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Questioni in tema di diffamazione

di Alessandro D’Andrea



Sommario:


1. Premessa

Il reato di diffamazione, in particolar modo nella forma aggravata di cui all’art. 595, comma 3, cod. pen., è stato reiteratamente oggetto di considerazione nella giurisprudenza della Corte ancora nell’anno di riferimento, durante il quale sono state pronunciate numerose decisioni sul tema.

La maggior parte di esse ha riguardato l’individuazione dei limiti ermeneutici entro cui consentire la configurazione delle esimenti putative del diritto di cronaca e del diritto di critica, idonee ad escludere la responsabilità penale per ipotesi di condotte diffamatorie commesse a mezzo stampa.

Si tratta di paradigmi interpretativi particolarmente significativi e rilevanti, in quanto sovente espressi al precipuo fine di contemperare il rispetto di libertà e di diritti costituzionalmente e convenzionalmente garantiti in possibile contrasto tra loro.

Altre significative questioni, di diversa natura, sono state pure oggetto di vaglio durante il decorso anno, di cui è opportuno dar conto in una panoramica necessariamente parziale e incompleta delle pronunce di legittimità dettate in materia di delitto di diffamazione.


2. L’esimente del diritto di cronaca

Una prima decisione di interesse è la sentenza Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-01, nella quale è stato precisato, in tema di reato di diffamazione a mezzo stampa, che, ai fini della configurabilità dell’esimente putativa del diritto di cronaca giudiziaria, sul giornalista incombe l’onere di allegare concreti elementi di fatto idonei a giustificare l’erroneo convincimento in ordine alla veridicità della notizia, non essendo a tal fine sufficiente fare riferimento ad un generico affidamento in buona fede ad una fonte informativa non meglio indicata, a nulla rilevando che essa sia stata utilizzata anche da altre fonti di informazione. In termini generali, infatti, il riconoscimento di una causa di giustificazione putativa presuppone sempre l’adempimento dell’onere di allegazione da parte dell’imputato di elementi di fatto concreti idonei a giustificare le ragioni del proprio erroneo convincimento, non potendo essere desunti essi da meri parametri soggettivi.

Nel caso di specie, in particolare, la Corte ha escluso l’applicabilità dell’esimente putativa in favore di imputati che avevano omesso di indicare in giudizio la fonte da cui avevano appreso la notizia riportata, in tal maniera impedendo ab initio ogni possibile vaglio in ordine alla credibilità ed attendibilità della fonte informativa.

La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca, d’altro canto, è configurabile solo qualora, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il giornalista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’oggetto del suo narrato, così che la non veridicità del fatto non sia, comunque, imputabile ad una sua condotta colposa. Anche nel caso di affidamento ad una fonte informativa, pertanto, è necessario che il cronista abbia attentamente verificato i fatti narrati, offrendo la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti.

Per come ulteriormente chiarito nella suddetta sentenza, non può giustificare l’applicazione dell’esimente putativa la circostanza che la notizia falsa, di contenuto diffamatorio, sia stata riportata anche da parte di altri giornali, considerato che - alla stregua di quanto già precisato in Sez. 5, n. 35702 del 19/05/2015, Case, Rv. 265015-01 e Sez. 5, n. 45813 del 14/06/2018, S., Rv. 274123-01 - in tal caso l’agente si limita a confidare sulla correttezza e professionalità dei suoi colleghi, di fatto chiudendosi in un circuito autoreferenziale.

Nel solco del medesimo filone esegetico, la Corte ha, poi, osservato in Sez. 5, n. 14013 del 12/02/2020, Sasso, Rv. 278952-01, che il cronista che raccoglie notizie in via confidenziale dalle forze dell’ordine che hanno condotto un’operazione di polizia giudiziaria può invocare, qualora la notizia non risulti veritiera, la scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca solo a condizione che abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare l’informazione, offrendo la prova della cura posta negli accertamenti svolti per stabilire la veridicità dei fatti.

È stata, conseguentemente, ritenuta corretta l’affermazione di responsabilità di un cronista che, nel riportare la notizia di un arresto, aveva erroneamente indicato l’imputato come imparentato ad un esponente della criminalità organizzata, sulla scorta di un’informazione fornitagli confidenzialmente dall’ufficiale di polizia giudiziaria operante, senza, tuttavia, effettuare alcun successivo riscontro in ordine alla veridicità della notizia.

