Relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo recante "Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205" approvata il 5.1.2000 dal Consiglio dei ministri.
Indice:
1. Premessa: Le linee generali dell’intervento
3. I delitti
3.1 I delitti in materia di dichiarazione
a) Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti
b) Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici
3.2 Le disposizioni sul tentativo e sulle valutazioni
3.3 I delitti in materia di documenti e pagamento di imposte
a) Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti
b) Occultamento o distruzione di documenti contabili
c) Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
4. Le disposizioni comuni
a) Le pene accessorie
d) Prescrizione
5. Rapporti con il sistema sanzionatorio amministrativo e tra procedimenti
b) Rapporti tra procedimento penale e processo tributario
6. Le disposizioni di coordinamento, transitorie e finali
Il presente decreto legislativo dà attuazione alla delega conferita dall’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205, che — in collegamento, da un lato, all’ampio intervento di depenalizzazione dei reati minori previsto dalla legge stessa e, dall’altro, alla vasta opera di riforma che ha recentemente interessato la materia fiscale — demanda al Governo di emanare, entro otto mesi dall’entrata in vigore della legge di delegazione, un decreto legislativo recante la nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.
Alla base della delega legislativa sta l’esigenza, profondamente avvertita, di superamento della strategia che informa la vigente regolamentazione, racchiusa nel titolo I del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, e successive modificazioni ed integrazioni: quella strategia, cioè, che ponendo prioritariamente l’accento sull’esigenza di emancipare il giudice penale dall’accertamento dell’imponibile e dell’imposta evasa, affida l’intervento repressivo al modello dei cosiddetti "reati prodromici", ossia a fattispecie criminose volte a colpire, indipendentemente da un’effettiva lesione degli interessi dell’erario, comportamenti ritenuti astrattamente idonei a "preparare il terreno" ad una successiva evasione.
Come è ben noto, i risultati pratici di siffatto approccio normativo alla materia sono risultati largamente insoddisfacenti.
Frantumando il comparto punitivo in un pletorico complesso di figure criminose dall’impronta marcatamente "casistica", che si prestano a qualificare penalmente anche condotte concretamente prive di collegamento oggettivo e soggettivo con l’evasione d’imposta, esso ha determinato una eccessiva proliferazione dei procedimenti per reati tributari, gran parte dei quali relativi a fatti di scarsa rilevanza per gli interessi del fisco, con conseguente sovraccarico degli uffici giudiziari, le cui energie sono state così distolte dal perseguimento di vicende criminose degne di maggiore attenzione.
Al tempo stesso, poi, proprio la rimarcata prospettiva di forte anticipazione della tutela penale ha "costretto" il legislatore del 1982 a comminare per larga parte delle ipotesi criminose pene particolarmente lievi, spesso tali da consentire l’oblazione, e dunque inidonee — ancorché irrogate all’esito di processi lunghi e costosi, quali normalmente risultano quelli tributari (che richiedono non di rado consulenze tecniche, perizie o indagini bancarie) — a rappresentare un serio deterrente per l’evasione.
Conformemente alle direttive della legge delega, il nuovo sistema attua, per tal rispetto, una vera e propria inversione di rotta, assumendo, come obiettivo strategico, quello di limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente correlati, tanto sul versante oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione degli interessi fiscali, con correlata rinuncia alla criminalizzazione delle violazioni meramente "formali" e "preparatorie".
Esso risulta conseguentemente imperniato su un ristretto catalogo di fattispecie criminose, connotate da rilevante offensività e da dolo specifico di evasione: fattispecie che, proprio per tali loro caratteristiche, sono configurate come di natura esclusivamente delittuosa e soggette ad un regime sanzionatorio di apprezzabile spessore.
