Siamo abituati a pensare a Cicerone come l’avvocato per eccellenza dell’antica Roma.
La sua eloquenza, la sua capacità di piegare il diritto con le parole, sono scolpite nella memoria collettiva.
Ma in pochi sanno che anche Giulio Cesare, prima di diventare il conquistatore che riscrisse il destino della Repubblica, fu un brillante avvocato.
La sua leggenda non nacque sul campo di battaglia, ma in tribunale, indossando la toga.
Era una Roma in fermento, con il Senato che tramava nell’ombra e un giovane Cesare che, a soli ventiquattro anni, già dimostrava di non essere un uomo comune.
Il processo che lo proiettò sotto i riflettori era delicato, pericoloso, e apparentemente senza speranza: Cesare scelse di difendere i macedoni, vessati e sfruttati dal senatore Gaio Dolabella, un uomo potente, corrotto, e circondato da amici influenti.
Dolabella aveva usato la sua posizione per depredare le province, arricchendosi a spese di popoli già stremati dalla dominazione romana.
I macedoni, vittime delle sue estorsioni, avevano osato protestare.
La risposta di Dolabella era stata brutale: li aveva accusati di tradimento, tentando di schiacciare la loro resistenza con l’intervento del Senato.
Cesare avrebbe potuto voltarsi dall’altra parte.
Era giovane, senza alleanze forti, e la scelta di difendere i macedoni significava sfidare l’élite politica romana. Ma Cesare non era un uomo qualunque.
Accettò il caso e con esso il rischio di rovinare la propria carriera ancor prima che iniziasse.
La corte era gremita. Senatori potenti, cittadini curiosi, e un gruppo di provinciali che speravano in un miracolo.
Cesare si alzò, indossando la sua toga con la dignità di un generale che entra in battaglia. Non si limitò a difendere i macedoni: attaccò Dolabella con una tale passione e precisione che l'aula rimase senza fiato.
Le sue parole non erano solo argomentazioni giuridiche; erano una aperta condanna morale.
Cesare dipinse i macedoni non come ribelli, ma come vittime di un sistema che premiava l’avidità e puniva la dignità. La sua oratoria era feroce, ma misurata.
Ogni parola era una freccia scagliata contro Dolabella e chiunque lo sostenesse.
Alla fine, Dolabella vinse il processo.
Nonostante la brillante difesa di Cesare, il potere e le influenze politiche giocarono un ruolo determinante nel verdetto finale.
Ma paradossalmente, non fu Dolabella a uscire trionfante da quell’aula di tribunale. Fu Cesare.
Il giovane avvocato, con il suo coraggio e la sua straordinaria abilità oratoria, aveva catturato l’attenzione di tutta Roma.
Il suo nome iniziò a diffondersi nei circoli politici e tra i cittadini comuni.
La sua figura, ormai indissolubilmente legata all’idea di giustizia e integrità, cominciò a emergere come quella di un uomo destinato a qualcosa di più grande.
L’esperienza forense di Giulio Cesare ci ricorda quanto l’avvocatura, in ogni epoca, non sia solo una professione, ma anche una missione.
Difendere chi non ha voce, combattere contro le ingiustizie, anche quando il risultato sembra già scritto, è un atto di coraggio che può cambiare il corso delle vite. E, come nel caso di Cesare, persino della storia.
Quel processo segnò l’inizio di una carriera leggendaria, non solo per ciò che Cesare fece come generale e politico, ma per ciò che rappresentò come avvocato: la capacità di sfidare il sistema, di lottare per i più deboli, e di lasciare un’impronta indelebile, indipendentemente dal risultato.
In quell’aula di tribunale, Cesare dimostrò che la toga, come la spada, può forgiare una leggenda.
Se questa storia ti ha affascinato, ti invito a leggere Roma sono io di Santiago Posteguillo, il romanzo che ha ispirato questo articolo.
Con il suo stile avvincente e ricco di dettagli, Posteguillo ci restituisce un ritratto vivido di un giovane Giulio Cesare, svelando gli inizi della sua straordinaria ascesa politica.