Il giornalista che riceve una confidenza da parte di un ufficiale di polizia giudiziaria, infatti, ha il preciso onere di accertare la veridicità dell’informazione acquisita, oltre che della sua rilevanza pubblica, atteso che la scriminante, anche olo putativa, del diritto di cronaca giudiziaria non gli può essere riconosciuta solo in ragione del presunto elevato livello di attendibilità della fonte confidenziale utilizzata, ove a ciò non si aggiunga il dovuto controllo della notizia ricevuta.

Sempre nella sentenza Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-02, è stato, poi, affermato che non è configurabile l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca qualora, nel riportare un evento storicamente vero, vengano pubblicate inesattezze non marginali e non riguardanti semplici modalità del fatto, ma che siano, invece, idonee a modificare la struttura essenziale di esso. Il requisito del rispetto della veridicità dei fatti divulgati, che solo consente, unitamente a quelli della rilevanza sociale e della continenza espressiva, di rendere applicabile la scriminante ex art. 51 cod. pen., non può, quindi, considerarsi rispettato ove l’evento fattualmente vero venga modificato nella sua struttura essenziale da rilevanti inesattezze espositive riportate nell’articolo.

In ragione dell’indicato principio, la Corte ha ritenuto legittima l’esclusione dell’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, almeno sotto il profilo putativo, in favore di un giornalista che, nel riferirsi ad un soggetto imputato e poi assolto, aveva erroneamente affermato che tale ultimo aveva avanzato una richiesta di patteggiamento, invece presentata da un altro individuo rinviato a giudizio per il medesimo fatto, nella ritenuta carenza del requisito della verità della notizia riportata, ritenendo che si trattasse di un’inesattezza non qualificabile come modesta e marginale, conseguenza di un errore riguardante semplici modalità del fatto, insuscettibile di modificarne la relativa struttura essenziale.

La pronuncia si conforma ad un orientamento esegetico già espresso in Sez. 5, n. 41099 del 20/07/2016, Carrassi, Rv. 268149-01, laddove era stata giudicata immune da censure la decisione che aveva negato la sussistenza dell’esimente dell’art. 51 cod. pen. nei confronti di un giornalista e di un direttore di giornale per la pubblicazione di un articolo che, nel riferirsi all’attività professionale di un medico veterinario, aveva falsamente esposto che questi aveva millantato un intervento chirurgico mai eseguito - in realtà, invece, effettuato, sia pur in maniera non corretta

Nello stesso senso, la Corte aveva ritenuto in Sez. 5, n. 28258 del 08/04/2009, Frignani, Rv. 244200-01, esente da censure la sentenza con cui il giudice di merito aveva riconosciuto la scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca in favore di un giornalista e di un direttore di giornale per la pubblicazione di un articolo concernente l’applicazione della custodia cautelare nei confronti di un chirurgo per il reato di cessione di stupefacenti, nel quale gli era stata attribuita la paternità di una conversazione, non presente nel testo dell’ordinanza cautelare, del seguente tenore: “sbrigati, mi serve quella cortesia, non ho più tempo, devo operare”, considerato che l’ordinanza cautelare aveva descritto tale medico come assiduo assuntore di sostanze stupefacenti, facendo, inoltre, espresso riferimento ad operazioni chirurgiche effettuate sotto l’effetto dell’eroina, per cui la notizia doveva essere considerata vera e di sicura rilevanza pubblica, mentre le espressioni attribuite al medico non apparivano idonee a poterla stravolgere.

Per come ritenuto in Sez. 5, n. 13702 del 17/12/2010, dep. 2011, Bellavia e altro, Rv. 250256-01, invece, non è configurabile l’esimente del diritto di cronaca in favore di un giornalista che abbia riportato, contrariamente al vero, l’intervenuto esercizio dell’azione penale nei confronti di un soggetto soltanto sottoposto ad indagini preliminari.

