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Minaccia: non è necessaria la presenza della persona offesa (Cassazione penale n. 38387/17)


Reato di minaccia (art. 612 c.p.)

La massima

Ai fini della configurabilità del delitto di minaccia, non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest'ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell'agente di produrre l'effetto intimidatorio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la minaccia di morte proferita dall'imputato dinanzi agli agenti penitenziari ai danni di un altro detenuto, non presente, abbia comunque prodotto in quest'ultimo, alla luce degli eventi successivi e delle misure di protezione adottate a sua tutela, uno stato di turbamento psichico idoneo a configurare il reato - Cassazione penale , sez. V , 01/03/2017 , n. 38387).

Fonte: Ced Cassazione Penale


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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 4.3.2016 la Corte d'appello di Palermo confermava la sentenza del locale Tribunale del 10.4.2014 con la quale D.G. era stato condannato alla pena di mesi tre di reclusione, per il reato di cui all'art. 612 c.p., per avere minacciato un grave ed ingiusto danno a F.S. (coimputato nel procedimento penale n. 4255/06 r.g.n.r. mod. 21 D.D.A., che stava rendendo interrogatorio nel corso del suddetto processo e che veniva a conoscenza della minaccia), dicendo agli agenti di polizia penitenziaria, in servizio presso l'aula-bunker di (OMISSIS) "non mi mettete, più nella stessa cella il detenuto F., altrimenti ve lo ammazzo qui davanti a voi", in tal modo suscitando nel destinatario della sua condotta grave timore per la propria incolumità personale.


2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando:


- con il primo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per erronea applicazione della legge penale e mancanza della motivazione rispetto alla sussistenza dell'elemento materiale del delitto contestato e, comunque, della circostanza aggravante di cui all'art. 612 c.p., comma 2, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti specificamente indicati ed allegati; invero, la Corte territoriale ha ritenuto grave la minaccia profferita, senza però valutare l'idoneità in concreto di questa ad arrecare pressione o turbamento psichico, ossia ad intimidire F.S., in rapporto al tenore della stessa, alle dichiarazioni rese nel corso del dibattimento del primo grado ed in rapporto al contesto "storico" nel quale l'espressione stessa si inserisce; lo stesso F., peraltro, ha evidenziato di aver conosciuto il D. soltanto in occasione dell'udienza presso l'aula-bunker della Casa Circondariale di (OMISSIS), per cui non ha avvertito, neppure in minima parte, ripercussioni della minaccia a lui contestata; ma, ancor più, tale minaccia non è venuta conoscenza della p.o., sebbene su tale circostanza non sia stato condotto alcun giudizio da parte della Corte di Appello di Palermo, nè ex ante, rispetto alla idoneità della minaccia, nè ex post, rispetto alla percepibilità della stessa da parte del F.; la frase è stata pronunciata dal D. rivolgendosi soltanto agli agenti di polizia penitenziaria ed il concetto di minaccia postula un rapporto tra minacciante e minacciato, da cui discende la necessità, ai fini della consumazione del reato, che il soggetto passivo percepisca la minaccia, direttamente, o a mezzo di terzi, percezione questa che nella fattispecie non vi è stata;


- con il secondo motivo, la ricorrenza dei vizi di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione alla circostanza aggravante di cui all'art. 612, comma 2, c.p., atteso che la Corte territoriale non ha apprezzato la gravità della minaccia, in relazione al tenore delle espressioni verbali profferite ed al contesto della pronuncia, essendosi limitata a ritenere che la ripetuta minaccia di morte integrasse senza dubbio l'ipotesi del capoverso dell'art. 612 c.p.; a tale conclusione il giudice di merito è giunto senza considerare la peculiarità della complessiva vicenda, connotata da un impulsivo eccesso d'ira dell'imputato, che si è innescato per un equivoco: invero, egli si è sentito ingiustamente accusato dal F., quando- durante l'interrogatorio reso presso l'aula bunker nel procedimento penale in cui era coimputato con il ricorrente medesimo - costui si è riferito ad un altro soggetto realmente esistente, che ha cognome assai simile al suo, tale Dr.; ebbene, l'assonanza tra i due cognomi ha prodotto l'equivoco che ha suscitato uno sfogo estemporaneo del ricorrente, inidoneo a limitare la libertà psichica del F.; pertanto, le dichiarazioni del F., il tenore delle espressioni verbali ed il contesto della loro pronuncia, danno conto dell'assenza o, quantomeno della limitata entità, di un turbamento psichico che avrebbe potuto investire la persona offesa e, comunque, dimostrano che lo stesso non è qualificabile in termini di gravità ai sensi del capoverso dell'art. 612 c.p..


CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso non merita accoglimento.


1. Il primo motivo di ricorso ruota innanzitutto intorno alla questione della configurabilità del reato di minaccia, essendo stata la frase oggetto di contestazione pronunciata dal D. rivolgendosi agli agenti di polizia penitenziaria in servizio presso l'aula-bunker di (OMISSIS) ("non mi mettete, più nella stessa cella il detenuto F., altrimenti ve lo ammazzo qui davanti a voi") e non al F., riguardo al quale, peraltro, deduce il ricorrente, neppure vi sarebbe la prova che ne sia venuto a conoscenza.


1.1. Tale deduzione è infondata, dovendosi in proposito richiamare quanto evidenziato da questa Corte, secondo cui ai fini della configurabilità del delitto di minaccia non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest'ultima venirne a conoscenza anche attraverso altre persone, purchè ciò si verifichi in un contesto dal quale possa desumersi che il soggetto attivo abbia avuto la volontà di produrre l'effetto intimidatorio. (Sez. 6, n. 8898 del 03/12/2010, Rv. 249634).


2.2. Orbene, nel caso di specie, non può esservi dubbio che l'imputato abbia avuto la volontà di produrre l'effetto intimidatorio nei confronti del F., stante l'oggettivo tenore della frase pronunciata, indirizzata allo stesso, suo coimputato, proprio mentre rendeva interrogatorio. La circostanza secondo la quale si sarebbe trattato di un equivoco avendo il F. reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di tal Dr. è stata ritenuta, in sostanza, senza illogicità, implausibile tenuto conto del contenuto della minaccia e del contesto temporale in cui si sono svolti i fatti, trovandosi in quel periodo l'imputato proprio nella stessa cella del F.. Per quanto concerne, poi, la mancata percezione da parte del F. della minaccia a lui rivolta tramite gli agenti di Polizia Penitenziaria tale deduzione risulta smentita da quanto esaustivamente evidenziato nella sentenza di primo grado, da leggersi in uno a quella di appello, costituendo entrambe un unicicum inscindibile, fondendosi ed integrandosi a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione. Dalla prima sentenza emerge, infatti, che all'esito dell'interrogatorio del F., quest'ultimo veniva trasferito in una cella diversa da quella condivisa con il D., nonchè veniva disposto il divieto di incontro tra gli stessi, sicchè tali circostanze fattuali in sè danno ampiamente conto del fatto che il F. sia venuto, comunque, a conoscenza della minaccia rivoltagli. Inoltre, a dimostrazione di ciò il giudice di primo grado ha evidenziato come lo stesso F., il giorno successivo ai fatti, chiedesse un incontro con il coordinatore del reparto, in quanto era stato avvicinato da alcuni compagni di cui non voleva indicare le generalità, che lo avevano invitato a lasciare la Sezione, con ciò temendo per la sua incolumità, timore questo che determinava lo spostamento ulteriore dello stesso nella Sezione dei cd. detenuti protetti.


2.3. Tali elementi, dunque, come in sostanza ritenuto dai giudici di merito, danno inequivocamente conto del fatto che il F. - a prescindere da quanto da lui dichiarato in un secondo momento - è venuto pienamente a conoscenza della minaccia, restandone intimorito e che il D. ha avuto la volontà di produrre l'effetto intimidatorio.


3. Infondato si presentano altresì le restanti censure del primo motivo nonchè del secondo motivo di ricorso, in merito all'insussistenza dell'aggravante di cui al secondo comma. Non illogico, infatti, si presenta il ragionamento dei giudici di merito, secondo cui la minaccia di uccidere il F. davanti agli agenti di Polizia Penitenziaria, ove fosse stato messo nella stessa cella dell'imputato, è da ritenersi minaccia grave, idonea ad integrare l'ipotesi di cui all'art. 612 c.p., comma 2, per le modalità ed il contesto nel quale è stata resa.


Nel caso di minaccia grave, come quella in esame, ai fini della configurabilità del reato, rileva l'entità del turbamento psichico che l'atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo; pertanto, non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata, potendo benissimo, ancorchè pronunciata in modo generico, produrre un grave turbamento psichico, avuto riguardo alle personalità dei soggetti (attivo e passivo) del reato (Sez. 5, n. 44382 del 29/05/2015).


4. Alla stregua di tutto quanto evidenziato, pertanto, il ricorso va respinto ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


Così deciso in Roma, il 1 marzo 2017.


Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2017



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