Reati contro la PA
I reati contro la pubblica amministrazione rappresentano una delle principali minacce all'integrità del sistema istituzionale e alla fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato.
Tra questi reati, i più noti sono la corruzione, la concussione, l'abuso d'ufficio e il peculato, tutti accomunati dall'obiettivo di punire condotte illecite di funzionari pubblici che sfruttano il loro ruolo per fini personali o a danno dell’interesse collettivo.
Secondo i dati più recenti del Ministero dell'Interno, i reati contro la pubblica amministrazione hanno registrato un aumento negli ultimi anni, con il peculato che figura tra le fattispecie più frequentemente contestate.
Le statistiche indicano che il numero di procedimenti per peculato ha avuto una crescita costante, con un lieve aumento nell'anno 2023.
Il reato di peculato, previsto dall'art. 314 c.p., punisce la condotta del pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio che, avendo per ragione del proprio ufficio o servizio, il possesso o la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Secondo la giurisprudenza di legittimità, la nozione di appropriazione consiste nel comportamento uti dominus (come se ne fosse il proprietario) dell'agente nei confronti della cosa appartenente alla P.A. mediante il compimento di atti incompatibili con il titolo per cui si possiede, così da realizzare l'interversione del possesso e l'interruzione della relazione funzionale tra il bene ed il suo legittimo proprietario.
Va aggiunto, che la condotta deve essere accompagnata dall'animus sibi habendi, cioè dalla volontà di tenere la cosa per sé, come propria.
Ed invero, sul piano dell'elemento soggettivo, si realizza il mutamento dell'atteggiamento psichico dell'agente: nel senso che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri, succede quella di possedere per conto proprio, attraverso una interversione del titolo di possesso.
Quanto alle modalità di appropriazione, la norma incriminatrice punisce le seguenti condotte, tutte caratterizzate dalla definitiva sottrazione della cosa (o del denaro) alla disponibilità del suo legittimo proprietario: la consumazione, l'alienazione a qualsiasi titolo, la negazione del possesso, la dissipazione, la ritenzione accompagnata dall'animus sibi habendi e l'occultamento.
La giurisprudenza non ha mancato, poi, di affermare che integra l'appropriazione richiesta anche il semplice volontario ritardo nella consegna, temporalmente apprezzabile, perché, in tal modo, si sottrae la cosa alla disponibilità della P.A.
Prima della riforma del 1990, il reato di peculato prevedeva anche la modalità di "distrazione", cioè l’uso di beni pubblici per finalità diverse da quelle istituzionalmente stabilite. La novella del 1990 ha eliminato questo riferimento per evitare una punibilità eccessivamente ampia e ha introdotto il cd. peculato d'uso.
Con la recente approvazione della cd. "riforma Nordio", è stato reintrodotto nel codice penale il cd. peculato per distrazione (oggi disciplinato dall'art. 314 bis c.p., rubricato "Indebita destinazione di denaro o cose mobili").
Venendo al momento consumativo del reato, si sottolinea che il peculato è un reato istantaneo che si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica l'appropriazione, ossia l'interversio possessionis intesa come cosciente e volontario compimento di atti che univocamente esprimono la determinazione dell'agente di comportarsi come proprietario nei confronti della cosa mobile altrui o dell'altrui denaro.
L'appropriazione segna il completamento dell'azione criminosa, rappresentando il momento in cui il bene viene definitivamente sottratto alla disponibilità dell'ente pubblico o del privato a cui appartiene.
Il tentativo di peculato si configura quando l'agente compie atti idonei diretti in modo non equivoco a appropriarsi della cosa, senza però riuscire nell'intento. La fattispecie tentata è quindi una ricerca non riuscita dell'appropriazione del bene, secondo quanto stabilito dall'art. 56 c.p.
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Dottrina e giurisprudenza si sono confrontate, a lungo, sull'individuazione del bene giuridico tutelato.
Secondo un primo orientamento, la norma mira a proteggere il patrimonio della pubblica amministrazione da comportamenti disonesti dei funzionari. Un secondo filone dottrinale, supportato dalle più recenti pronunce giurisprudenziali, considera il peculato un reato plurioffensivo, mirato non solo a salvaguardare i beni pubblici, ma anche i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
Con la riforma del 1990 è stata introdotta una distinzione tra il peculato ordinario e il peculato d'uso.
Il "peculato d'uso" (che prevede limiti edittali di pena significativamente più bassi rispetto al peculato ordinario) è disciplinato dal secondo comma dell'art. 314 c.p. e si configura quando il colpevole abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e questa, dopo l'uso momentaneo, sia stata immediatamente restituita.
Si tratta di figura controversa, con riferimento alla quale la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di osservare che per "uso momentaneo" deve intendersi non già l'uso istantaneo, ma quello temporaneo, ossia protratto per un tempo limitato così da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale tale da non compromettere seriamente la funzionalità della P.A..
Più precisamente, la Corte ha statuito che, ai fini della configurazione del delitto di peculato d'uso di cui all'art. 314, co. II, c.p., è, altresì, essenziale il rapporto di funzionalità della cosa sottratta rispetto alla natura dell'uso momentaneo per cui si fa ricorso all'appropriazione indebita: in applicazione di detto principio, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la qualificazione del giudice di merito che aveva ritenuto integrato il reato di peculato, anziché quello di peculato d'uso, nella condotta dell'imputato, il quale aveva smontato dal proprio computer d'ufficio alcuni pezzi per installarli su quello privato per svolgere il proprio lavoro a domicilio, ancorché alcuni, come il DVD, non necessari per tale uso, rimontandoli solo al momento in cui la manomissione era stata scoperta.
Si è, inoltre, autorevolmente affermato che, ai fini dell'integrazione del reato di peculato d'uso, è, altresì, necessario che l'uso della cosa altrui si riveli momentaneo sia nelle intenzioni che nel comportamento dell'agente (in termini Cass., sez. VI, n. 1862/'92, Marcheschi)
L'elemento soggettivo nel peculato è il dolo generico, rappresentato dalla volontà consapevole di appropriarsi di beni. Per aversi appropriazione è necessaria una condotta che non risulti giustificata o giustificabile come pertinente all'azione della P.A
L'errore di fatto può escludere il dolo, ad esempio in caso di confusione tra due oggetti simili o di errore sulle norme extra-penali che impediscono all’agente di comprendere la legittimità del possesso.
Il peculato comune è punito con la reclusione da 3 a 10 anni, mentre per il peculato d'uso la pena va da 6 mesi a 3 anni.
Inoltre, è prevista l'interdizione dai pubblici uffici, con potenziali profili di illegittimità costituzionale in merito all'applicazione di tale interdizione al peculato d’uso, considerata la minore gravità del reato rispetto al peculato comune.
Infine, il 322 ter c.p. prevede la confisca obbligatoria dei beni ottenuti tramite peculato, con eventuale confisca per equivalente, e la condanna per peculato comune comporta anche l’ineleggibilità e la sospensione da cariche pubbliche.