La vicenda processuale
Con sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma, l'imputato veniva condannato per i reati di maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, minacce e violenza privata ai danni della convivente, alla pena complessiva di un anno, 4 mesi e 20 giorni di reclusione, oltre al risarcimento del danno alla parte civile.
Il ricorrente presentava diversi motivi di ricorso.
Nel primo motivo, contestava l'applicazione dell'articolo 572 del codice penale, sostenendo che i fatti contestati erano avvenuti prima della modifica della norma che estendeva la definizione di "famiglia".
Sul punto, la Corte ha ribadito che la giurisprudenza già riconosceva la configurabilità del reato anche in situazioni di convivenza senza legami familiari.
Nel secondo motivo, il ricorrente affermava che non vi era idoneità intimidatoria nelle minacce profferite.
La Corte ha affermato che la valutazione dell'idoneità intimidatoria deve essere fatta in base alle circostanze del caso, e le minacce sono state valutate come tali. Inoltre, sostiene che il reato di minaccia è assorbito nei maltrattamenti in famiglia quando le minacce sono funzionali alla vessazione della vittima.
Il terzo motivo riguarda la violenza privata, il ricorrente sostiene che non si è verificato l'evento del reato poiché non è stata impedita l'effettiva chiamata ai carabinieri.
La Corte ha respinto questo motivo, affermando che il reato si è verificato nel momento in cui è stata impedita la telefonata, indipendentemente dall'intervento successivo dei carabinieri.
In ultimo, viene contestato il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
La Corte ha conferma la decisione di negarle, considerando la gravità dei fatti, specialmente perché la vittima era incinta al momento dei fatti.
La sentenza di appello è stata annullata parzialmente senza rinvio per il reato di maltrattamenti in famiglia, estinto per prescrizione.
Il reato di minaccia viene assorbito nei maltrattamenti.
2. La massima
Il reato di maltrattamenti in famiglia assorbe il delitto di cui all'art. 612 c.p. a condizione che le minacce rivolte alla persona offesa non siano frutto di un'autonoma ed indipendente condotta criminosa, ma costituiscano una delle condotte mediante le quali si realizza il reato di maltrattamenti (Cassazione penale , sez. VI , 25/02/2021 , n. 17599).
Fonte: Ced Cassazione Penale
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3. La sentenza integrale
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa dalla Corte di appello di Roma il 27 giugno 2019, all'esito di giudizio abbreviato, C.P. veniva riconosciuto colpevole in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia, lesioni personali, minaccia e violenza privata, commessi ai danni di P.D.C. e condannato alla pena complessiva di anni uno, mesi quattro e giorni venti di reclusione, nonchè al risarcimento del danno in favore della parte civile.
2.1. Con il primo motivo di ricorso, l'imputato deduce violazione di legge in ordine all'applicazione dell'art. 572 c.p., evidenziando come i fatti per i quali è intervenuta condanna si sarebbero integralmente svolti prima della modifica della suddetta norma incriminatrice, apportata dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172, che ha esteso il reato anche alle condotte poste in essere ai danni di persone "comunque conviventi", sicchè il reato in oggetto non sarebbe configurabile nel caso di specie, atteso che l'imputato e la persona offesa non erano legati da rapporti familiari.
2.2. Con il secondo motivo, l'imputato lamenta cumulativamente violazione di legge e vizio motivazionale con riguardo alla sussistenza del reato di cui all'art. 612 c.p..
In punto di fatto, si afferma che la condotta posta in essere difetterebbe dell'idoneità intimidatoria, evidenziando che le minacce sarebbero state profferite alla presenza dei carabinieri, il che escluderebbe qualsivoglia possibile sviluppo degenerativo. In ogni caso, si afferma che il reato di minaccia dovrebbe considerarsi assorbito nel più grave delitto di maltrattamenti.
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), l'insussistenza del reato di violenza privata, che sarebbe stato commesso dall'imputato impedendo alla persona offesa di terminare la telefonata con la quale chiedeva l'intervento dei carabinieri, evidenziando come la richiesta era stata comunque effettuata, sicchè la condotta era del tutto inidonea a produrre l'offesa al bene giuridico tutelato.
2.4. Con gli ultimi due motivi di ricorso, cumulativamente formulati ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), si deduce il vizio di motivazione in merito alla mancata concessione delle attenuanti generiche, nonchè l'erroneo computo della pena sulla base dei limiti edittali previsti dal novellato art. 572 c.p., anzichè di quelli previsti prima della modifica apportata dalla L. n. 172 del 2012.
