inconsapevolezza.
Anche queste conclusioni sono correttamente motivate.
Le doglianze esposte nel ricorso, che affermano l'accidentalità dell'acquisizione delle immagini nel (OMISSIS), e la mancata consapevolezza dell'età minore dei soggetti riprodotti, anche per la mancata trasposizione dei files in altri computer, in cellulari o in macchine fotografiche, non evidenziano vizi logici o giuridici nella ricostruzione del fatto, e, sostanzialmente, tendono ad ottenere una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, non consentita in sede di legittimità.
5. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, infine, sono anche le censure esposte nel quarto motivo, che contestano la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
La sentenza impugnata, infatti, ha escluso la concessione del beneficio evidenziando la gravità dei fatti, il disprezzo dimostrato nei confronti delle persone offese, e la parzialità e strumentalità delle ammissioni, rese a fronte di elementi di prova "soverchianti".
A fronte di queste osservazioni, i rilievi della difesa non mettono in luce l'esistenza di lacune o di manifeste illogicità, ma chiedono semplicemente una diversa valutazione del fatto in termini più favorevoli per l'imputato.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento a favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro duemila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 19 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019