Diversamente, la divergenza tra la notizia pubblicata ed il reale stato del procedimento è stata considerata come una circostanza solo inesatta, e quindi alla stregua di una mera difformità di natura secondaria, in Sez. 5, n. 15093 del 27/01/2020, Gramaglia, Rv. 279152-01, nella quale è stato precisato che non integra un’ipotesi di diffamazione a mezzo stampa la divulgazione di una notizia d’agenzia riportante l’erronea affermazione che taluno sia stato raggiunto da una richiesta di rinvio a giudizio anziché da un avviso di conclusione delle indagini preliminari, dal momento che, in tal caso, la divergenza tra quanto propalato e l’effettivo stato del procedimento costituisce una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d’indagine funzionale alla sua progressione. Sebbene, infatti, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio giudizio si connotino per avere funzioni autonome e conseguenze distinte, rileva il fatto che trattasi, pur sempre, di atti processualmente “attigui”, per cui l’uno rappresenta il presupposto dell’altro, nel senso che dal primo tendenzialmente scaturisce la predisposizione del secondo.

Nella stessa linea interpretativa, la sentenza Sez. 5, n. 13782 del 29/01/2020, Kanellos, Rv. 278990-01, ha affermato, ad ulteriore precisazione, che, qualora la notizia venga mutuata da un provvedimento giudiziario, è configurabile l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria quando l’attribuzione del fatto illecito ad un soggetto sia rispondente a quella presente negli atti giudiziari e nell’oggetto dell’imputazione, sia sotto il profilo dell’astratta qualificazione che della sua concreta gravità, con la conseguenza che la causa di giustificazione non è invocabile ove il cronista attribuisca ad un soggetto un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione.

In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non scriminata l’attribuzione ad un soggetto di una condotta di bancarotta fraudolenta nell’ambito di un’indagine relativa ad un fallimento del valore di circa 100 milioni di euro, a fronte di un’imputazione di ricettazione prefallimentare di beni del valore di 900 mila euro. In tal maniera, infatti, è stata attribuita una condotta sostanzialmente diversa da quella riscontrabile negli atti giudiziari e nell’oggetto dell’imputazione, sia sotto il profilo dell’astratta qualificazione che sotto quello della concreta gravità del fatto ascritto.

Con riferimento, invece, alla pubblicazione del contenuto di una denuncia-querela, la Corte ha chiarito, in Sez. 5, n. 15086 del 29/11/2019, dep. 2020, Pierantozzi, Rv. 279083- 01, che può essere configurata l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria nel caso in cui il giornalista, nel rispetto della verità e della continenza, si limiti a riferire, sia pure nel loro minimum storico, senza arbitrarie aggiunte o indebite insinuazioni, i fatti di cui alla denunzia, ponendosi, rispetto ad essi, quale semplice testimone, animato da dolus bonus e da ius narrandi. Ciò non si verifica, invece, nel caso in cui si ravvisi un uso strumentale del fatto ancora sub iudice da parte del cronista, come nell’ipotesi in cui costui, attraverso arbitrarie integrazioni, aggiunte, commenti, insinuazioni, fotografie corredate da didascalie, faccia apparire come vera o verosimile la notitia criminis.

L’esimente del diritto di cronaca è stata considerata, sotto altro profilo, nella sentenza Sez. 5, n. 29128 del 17/09/2020, Coppola, Rv. 279775-01, ove ne è stata riconosciuta la possibilità di applicazione in favore del giornalista che riporti fedelmente le dichiarazioni, oggettivamente lesive dell’altrui reputazione, rilasciate da un personaggio pubblico nel corso di un’intervista, indipendentemente dalla veridicità e continenza delle espressioni riportate, per il prevalente interesse pubblico a conoscere il pensiero dell’intervistato in relazione alla sua notorietà, che non deve necessariamente essere intesa come sinonimo di autorevolezza a priori, da cui desumere l’affidabilità delle dichiarazioni, ma deve essere valutata anche in ragione della notorietà della persona offesa e delle vicende oggetto di propalazione.

Il principio è stato espresso con riferimento ad una fattispecie riguardante la pubblicazione di dichiarazioni lesive dell’onore e della reputazione di un magistrato, rese dal protagonista di una vicenda economico finanziaria di rilievo nazionale, in cui la Corte ha annullato la decisione che, sminuendo la rilevanza pubblica della posizione sociale dell’intervistato, aveva escluso la scriminante del diritto di cronaca per gli intervistatori e i direttori delle testate giornalistiche.