3. Con requisitoria scritta, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto l'annullamento senza rinvio limitatamente al mancato riconoscimento dell'assorbimento del reato di cui all'art. 612 c.p. nel più grave delitto di maltrattamenti in famiglia, nonchè l'annullamento con rinvio limitatamente alla rideterminazione della pena relativamente al reato di cui all'art. 572 c.p., ritenendo applicabile l'intervallo edittale ante riforma.
4. Il difensore della parte civile chiedeva la conferma della sentenza impugnata e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
5. Il difensore dell'imputato concludeva con memoria del 15 febbraio 2021, insistendo per l'accoglimento del ricorso e, in subordine, eccepiva l'intervenuta prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I motivi di ricorso sono parzialmente fondati con riguardo ai reati di maltrattamenti e minaccia, mentre sono inammissibili per quanto concerne il reato di violenza privata.
2. Con il primo motivo di ricorso, l'imputato contesta la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, premettendo che la condotta delittuosa sarebbe terminata prima dell'ottobre 2012, sicchè, all'epoca di consumazione del reato, non era entrata in vigore la riforma dell'art. 572 c.p., che ha esteso la fattispecie in questione alle condotte poste in essere ai danni di conviventi non legati da vincoli familiari.
Invero, anche prima della novella dell'art. 572 c.p., la giurisprudenza era consolidata nel ritenere che il reato di maltrattamenti in famiglia fosse configurabile anche nei confronti di persone conviventi non legati da vincoli
familiari. Si è affermato, infatti, che ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente more uxorio, atteso che il richiamo contenuto nell'art. 572 c.p. alla "famiglia" deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo. (Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, B., Rv. 239726; Sez. 6, n. 212329 del 24/01/2007, Gatta, Rv. 236757; Sez. 6, n. 12545 del 18/10/2000, Tourabi, Rv. 218173).
Rispetto al principio giurisprudenziale sopra richiamato, la modifica normativa dell'art. 572 c.p., estendendo la configurabilità del reato anche alle condotte maltrattanti poste in essere ai danni di persone "comunque conviventi", non ha fatto altro che recepire normativamente un principio che la giurisprudenza aveva già tratto dalla previgente formulazione della norma incriminatrice.
Quanto detto comporta che correttamente la Corte di appello ha ritenuto la sussistenza del delitto in questione, posto che - a prescindere dal fatto che la condotta sia cessata nel settembre del 2012, ovvero che sia proseguita anche dopo la riformulazione dell'art. 572 c.p. - il reato era in ogni caso configurabile anche se commesso ai danni di soggetto convivente e non legato da rapporti familiari.
2.1. La questione concernente la configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p., pur se non dirimente in relazione alla configurabilità del reato, deve essere ugualmente esaminata in relazione all'ultimo motivo di ricorso, relativo alla individuazione della forbice edittale applicabile al caso di specie.
Il ricorrente parte dal presupposto secondo cui la sentenza impugnata avrebbe erroneamente stabilito la prosecuzione del reato di maltrattamenti anche dopo la data del 12 settembre 2012, il che avrebbe comportato che la cessazione dell'abitualità si sarebbe collocata in epoca successiva al 1 ottobre 2012, data di entrata in vigore della L. n. 172 di modifica dell'art. 572 c.p..
Il motivo di ricorso è fondato, posto che la sentenza di appello, pur affrontando la questione in maniera estremamente sintetica e utilizzando una locuzione non particolarmente chiara, ha ritenuto che "successivamente il (OMISSIS), la donna veniva collocata con il figlio presso un istituto di suore in zona e dove era ritornata, a distanza di qualche mese, dopo di aver ripreso la convivenza" (p. 3).
Quanto detto comporta che la convivenza tra l'imputato e la persona offesa deve ritenersi cessata nel settembre del 2012, senza che in epoca successiva siano state descritte specifiche condotte maltrattanti, idonee a porsi in termini di continuità con quelle pregresse e tali da far ritenere la prosecuzione del reato.
Invero, la Corte di appello ha evidenziato un evento successivo al (OMISSIS), consistito nell'invio di un SMS di minaccia da parte dell'imputato alla persona offesa. Tale condotta, che peraltro si colloca all'inizio di (OMISSIS) e, quindi, al di fuori della contestazione chiusa (indicante il termine di cessazione della condotta nel dicembre del 2012), non può comunque ritenersi idonea a far ritenere la commissione del reato in epoca successiva alla cessazione della convivenza.
