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Maltrattamenti in famiglia: che cos'è il reato previsto dall'art. 572 del codice penale

Aggiornamento: 11 apr

Maltrattamenti in famiglia

Indice:



  1. Che cos'è il reato di maltrattamenti in famiglia

L'art. 572 c.p. disciplina il reato di "Maltrattamenti contro familiari e conviventi", sanzionando con la reclusione da tre a sette anni chiunque ponga in essere condotte sistematicamente lesive dell'integrità fisica o morale di una persona appartenente al proprio nucleo familiare o comunque convivente, ovvero sottoposta alla propria autorità o affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia.

La norma, nella sua formulazione, assume una portata ampia, volta a includere anche i rapporti parafamiliari fondati su vincoli affettivi, fiduciari o di assistenza.

La pena base è suscettibile di aumenti significativi in presenza di condizioni soggettive della vittima che ne accentuino la vulnerabilità: si pensi ai minori, alle donne in stato di gravidanza o alle persone con disabilità ai sensi della legge 104/1992.

Inoltre, l'utilizzo di armi nella commissione del fatto costituisce aggravante specifica. In caso di eventi lesivi gravi, gravissimi o letali derivanti dai maltrattamenti, il legislatore ha previsto un trattamento sanzionatorio severamente crescente, con la reclusione che può arrivare fino a ventiquattro anni, in ossequio alla funzione preventiva e repressiva della norma e alla necessità di garantire tutela effettiva ai soggetti più deboli nel contesto relazionale familiare.


  1. La natura del reato

Il delitto di cui all'art. 572 c.p. rientra tra i reati contro la famiglia, ma ha una dimensione più ampia, poiché coinvolge anche relazioni non formalizzate giuridicamente, purché connotate da una stabile convivenza affettiva o da un rapporto fiduciario assimilabile a quello familiare.

La tutela penale si estende dunque oltre i confini della famiglia legittima o naturale, includendo relazioni di affidamento, educazione, vigilanza e custodia, anche all'interno di istituzioni o contesti parafamiliari (es. case-famiglia, strutture educative, convivenze di fatto).

L'interesse protetto dalla norma è duplice: da un lato, l'integrità psico-fisica del soggetto vulnerabile, dall'altro, la serenità e l'equilibrio delle relazioni familiari o assimilabili. Il bene giuridico non è limitato alla salute o alla libertà individuale, ma comprende la dignità, il decoro e la sicurezza del contesto relazionale.

Il reato è qualificato come "proprio" in quanto richiede una particolare qualifica soggettiva dell'agente, che deve trovarsi in una posizione di autorità, responsabilità o prossimità affettiva rispetto alla vittima.

Il rapporto tra agente e soggetto passivo è essenziale per la sussistenza del reato: il maltrattamento assume infatti rilevanza penale non solo per la violenza in sé, ma perché avviene all'interno di un contesto in cui la vittima dovrebbe sentirsi protetta.

Check-list per l’individuazione della condotta

✅ Le condotte sono reiterate nel tempo?

✅ Il comportamento ha causato sofferenze morali, fisiche o psicologiche?

✅ Le azioni hanno generato uno stato di soggezione nella vittima?

✅ Il contesto è caratterizzato da vincolo familiare o assimilabile?

✅ Esiste un disegno unitario prevaricante?Percosse, lesioni fisiche

La condotta incriminata non si esaurisce in singoli atti di violenza, ma si sviluppa attraverso un modus operandi che si protrae nel tempo e che genera nella vittima un clima di oppressione, timore, insicurezza e perdita di autodeterminazione.

È proprio questo carattere reiterato e sistematico, spesso difficile da circoscrivere con rigidi parametri temporali, a rendere particolarmente complessa l'individuazione e la qualificazione del reato da parte dell'interprete e del giudice penale.


  1. Il significato di "maltrattamenti"

Per maltrattamenti si intendono atti reiterati di sopraffazione fisica, psicologica, verbale o anche simbolica, capaci di compromettere in maniera grave e sistematica l'equilibrio psico-fisico della vittima. Tali condotte si manifestano con modalità eterogenee, dalla violenza fisica (percosse, lesioni, aggressioni) alla violenza morale (insulti, ingiurie, disprezzo), sino a forme più subdole di controllo e manipolazione emotiva (minacce, privazioni affettive ed economiche, isolamento relazionale).

Tipologie di condotte maltrattanti

✅ Offese verbali, insulti, minacce

✅ Isolamento sociale

✅ Privazioni economiche

✅ Umiliazioni, disprezzo, svalutazione

✅ Controllo coatto su abitudini e relazioni

La reiterazione degli atti, anche se non quotidiana, assume rilevanza penale quando si inserisce in un contesto di relazioni patologiche, generando nella vittima uno stato di ansia, paura e svilimento tale da rendere dolorosa e insostenibile la vita familiare.