Tale pronuncia si colloca nell’alveo di un filone interpretativo originato dalla sentenza Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651, per la quale la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se “alla lettera”, dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe il dovere di controllare la veridicità delle circostanze e la continenza delle espressioni riferite. Essa, tuttavia, è da ritenersi penalmente lecita quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca, l’individuazione dei cui presupposti è riservata alla valutazione del giudice di merito che, se sorretta da adeguata e logica motivazione, sfugge al sindacato di legittimità.

Nel caso, pertanto, di pubblicazione di un’intervista, la comparazione tra contrapposti interessi deve risolversi sempre nella prevalenza di quello pubblico qualora la qualità soggettiva dell’intervistato sia essa stessa, per autorevolezza o speciale conoscenza della materia trattata, d’interesse pubblico, così finendo per far recedere la posizione individuale incisa nell’onore. Facendo applicazione del superiore insegnamento, che rimette all’apprezzamento del giudice di merito la ponderazione degli indicati parametri, sono stati valorizzati nel tempo apporti individuali espressivi del patrimonio culturale e delle modalità comunicative di una determinata realtà sociale, la cui conoscenza sia risultata di interesse per la collettività - così, ad esempio, in: Sez. 5, n. 43451 del 24/09/2001, D’Orta, Rv. 220255-01; Sez. 5, n. 4009 del 16/12/2004, dep. 2005, Scalfari, Rv. 230719-01 -, ribadendo, a tal fine, il necessario accertamento correlato alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al contesto in cui le dichiarazioni sono state rese, altresì richiedendo, in caso di accertamento negativo, pure la dissociazione dell’intervistatore per quanto dichiarato in diretta - così in Sez. 5, n. 42755 del 17/05/2016, Castaldo, Rv. 267957 -, ovvero l’assunzione di una posizione di imparzialità, come in particolare ritenuto in Sez. 5, n. 29209 del 12/03/2018, Blasotta, Rv. 273172-01, allorquando è stato affermato che ai fini della responsabilità del giornalista per un articolo che riproduce il contenuto diffamatorio di un manifesto pubblico con finalità di critica politica, occorre accertare se egli, nel riportare la notizia, si sia posto con la prospettiva di “terzo osservatore” dei fatti, ovvero sia stato solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, agendo contro il diffamato.

I superiori concetti sono presenti anche nella pronuncia Sez. 5, n. 51235 del 09/10/2019, Marincola, Rv. 278299-01, nella quale è stato ritenuto che il giornalista che effettua un’intervista può beneficiare dell’esimente del diritto di cronaca con riferimento alle dichiarazioni a lui rilasciate, anche se oggettivamente lesive dell’altrui reputazione, qualora vi sia un interesse a conoscere il pensiero dell’intervistato, per la sua autorevolezza o per la speciale conoscenza della materia, tuttavia rispondendo secondo gli ordinari parametri di valutazione (veridicità della notizia, continenza espositiva e interesse pubblico) per i commenti e le espressioni, poste a latere o a margine dell’intervista, che non si limitino a riassumerne il contenuto o a commentarlo, ma che riportino fatti o opinioni diversi o anche antagonisti rispetto al contenuto delle dichiarazioni rilasciate.

Nella sentenza Sez. 5, n. 16959 del 21/11/2019, dep. 2020, Le Betulle Casa di Cura S.r.l. C/Tiengo, Rv. 279203-01, infine, è stato ulteriormente ribadito, in termini conformi, che il giornalista che effettua un’intervista può beneficiare dell’esimente del diritto di cronaca con riferimento al contenuto delle dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie a lui rilasciate, se riportate fedelmente ed in modo imparziale, senza commenti e chiose capziose a margine - tali da renderlo dissimulato coautore - e sempre che l’intervista presenti profili di interesse pubblico all’informazione, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, al suo oggetto e al contesto delle dichiarazioni rilasciate.


3. Il diritto di critica

Anche l’esimente del diritto di critica è stato oggetto di interessanti pronunce durante il decorso anno, sia applicative di pregressi insegnamenti che espositive di principi sostanzialmente originali.

La Corte, in primo luogo, si è occupata, in due distinte decisioni, della tematica dei limiti di continenza entro cui la critica può essere espressa, così da consentire il riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, di cui all’art. 51, comma 1, cod. pen. È stato dapprima affermato, in Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019, dep. 2020, Cascio, Rv. 279084-01, che l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, pur tuttavia consentendosi l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto privi di equivalenti adeguati.