Premesso che, per consolidata giurisprudenza, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p. la materialità del fatto deve consistere in una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un'unica intenzione criminosa di ledere l'integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze, ha errato la Corte di appello nel valorizzare un episodio singolo per ampliare il periodo di commissione del reato.
A ben vedere, infatti, l'invio di un SMS dal contenuto minatorio, a distanza di mesi dalla cessazione della convivenza e senza che nel frattempo siano emerse ulteriori condotte di maltrattamento, non può di per sè integrare l'abitualità della condotta richiesta dal reato di cui all'art. 572 c.p..
Quanto detto comporta che il motivo di ricorso formulato in ordine all'individuazione della forbice edittale applicabile è fondato, atteso che se la cessazione della permanenza si colloca in corrispondenza dell'interruzione della convivenza e, quindi, alla data del 12 settembre 2012, la pena prevista per il caso di specie è quella compresa tra 1 e 5 anni di reclusione, anzichè quella maggiore introdotta dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172, che ha innalzato la pena minima a 2 anni e la massima a 6 anni di reclusione.
Occorre aggiungere che l'aver ricondotto la fattispecie in esame nell'ambito della disciplina previgente rispetto alle modifiche ante riforma, esclude anche l'applicabilità del raddoppio del termine di prescrizione, parimenti previsto dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172, art. 4, comma 1, lett. a).
Alla luce di tali considerazioni, il motivo di ricorso deve ritenersi fondato con conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, essendo intervenuta la prescrizione del reato, atteso che il termine massimo pari a 7 anni e 6 mesi è interamente decorso.
3. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce cumulativamente vizio di motivazione e violazione di legge in ordine alla affermata sussistenza del reato di minaccia, ritenendo che la condotta posta in essere dall'imputato sarebbe priva di efficacia intimidatoria e, comunque, tale fattispecie dovrebbe ritenersi assorbita nel più grave reato di maltrattamenti in famiglia, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di questa sezione (Sez. 6 13898 del 28/03/2012, Rv. 252585; Sez. 2, n. 15571 del 13/12/2012, Rv. 255780).
3.1. Per quanto concerne il profilo inerente alla idoneità intimidatoria, è sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza secondo cui ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 612 c.p., che costituisce reato di pericolo, la minaccia va valutata con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto, sicchè non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo sufficiente che la condotta dell'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale della vittima (Sez. 5, n. 9392 del 16/12/2019, dep. 2020, Di Maggio, Rv. 278664; Sez. 2, n. 21684 del
12/02/2019, Bernasconi, Rv. 275819 - 02). Nel caso di specie, l'idoneità intimidatoria è rafforzata dall'inserimento delle minacce in una più ampia condotta maltrattante, peraltro, l'imputato ha mostrato una particolare pervicacia nel minacciare la persona offesa anche alla presenza dei carabinieri (capo B).
3.2. A fronte della ritenuta sussistenza del reato, va accolto il motivo di ricorso con il quale si lamenta la violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento dell'assorbimento del reato di minaccia nella più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia.
La Corte di appello ha escluso l'assorbimento limitandosi a valorizzare la diversità dei beni giuridici protetti.
Si tratta di una conclusione che non tiene conto dell'orientamento giurisprudenziale favorevole a ritenere l'assorbimento del reato di minacce in quello di maltrattamenti, ove le minacce siano funzionali alla vessazione della persona offesa (Sez. 6, n. 13898 del 28/03/2012, Rv. 252585; Sez. 6, n. 15571 del 13/12/2012, dep. 2013, Rv. 255780), per cui le minacce costituiscono una delle modalità di estrinsecazione della violenza morale propria della fattispecie prevista dall'art. 572 c.p. (Sez. 6, n. 33091 del 19/06/2003, Jardas, Rv. 226443).
Per converso l'assorbimento del reato di minacce non si realizza qualora tali comportamenti non siano finalizzati al maltrattamento (Sez. 1, n. 7043 del 09/11/2005, dep.2006, Rv. 234047) risultando frutto di un'autonoma ed indipendente condotta criminosa.
Nel caso di specie, le reiterate minacce - così come indicato nel capo di imputazione e riconosciuto in sentenza - costituiscono una delle condotte mediante le quali è stato commesso il reato di maltrattamenti, il che determina l'assorbimento della fattispecie meno grave in quella di cui all'art. 572 c.p..
Pertanto, una volta riconosciuta la fondatezza del motivo di ricorso, va dichiarato l'assorbimento del reato di minacce - contestato al capo B) - in quello di maltrattamenti di cui al capo A) cui consegue la dichiarazione di estinzione per intervenuta prescrizione, posto che anche tale condotta è cessata al più tardi alla data del (OMISSIS).
4. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Il ricorrente ha dedotto l'insussistenza del reato di violenza privata (contestato sub C) in quanto l'evento non si sarebbe realizzato, posto che nonostante l'imputato avesse costretto la persona offesa ad interrompere la telefonata in corso con i carabinieri, questi ultimi erano ugualmente intervenuti.
La prospettazione difensiva non può essere accolta, posto che la violenza si è consumata nel momento stesso in cui l'imputato ha costretto la persona offesa ad interrompere la conversazione, a nulla rilevando che ciò non abbia impedito l'effettivo intervento di soccorso, essendo questo un fatto ulteriore e diverso rispetto alla coartazione subita dalla persona offesa.
Per consolidata giurisprudenza, infatti, l'elemento oggettivo del delitto di violenza privata è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata. Nel caso di specie, la violenza ha avuto l'effetto di impedire alla persona offesa di proseguire la telefonata in corso con i carabinieri, sicchè l'evento del reato consistente nell'interruzione della conversazione - si è certamente realizzato.
L'inammissibilità del motivo di ricorso concernente il reato di violenza privata (capo C) impedisce la declaratoria di prescrizione, posto che la causa estintiva è maturata in epoca successiva rispetto alla pronuncia della sentenza di condanna del 27 giugno 2019
Nè rileva il fatto che il ricorso non sia stato considerato nel suo complesso manifestamente infondato.
Per consolidata giurisprudenza, infatti, nel caso di ricorso avverso una sentenza di condanna cumulativa, che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato, l'autonomia dell'azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l'ammissibilità dell'impugnazione per uno dei reati possa determinare l'instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali i motivi dedotti siano inammissibili, con la conseguenza che per tali reati, nei cui confronti si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966 - 01).
5. L'ultimo motivo di ricorso, concernente il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche è manifestamente infondato. La sentenza impugnata, infatti, ha adeguatamente motivato le ragioni del diniego, precisando che la condotta delittuosa doveva considerarsi di particolare gravità e, quindi, incompatibile con il giudizio sotteso al riconoscimento delle attenuanti generiche, in quanto era stata posta in essere nei confronti di una donna incinta e per tutto il periodo della gravidanza.
Si tratta di una valutazione immune da vizi di ordine logico, posto che valorizza la condizione soggettiva di particolare vulnerabilità della persona offesa e che non è suscettibile di essere diversamente valutata in sede di legittimità.
6. All'esito del presente giudizio, la pena irrogata all'imputato va rideterminata, stante l'intervenuta prescrizione in ordine al reato di maltrattamenti in famiglia e l'assorbimento del reato di minacce, sicchè residua unicamente la condanna per il reato di violenza privata, rispetto al quale è stata dichiarata l'inammissibilità del ricorso.
La rideterminazione della pena non può essere compiuta in sede di legittimità, rendendosi necessarie valutazioni di merito, tanto più che la Corte di appello ha operato una determinazione cumulativa della pena, senza distinguere i singoli aumenti previsti per i diversi reati per i quali è intervenuta condanna.
Ne consegue che, la Corte di appello dovrà procedere alla rideterminazione della pena prevista per le residue imputazioni contenute ai capi B) e C), relativamente ai reati di violenza privata e di lesioni personali, fattispecie quest'ultima per la quale non è stato proposto ricorso per cassazione.
7. Va, infine, confermata la condanna dell'imputato al risarcimento del danno liquidato in favore della parte civile costituita, posto che sul punto non è stato formulato alcun specifico motivo di ricorso, nè l'intervenuta prescrizione dei reati di maltrattamenti e minacce fa venir meno la sussistenza della responsabilità civile.
Deve rilevarsi, infatti, come il parziale annullamento della sentenza di condanna è fondato su motivi che non escludono la sussistenza del fatto, la sua riferibilità all'imputato e la idoneità a produrre il danno lamentato dalla parte civile.
Alla conferma delle statuizioni civili consegue la condanna al pagamento delle spese di giudizio in favore della parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all'art. 572 c.p. (capo A), in esso assorbito il reato di cui all'art. 612 c.p. (capo B), perchè estinto per intervenuta prescrizione.
Conferma le statuizioni civili.
Dichiara il ricorso inammissibile nel resto e rinvia per la rideterminazione della pena ad altra sezione della Corte d'appello di Roma.
Condanna l'imputato alla refusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa ai patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Roma con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2021