La sofferenza inflitta non deve necessariamente lasciare tracce visibili o essere sempre immediatamente percepibile all'esterno, essendo sufficiente che si concretizzi in un deterioramento progressivo della dignità e della libertà individuale del soggetto passivo.

La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che, in presenza di tali dinamiche, l’azione del reo risulta idonea ad integrare la fattispecie criminosa ex art. 572 c.p. anche in assenza di lesioni fisiche tangibili.


  1. La continuità delle condotte

La configurazione del reato non richiede la continuità ininterrotta dei comportamenti vessatori, bensì la loro abitualità, intesa come reiterazione sistematica di condotte idonee a ledere l'integrità morale o fisica della vittima.

È dunque irrilevante che tra un episodio e l'altro vi siano intervalli temporali anche ampi o che si alternino momenti di apparente normalità: ciò che rileva è la persistenza di un disegno comportamentale volto a instaurare un clima di sopraffazione e mortificazione della vittima.

La Corte di Cassazione ha sottolineato che la natura abituale del reato consente di ricondurre a unità fatti di diversa entità, purché accomunati da un filo conduttore intenzionale (Cass. pen., sez. VI, n. 19832/2022).

Ne deriva che anche episodi eterogenei, ove ispirati da una medesima volontà lesiva, possono concorrere alla configurazione del reato, a condizione che il loro complesso delinei un regime relazionale insostenibile e afflittivo.


  1. Lo stato di soggezione

Elemento costitutivo del reato è lo stato di soggezione della vittima, da intendersi come una condizione psicologica di subordinazione, fragilità o dipendenza, che riduce drasticamente la sua capacità di opporsi alle condotte maltrattanti o di sottrarsi al contesto relazionale oppressivo.

La soggezione può derivare da molteplici fattori: affettivi, economici, culturali, educativi, oppure da situazioni di isolamento sociale o debolezza emotiva.

La giurisprudenza ha chiarito che non è necessario che la vittima versi in uno stato di totale annichilimento o passività: è sufficiente che l'autore abbia posto in essere comportamenti reiterati idonei a determinare un progressivo abbattimento della dignità personale, della libertà decisionale e dell'autostima della persona offesa.

In altri termini, ciò che rileva è l'effetto cumulativo delle condotte sulla vittima e la creazione di un ambiente familiare insostenibile, nel quale quest'ultima si senta priva di strumenti per reagire o difendersi.

Lo stato di soggezione, dunque, non costituisce un presupposto statico ma si configura come una conseguenza, spesso progressiva, delle stesse condotte maltrattanti.

La Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile il reato anche in presenza di resistenze parziali da parte della vittima, sottolineando che la capacità di reagire in talune occasioni non esclude l’esistenza di una relazione asimmetrica e patologica (Cass. pen., sez. VI, 17/10/2022, n. 809).


  1. L'elemento soggettivo

Il dolo richiesto è generico e consiste nella coscienza e volontà dell'agente di sottoporre abitualmente un soggetto a condotte lesive dell'integrità fisica o morale.

Non è necessario che l'autore persegua uno specifico intento persecutorio o agisca secondo un piano criminoso previamente ideato; è sufficiente che egli sia consapevole della reiterazione delle proprie azioni e accetti di persistere in un comportamento oppressivo e prevaricatore.

La Cassazione ha più volte chiarito che ciò che rileva è l'intenzionalità unitaria che accomuna le singole condotte, anche eterogenee, e che dimostra la volontà dell'agente di instaurare un regime relazionale improntato alla sopraffazione (Cass. pen., sez. I, 28/01/2020, n. 13013).

In questo senso, il dolo si configura come progressivo, potendo consolidarsi nel tempo attraverso l'accettazione e la reiterazione del comportamento lesivo. L'autore non deve necessariamente rappresentarsi fin dall'inizio la totalità delle azioni future, ma è sufficiente che maturi, anche in itinere, la volontà di continuare nella condotta vessatoria, facendo proprio un atteggiamento ostile e denigratorio nei confronti della vittima.

Tale impostazione consente di cogliere la dimensione relazionale e dinamica del reato, in cui il momento soggettivo si sviluppa contestualmente all'esecuzione delle condotte oggettive che, nel loro insieme, esprimono il disvalore penale dell'abitualità maltrattante.


  1. La natura abituale del reato

Trattandosi di un reato abituale, la sua consumazione richiede una pluralità di condotte reiterate nel tempo, tali da costituire un insieme unitario e sistematico idoneo a compromettere l'integrità psico-fisica della vittima. La natura abituale impone che ciascuna condotta, pur eventualmente neutra se considerata singolarmente, acquisisca rilevanza giuridico-penale in quanto parte di un disegno complessivo di sopraffazione.

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, il requisito dell’abitualità non può dirsi integrato da due soli episodi, i quali, in assenza di ulteriori elementi, non sono di per sé sufficienti a configurare il reato (Cass. pen., sez. VI, 23/09/2020, n. 35997).