Il diritto di critica, pertanto, deve essere espresso utilizzando modalità formali sempre confinate nei limiti del rispetto e della correttezza, senza che da ciò derivi, tuttavia, l’assoluta impossibilità di attingere a terminologie che, anche se ex se irriguardose, siano comunque uniche ed insostituibili per consentire l’esercizio della critica.

Nell’applicare il concetto al caso di specie, la Corte ha ritenuto configurabile l’indicata scriminante, per non essere stati travalicati i limiti di esercizio della critica, in un caso di utilizzo, in una pagina Facebook, dell’epiteto “idiota” nei confronti di un poliziotto, non identificato nominativamente, che aveva sparato dei colpi di arma da fuoco in pieno centro cittadino per arrestare la fuga degli autori di un reato. Tale offesa non è stata considerata un’immotivata e gratuita aggressione all’altrui sfera personale, ed anzi è parsa in termini di stretta riferibilità e attinenza all’accadimento fattuale oggetto di critica, intendendosi con essa unicamente stigmatizzare l’uso eccessivo della forza, sproporzionato rispetto al reato e alle condizioni di tempo e di luogo in cui il fatto si era svolto. L’epiteto adoperato, non particolarmente aspro e pungente, è, in particolare, apparso non sproporzionato rispetto a quanto si era inteso rappresentare in relazione ad una situazione che, all’evidenza, si prestava ad essere oggetto di una qualche critica, presentando aspetti suscettibili di essere ritenuti gravi.

Il principio espresso si riferisce ad un orientamento ermeneutico reiteratamente affermato da parte della giurisprudenza della Corte.

Nella sentenza Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442-01, ad esempio, era stato ritenuto che l’utilizzo del termine “incompetente” nei confronti di un architetto, con riferimento al suo operato tecnico, non esorbitasse, di per sé, dai limiti della critica consentiti, dovendo il giudice di merito accertare se fosse possibile rilevare nei suoi confronti una carenza di capacità professionale di grave natura, alla quale sola va commisurata la portata dell’indispensabilità funzionale della critica così come formulata.

In termini analoghi, nella sentenza Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866-01, era stato affermato che l’utilizzo del termine “puttaniere” in un contesto familiare, da parte di una donna nei confronti del coniuge dopo che la stessa ne aveva scoperto una convivenza more uxorio, non esorbitasse, di per sé, dai limiti della critica consentiti, avendo lo stesso un’accezione, comune per la lingua italiana, di “donnaiolo, playboy o uomo alla ricerca di avventure passeggere”, compatibile con il requisito della continenza.

Ancor prima, in Sez. 5, n. 11950 del 08/02/2005, Mercenaro ed altri, Rv. 231711-01, era stato precisato che il requisito della continenza delle espressioni utilizzate, indispensabile per la ravvisabilità dell’esimente del diritto di critica, presenta una sua necessaria elasticità e non è necessariamente escluso dall’uso di un epiteto infamante, dovendo la valutazione del giudice del merito soppesare se il ricorso ad aggettivi o frasi particolarmente aspri sia o meno funzionale all’economia dell’articolo, alla luce della eventuale assoluta gravità oggettiva della situazione rappresentata. Conformemente al principio, la Corte aveva ritenuto applicabile la causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. ad un giornalista che aveva definito “bestiale e torturatore” un pubblico ministero, in ragione delle scelte effettuate con riguardo al trattamento di un detenuto, in presenza di un procedimento disciplinare conclusosi con sentenza di condanna.

Nella sentenza Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174-01, era stato osservato, quindi, che il limite della continenza nel diritto di critica risulta superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Il contesto nel quale la condotta si colloca può essere valutato, pertanto, ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può in alcun modo scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale. In applicazione di tale assunto, è stata considerata immune da censure la decisione con cui il giudice di merito aveva escluso la scriminante del diritto di critica in favore di imputati che avevano affisso nelle bacheche aziendali e diffuso con volantini un comunicato in cui, contestando la posizione dissenziente di un iscritto alla C.G.I.L., lo si era definito “notoriamente imbecille”.

In tale filone esegetico si colloca anche la seconda sentenza che, durante il trascorso anno, ha affrontato la questione dei limiti di continenza entro cui il diritto di critica può essere legittimamente esercitato.

