La massima
Ricorre la circostanza aggravante dell'utilizzo del metodo mafioso, di cui all'art. 416-bis.1 c.p., quando l'azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile l'aggravante in relazione alle minacce profferite in udienza da un soggetto imputato per il reato di associazione mafiosa, per il grave turbamento indotto nella persona offesa dal timore di fronteggiare possibili azioni punitive dei complici e dei parenti dell'imputato - Cassazione penale sez. V, 26/01/2021, n.14867).
Fonte: Ced Cassazione Penale
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La sentenza integrale
FATTO E DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Genova confermava la sentenza con cui il tribunale di Imperia, in data 15.3.2016, aveva condannato M.V. alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, in relazione al reato ex art. 612 c.p., comma 2 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, in rubrica ascrittogli.
Al M., in particolare, viene addebitato di avere minacciato ad A.C. ingiusti e gravi danni, dicendogli, durante una pausa dell'udienza del processo in corso a suo carico, per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., e reati connessi, "tu ridi perché io sono qui dentro, se ero fuori ti assicuro che non ridevi più", con l'aggravante, per l'appunto, di avere commesso il fatto avvalendosi della forza di intimidazione, derivante dal vincolo associativo.
2. Avverso la sentenza della corte di appello, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla ritenuta sussistenza sia della circostanza aggravante ex art. 612 c.p., comma 2, che della circostanza aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, di cui non ricorrono i presupposti.
3. Con requisitoria scritta del 7.1.2021, depositata sulla base della previsione del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, che consente la trattazione orale in udienza solo dei ricorsi per i quali tale modalità di celebrazione é stata specificamente richiesta da una delle parti, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione chiede che il ricorso venga parzialmente accolto, con riferimento alla esclusione della circostanza aggravante di cui all'art. 416 bis.1, c.p..
4. Il ricorso é infondato e non può essere accolto.
5. Ed invero non può non rilevarsi la completezza dell'apparato motivazionale, con cui il giudice di merito ha correttamente qualificato in termini di gravità le minacce rivolte alla persona offesa dall'imputato, in un contesto di evidente pericolo per la persona offesa, in modo da sottolinearne l'idoneità minatoria, conformemente al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 2.3.1989, n. 9082, rv. 181716; Cass., sez. I, 28.5.1987, n. 11525, rv. 176995; Cass. sez. V, 23.1.2012, n. 11621).
Nel delitto di minaccia, infatti, l'atto intimidatorio é fine a se stesso e per la sussistenza del reato si richiede solo che l'agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa condotta, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta stessa ad intimorire e irrilevante l'indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, 2.3.1989, n. 9082, rv. 181716; Cass., sez. I, 28.5.1987, n. 11525, rv. 176995; Cass. sez. V, 23.1.2012, n. 1.1621).
Orientamento ribadito anche in altro recente arresto di questa Sezione, condiviso dal Collegio, secondo cui in tema di reati contro la persona, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave, ex art. 612 c.p., comma 2, rileva l'entità del turbamento psichico determinato dall'atto intimidatorio sul soggetto passivo, che va accertata avendo riguardo non soltanto al tenore delle espressioni verbali profferite ma anche al contesto nel quale esse si collocano (cfr. Cass., Sez. 5, n. 8193 del 14/01/2019, Rv. 275889).
Orbene la corte territoriale ha reso una motivazione assolutamente conforme ai principi fatti propri dalla giurisprudenza di legittimità, approfondendo, in particolare, il contesto in cui le frasi vennero pronunciate, che ne ha esaltato la potenzialità minatoria, determinando un evidente turbamento della persona offesa, cui erano inequivocabilmente dirette.
L'imputato, infatti, pronunciò tali frasi nel corso della celebrazione del dibattimento sorto a suo carico con l'accusa di avere fatto parte di un'associazione a delinquere di stampo mafioso, riconducibile alla ‘ndrangheta, processo al quale partecipava in stato di detenzione cautelare in carcere, all'indirizzo non di un soggetto qualunque, ma proprio dell' A., a sua volta direttamente interessato all'andamento ed all'esito del giudizio, nella sua qualità di presidente della "(OMISSIS)", "associazione di volontariato con finalità di contrasto alle associazioni criminali ed operante nel ponente ligure, che, come risultava da intercettazioni effettuate dalla P.G. nell'ambito di quella indagine, era stata interessata da alcune conversazioni concernenti anche la persona dello stesso A., con minacce esplicite anche di morte".