Tuttavia, non è necessario che gli atti si susseguano per un lungo periodo: è sufficiente che si ripetano con una frequenza tale da rendere evidente un clima relazionale insostenibile e afflittivo.

Il giudice, in sede di accertamento, è tenuto a valutare non solo il numero delle condotte, ma anche la loro qualità, intensità, significato simbolico e capacità di incidere sulla dignità e sul benessere della persona offesa.

È quindi la reiterazione funzionale – e non meramente quantitativa – a costituire la cifra distintiva del reato abituale di cui all'art. 572 c.p.


  1. Valore probatorio delle dichiarazioni della persona offesa

La testimonianza della persona offesa può costituire unica prova dell'avvenuta commissione del reato, purché ritenuta intrinsecamente attendibile e sottoposta a un'accurata verifica da parte del giudice.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sent. n. 41461/2012) hanno sancito che, nei casi in cui la vittima sia l’unico testimone, la sua deposizione non richiede necessariamente riscontri esterni, purché il racconto sia dotato di coerenza logica, linearità espositiva e compatibilità con le evidenze fattuali.

Tale orientamento è di particolare rilievo nei procedimenti per maltrattamenti in famiglia, in cui frequentemente le condotte avvengono nel chiuso delle mura domestiche e in assenza di terzi. In questi casi, il giudice è chiamato a svolgere una valutazione attenta della credibilità soggettiva della persona offesa, esaminando con rigore la spontaneità, la precisione, la costanza e la non contraddittorietà delle sue dichiarazioni nel corso del procedimento.


Check-list per la valutazione dell’attendibilità della vittima:

🔎 Coerenza narrativa delle dichiarazioni

🔎 Costanza nel tempo e assenza di contraddizioni

🔎 Assenza di moventi strumentali

🔎 Presenza di elementi oggettivi indiretti (referti, messaggi, etc.)

La giurisprudenza ha più volte sottolineato che l'assenza di motivazioni vendicative, la sofferenza psicologica della vittima, la mancanza di ritorni utilitaristici nella denuncia e la congruenza con elementi documentali (es. messaggi, referti medici, testimonianze indirette) possono fungere da validi indici di attendibilità, anche in assenza di testimoni oculari.

In definitiva, la testimonianza della vittima assume una valenza centrale nel processo penale per maltrattamenti, e va valutata con strumenti critici ma non scettici, in un'ottica di tutela effettiva e garantista al tempo stesso.


  1. La giurisprudenza di legittimità

La Corte di Cassazione ha tracciato, in numerose pronunce, i confini applicativi e interpretativi del reato di maltrattamenti in famiglia, offrendo importanti chiarimenti sui presupposti oggettivi e soggettivi della fattispecie e sulle relative implicazioni processuali. Tra le decisioni più rilevanti si segnalano:

  • Cass. pen., sez. VI, 09/02/2023, n. 11910: ha ribadito la specificità delle esigenze cautelari nei reati familiari, sottolineando come il pericolo di reiterazione del reato non venga meno automaticamente con la cessazione della convivenza, in quanto la pericolosità sociale dell’imputato può rimanere attuale e concreta nei confronti della vittima, anche in contesti relazionali disgiunti;

  • Cass. pen., sez. VI, 24/01/2023, n. 28218: ha stabilito che la modifica peggiorativa dell'art. 572 c.p., introdotta dalla legge n. 172/2012, può trovare applicazione solo se un segmento autonomo e significativo della condotta abituale si è consumato successivamente all'entrata in vigore della norma incriminatrice, chiarendo così la corretta applicazione del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole;

  • Cass. pen., sez. VI, 30/09/2022, n. 45400: ha confermato che il coniuge legalmente separato, ma non ancora divorziato, continua a rivestire lo status di "persona della famiglia" ai fini dell’art. 572 c.p., precisando che l’obbligo di reciproco rispetto e assistenza permane sino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio;

  • Cass. pen., sez. VI, 17/10/2022, n. 809: ha chiarito che la mera capacità della vittima di reagire ad alcune condotte non esclude la configurabilità del reato, qualora l’insieme delle condotte sia idoneo a generare un regime relazionale afflittivo e destabilizzante, incompatibile con il rispetto della dignità umana e del principio di tollerabilità della convivenza domestica.

Art. 572 del codice penale - Maltrattamenti contro familiari e conviventi

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.

Scheda sintetica – Reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.)

Tipo di reato: abituale, proprio

Condotta tipica: reiterate sopraffazioni fisiche o psicologiche

Bene giuridico tutelato: integrità psico-fisica, dignità e serenità delle relazioni familiari

Soggetto attivo: persona legata da vincolo familiare o fiduciario

Elemento soggettivo: dolo generico

Procedibilità: d’ufficio

Competenza: variabile (monocratica, collegiale, Corte d’Assise)

Aggravanti: presenza di minori, gravidanza, disabilità, uso di armi

Prescrizione: 14 anni (prorogabile a 17 anni e 6 mesi)



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