Si tratta della pronuncia Sez. 5, n. 17243 del 19/01/2020, Lunghini, Rv. 279133-01, nella quale è stato, in particolare, ribadito che l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, abbiano anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato. La Corte ha, conseguentemente, ritenuto di non poter considerare esorbitante rispetto ai limiti di una critica legittima l’accusa di “assoluta incapacità ad organizzare il reparto” rivolta al direttore di un Pronto Soccorso da un consigliere del comitato consultivo di un’Azienda Ospedaliera che, nell’esercizio delle proprie funzioni di controllo dell’attività e dell’organizzazione aziendale, aveva evidenziato reali disservizi organizzativi, sollecitando l’effettuazione dei dovuti controlli. In tal maniera, infatti, erano stati esposti fatti veri, di indubbio interesse pubblico, utilizzando un’espressione rivelatrice non di un attacco alla persona, o di una finalità meramente denigratoria, ma di una critica, per quanto aspra, alle capacità organizzative del direttore del reparto di Pronto Soccorso.

Un diverso insegnamento, di natura sostanzialmente innovativa, lo si rinviene in Sez. 5, n. 17259 del 06/03/2020, Mauro, Rv. 279114-01, in cui la Corte ha affermato che il diritto di critica del giornalista non può essere svilito, limitandolo alla esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta riproduzione, sicché non può essere negato al cronista il diritto di ricercare e di riferire al lettore legami, rapporti e relazioni, dirette o indirette, immediate o mediate, quando questi elementi risultino oggettivamente sussistenti.

Il diritto di critica rappresenta un cardine dello Stato democratico, per cui la valenza offensiva di un’espressione utilizzata non può essere oggetto di immediata repressione, ma deve, invece, essere riferita al contesto globale in cui essa è stata pronunciata. La critica, infatti, è per la Corte espressione di un giudizio valutativo che, postulando l’esistenza di un fatto, necessita di un’immediata rappresentazione, purché ciò avvenga nel rispetto di una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da rendere. Anche il rispetto della verità del fatto finisce per assumere un rilievo maggiormente limitato rispetto al diritto di cronaca, osservato che la critica, quale espressione di un’opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che, per definizione, non può pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica.

Il diritto di critica, quale valore fondante fissato nella Costituzione, deve, pertanto, prevedere l’assoluta libertà di scelta dell’argomento su cui articolare l’esposizione del pensiero, per cui, sempre che esso rispetti il criterio della verità del fatto e della sussistenza dell’interesse sociale a conoscere la critica, deve ritenersi consentita l’esposizione di opinioni personali lesive dell’altrui reputazione, purché ciò avvenga attraverso un uso misurato del linguaggio.

Tale approccio ermeneutico, d’altro canto, si conforma ai principi espressi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha reiteratamente osservato come l’incriminazione per diffamazione costituisca, di per sé, un’interferenza con la libertà di espressione, che può essere tollerata solo nei limiti in cui essa venga prescritta espressamente per legge. La stampa deve essere libera ed ha il dovere ed il diritto di informare il pubblico su tutte le questioni di interesse generale.

In ultima analisi, una mera esatta riproduzione dei fatti finisce per svilire l’esercizio della critica, che, a differenza della cronaca, si concretizza proprio nella libera manifestazione di un’opinione. È vero che essa presuppone comunque un accadimento storico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e non lo si può censurare per difetto di “obiettività”, altrimenti realizzandosi un’interferenza sproporzionata, incoerente e non necessaria, nel diritto alla libera espressione degli organi di stampa.

Ancora in termini di rilievo, in Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909-01, è stato affermato che ai fini della configurabilità dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica, che trova fondamento nell’interesse all’informazione dell’opinione pubblica e nel controllo democratico nei confronti degli esponenti politici o pubblici amministratori, è necessario che l’elaborazione critica non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui. La scriminante, cioè, può trovare applicazione solo ove ricorra il rispetto del requisito della verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica, con conseguente impossibilità del suo riconoscimento ove l’agente manipoli le notizie o le rappresenti in modo incompleto.