La corte ha, inoltre, evidenziato come, ben conoscendo la dimensione criminale dell'imputato (che effettivamente venne poi condannato con sentenza passata in giudicato alla pena di anni tredici di reclusione per i reati contestatigli nell'ambito del menzionato procedimento) e della sua "famiglia", l' A., in tutta evidenza proprio perché intimorito dalla presenza in aula di parenti dei detenuti e di alcuni imputati a piede libero, era sbiancato (come riferito dal teste Mo., con affermazione non contestata dal ricorrente) e aveva preferito, come affermato dalla stessa persona offesa, non replicare, salvo poi recarsi, nella stessa mattina in cui si verificò l'episodio, a presentare denuncia/querela nei confronti del M..
Sicché appare dotata di intrinseca coerenza logica la motivazione della sentenza impugnata, nel passaggio in cui la corte di appello genovese ha evidenziato come la presenza in aula di parenti del M., insieme con altri imputati non detenuti, rendesse le frasi pronunciate da quest'ultimo dotate di idonea capacità di intimidazione, facendo sorgere nell' A. un comprensibile timore per la propria incolumità, venendo egli pubblicamente additato dal ricorrente di fronte ai suoi sodali e ai suoi familiari come un possibile bersaglio su cui riversare la propria ira, logicamente determinata dal ruolo svolto dalla persona offesa nell'ambito del procedimento penale, che vedeva tratto a giudizio l'imputato.
Non va, inoltre, taciuto che, proprio perché , come evidenziato da tempo risalente dalla migliore dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, per integrare il delitto di cui all'art. 612, c.p., non rilevano i modi o le forme attraverso le quali può manifestarsi la minaccia, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento idoneo ad incutere timore (cfr. Cass., 24.1.1956, S.), essa può manifestarsi anche in maniera implicita, larvata, indiretta ed indeterminata, come nel caso in esame, essendo solo necessario, come si é detto, che sia idonea ad incutere timore nel soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente e alle condizioni soggettive della vittima (cfr. in questo senso, Cass., Sez. 2, n. 37526 del 16/06/2004, Rv. 229727).
Proprio il particolare contesto in cui vennero pronunciate le menzionate espressioni, come descritto nelle pagine precedenti, evidenzia la fondatezza anche della ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7, oggi contenuta nella norma di nuovo conio, di cui all'art. 416 bis.1, c.p.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità, con orientamento condiviso dal Collegio, ha sottolineato come la "ratio" della disposizione di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 non é soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando "metodi mafiosi" o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l'atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino "da mafiosi", oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi, quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata (cfr. Cass., Sez. 6, n. 582 del 19/02/1998, Rv. 210405).
I caratteri mafiosi del metodo utilizzato per commettere un delitto, d'altro canto, non possono essere desunti dalla mera reazione delle vittime alla condotta tenuta dall'imputato, ma devono concretizzarsi in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell'intimidazione derivante dall'organizzazione criminale evocata (cfr. Cass., Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Rv. 236628).
In questa prospettiva può, dunque, affermarsi che la circostanza aggravante dell'utilizzo del metodo mafioso, di cui all'art. 416 bis.1 c.p., é configurabile quando l'azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento ovvero di intimidazione, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune (cfr., in questo senso Cass., Sez. 2, n. 39424 del 09/09/2019, Rv. 277222).
Situazione che é esattamente quella verificatasi nel caso in esame, in cui l' A. venne gravemente turbato proprio dal timore di dovere fronteggiare i coimputati per reato associativo ovvero i parenti del M., quali esecutori materiali della volontà di punirlo, manifestata da quest'ultimo.
6. Al rigetto del ricorso, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2021