L’estensione del diritto di critica politica può perfino giungere a superare la necessità del riferimento a specifici fatti storici, ma non può mai prescindere dalla necessità di evitare qualsiasi travisamento o manipolazione di essi che ne determini una distorsione inaccettabile rispetto all’intento informativo dell’opinione pubblica che è alla base del riconoscimento dell’esimente, poiché quest’ultima radica le proprie basi ispiratrici nel consolidato principio che in democrazia a maggiori poteri corrispondono maggiori responsabilità e l’assoggettamento al controllo da parte dei cittadini, esercitabile anche attraverso il diritto di critica.

Conseguentemente, la Corte ha ritenuto corretta l’esclusione dell’esimente ex art. 51, comma 1, cod. pen., sia pure nell’ampia visione convenzionale del diritto alla libertà di espressione in contesti di critica politica, nel caso di un articolo di stampa che aveva attribuito ad un sindaco, senza alcun appiglio oggettivo e mediante travisamento o manipolazione dei fatti storici, il sospetto di mafiosità, per la gestione familiaristica e clientelare dell’amministrazione comunale.


4. Questioni ulteriori

A conclusione della presente esposizione è opportuno dar conto anche di alcune ulteriori pronunce rese dalla Corte durante il decorso anno, riguardanti questioni di interesse non direttamente afferenti alle esimenti del diritto di cronaca e del diritto di critica.

In primo luogo, rilevante è la sentenza Sez. 5, n. 10967 del 14/11/2019, dep. 2020, Mauro, Rv. 278790-01, nella quale è stato affermato che deve escludersi il carattere diffamatorio di una pubblicazione quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore cd. “frettoloso”), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell’articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l’immagine, l’occhiello, il sottotitolo e la didascalia.

In applicazione del principio, la Corte ha escluso, in assenza di offensività della pubblicazione, il carattere diffamatorio di un articolo che, riferendosi ad un medico condannato per falso, aveva riportato la foto di un altro medico che aveva posato per un servizio fotografico, ritenendo che si comprendesse agevolmente dall’articolo, dai sottotitoli e da un’intervista al presidente di un ordine dei medici riportata nella stessa pagina, che la foto effigiava un medico qualunque e non già quello specificamente condannato. Il lettore medio, infatti, solo ad un primo sguardo avrebbe potuto fraintendere l’identità della persona condannata, effettuando un’associazione tra il titolo e l’immagine pubblicata, mentre il complessivo contesto in cui fotografia e titolo erano inseriti avrebbe dovuto senz’altro indurre ad una lettura progressiva di tutti gli elementi utili a cogliere il reale significato della notizia.

Sempre in tema di diffamazione a mezzo stampa, la Corte ha precisato nella pronuncia Sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, dep. 2020, Parovel, Rv. 278318-01, che le notizie e le valutazioni esternate con espressioni dubitative o interrogative, se non corrispondenti al vero, possono ledere l’altrui reputazione quando le frasi utilizzate nel contesto della comunicazione, in quanto allusive, insinuanti e suggestive, siano idonee ad ingenerare nel lettore il convincimento dell’effettiva rispondenza a verità del fatto adombrato.

Il principio è stato, in particolare, affermato con riferimento ad una fattispecie avente ad oggetto un articolo di stampa in cui, sia pure in termini ipotetici, era stato veicolato il messaggio che un sindaco avesse potuto avallare una speculazione privata illecita mercificando la propria funzione.

Si tratta di un’esegesi, invero, già presente nella giurisprudenza della Corte, in quanto espressa sia in Sez. 5, n. 41042 del 17/06/2014, Scancarello, Rv. 260772-01 che, ancor prima, in Sez. 5, n. 45910 del 04/10/2005, Fazzo ed altri, Rv. 233039-01, nella quale era stato pure affermato, in termini conformi, che la pubblicazione di una notizia falsa, ancorché espressa in forma dubitativa, può ledere l’altrui reputazione allorché le espressioni utilizzate nel contesto dell’articolo siano ambigue, allusive, insinuanti ovvero suggestionanti, e perciò idonee ad ingenerare nella mente del lettore il convincimento della effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati, con la conseguenza che tale indagine è rimessa al giudice di merito e, se giustificata da adeguata motivazione, è incensurabile in sede di legittimità.

Nella sentenza Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468-01, è stato, invece, chiarito che spetta al giudice di merito accertare la ricorrenza dell’eccezionale gravità della condotta diffamatoria attributiva di un fatto determinato, che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sola giustifica l’applicazione della pena detentiva. La scelta di applicare la più grave sanzione, cioè, deve necessariamente passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie ascritte all’imputato, allo scopo di apprezzare la presenza in esse, o meno, di quella eccezionale gravità che unicamente consente il ricorso alla pena detentiva.

Il superiore ssunto trova, in particolare, autorevole riferimento nelle direttrici ermeneutiche indicate nella recente ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020, utili all’inquadramento dei limiti della compatibilità convenzionale della previsione, per la diffamazione a mezzo stampa, anche della pena detentiva, nell’ottica del rispetto dell’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 10 della CEDU.

Conformemente all’indicato principio, la Corte ha, altresì, precisato che assumono connotati di eccezionale gravità, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, le condotte di diffamazione che implicano un’istigazione alla violenza ovvero convogliano messaggi d’odio.

Deve essere dato conto, infine, del principio affermato in Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742-01, per cui integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, depenalizzato ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. c), d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, e non quello di diffamazione, la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video chat, alla presenza di altre persone in essa invitate, in quanto l’elemento distintivo tra i due reati è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione quest’ultimo resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore.


Indice delle sentenze citate

Sentenze della Corte di Cassazione


Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651 Sez. 5, n. 43451 del 24/09/2001, D’Orta, Rv. 220255-01


Sez. 5, n. 4009 del 16/12/2004, dep. 2005, Scalfari, Rv. 230719-01


Sez. 5, n. 11950 del 08/02/2005, Mercenaro, Rv. 231711-01


Sez. 5, n. 45910 del 04/10/2005, Fazzo, Rv. 233039-01


Sez. 5, n. 28258 del 08/04/2009, Frignani e altro, Rv. 244200-01 Sez. 5, n. 13702 del 17/12/2010, dep. 2011, Bellavia, Rv. 250256-01


Sez. 5, n. 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174-01


Sez. 5, n. 41042 del 17/06/2014, Scancarello, Rv. 260772-01


Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442-01


Sez. 5, n. 35702 del 19/05/2015, Case, Rv. 265015-01


Sez. 5, n. 42755 del 17/05/2016, Castaldo, Rv. 267957


Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C., Rv. 267866-01


Sez. 5, n. 41099 del 20/07/2016, Carrassi, Rv. 268149-01


Sez. 5, n. 29209 del 12/03/2018, Blasotta, Rv. 273172-01


Sez. 5, n. 45813 del 14/06/2018, S., Rv. 274123-01


Sez. 5, n. 51235 del 09/10/2019, Marincola, Rv. 278299-01


Sez. 5, n. 8 del 12/11/2019, dep. 2020, Parovel, Rv. 278318-01


Sez. 5, n. 10967 del 14/11/2019, dep. 2020, Mauro, Rv. 278790-01


Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-01


Sez. 5, n. 7008 del 18/11/2019, dep. 2020, Frignani, Rv. 278793-02


Sez. 5, n. 16959 del 21/11/2019, dep. 2020, Le Betulle Casa di Cura S.r.l. C/Tiengo, Rv. 279203-01


Sez. 5, n. 15086 del 29/11/2019, dep. 2020, Pierantozzi, Rv. 279083-01


Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019, dep. 2020, Cascio, Rv. 279084-01


Sez. 5, n. 17243 del 19/01/2020, Lunghini, Rv. 279133-01


Sez. 5, n. 15093 del 27/01/2020, Gramaglia, Rv. 279152-01


Sez. 5, n. 13782 del 29/01/2020, Kanellos, Rv. 278990-01


Sez. 5, n. 14013 del 12/02/2020, Sasso, Rv. 278952-01


Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742-01


Sez. 5, n. 17259 del 06/03/2020, Mauro, Rv. 279114-01


Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468-01


Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909-01


Sez. 5, n. 29128 del 17/09/2020, Coppola, Rv. 279775-01


 

Fonte: Rassegna Annuale 2020 - Ufficio del massimario - PARTE PRIMA QUESTIONI DI DIRITTO SOSTANZIALE --- SEZIONE I - LA PENA, reperibile qui https://www.portaledelmassimario.ipzs.it/frontoffice/rassegneAnnuali/54/dettaglioFull.do#13622



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