Quanto alla concreta fisionomia delle fattispecie stesse, la scelta di ancorare la sanzione penale all’offesa degli interessi connessi al prelievo fiscale ha portato a concentrare l’attenzione sulla dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, quale momento nel quale si realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e "definitivo" dell’evasione d’imposta: sì che le violazioni tributarie "a monte" della dichiarazione medesima — quali, ad esempio, le omesse fatturazioni o annotazioni in contabilità di corrispettivi, e a maggior ragione le irregolarità nella tenuta delle scritture contabili, oggi autonomamente incriminate (articolo 1 del decreto legge n. 429 del 1982) — restano prive, ex se, di rilievo penale.
La violazione dell’obbligo di veritiera ostensione della situazione reddituale e delle basi imponibili è al fondamento, segnatamente, di tre tipologie criminose, costituenti il "cuore" del rinnovato impianto repressivo: id est, la dichiarazione fraudolenta, che è una dichiarazione non soltanto mendace, ma caratterizzata altresì da un particolare coefficiente di "insidiosità"; la dichiarazione "semplicemente" infedele e, da ultimo, l’omessa dichiarazione.
A tali ipotesi delittuose risultano affiancate tre figure "collaterali", comunque di rilevante attitudine lesiva, intese a colpire l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione; l’occultamento o la distruzione di documenti contabili in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari; e, infine, la sottrazione alla riscossione coattiva delle imposte mediante compimento di atti fraudolenti su propri od altrui beni.
Nella prospettiva del contenimento dell’impiego della sanzione penale, le indicate fattispecie restano soggette — ad eccezione di quelle di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, emissione di tali documenti e occultamento o distruzione di scritture contabili — a soglie di punibilità idonee a limitare l’intervento punitivo ai soli illeciti di significativo rilievo economico e, con ciò stesso, a deflazionare il numero dei procedimenti penali.
Alle norme incriminatrici si accompagnano disposizioni a carattere generale, regolative di istituti, sostanziali e processuali, che percorrono "trasversalmente" il campo di intervento (meccanismi premiali intesi a favorire il risarcimento del danno, prescrizione, competenza per territorio); disposizioni la cui logica di fondo — segnatamente sugli ultimi due fronti — è quella di contenere in termini minimali, pur tenendo conto delle ineliminabili peculiarità della materia, lo scarto tra le regole proprie del diritto penale tributario e quelle ordinarie.
Specifiche previsioni normative sono poi dirette a disciplinare i rapporti tra il sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo: versante sul quale la novità saliente è rappresentata dalla introduzione del principio di specialità, che esclude, nel caso di convergenza di norme repressive eterogenee sul medesimo fatto, il cumulo — sancito, di contro, nell’odierno regime — tra misure punitive dell’uno e dell’altro genus.
Lo schema di decreto è completato da disposizioni transitorie, di coordinamento e finali, nella cui cornice una particolare attenzione è dedicata alla risoluzione, in via normativa, dei problemi connessi alla successione della legge penale nel tempo e, più in particolare, alla individuazione della norma incriminatrice applicabile ai fatti di reato commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto stesso che presentino rilevanza penale anche in base alla nuova disciplina.
Scendendo, sulla scorta di tale preliminare ricognizione, ad una più minuta analisi dello schema, il titolo I, composto da un solo articolo, è dedicato alle norme definitorie, volte a fornire opportuni chiarimenti in ordine alla valenza dei termini impiegati nei titoli successivi, nella duplice ottica di prevenire dubbi interpretativi e di rendere più asciutta e meglio leggibile, grazie all’uso di espressioni contratte, la formulazione dei singoli prescritti normativi.
La nozione di "fatture o altri documenti per operazioni inesistenti", offerta dalla lettera a) dell’articolo 1, è in larga misura allineata a quella emergente dalla lettera d) dell’articolo 4 del decreto legge n. 429 del 1982: si tratta, cioè, della documentazione attestante operazioni in tutto o in parte prive di riscontro nella realtà, vuoi in senso oggettivo (perché mai poste in essere, ovvero poste in essere solo parzialmente), vuoi in senso soggettivo (in quanto intervenute tra soggetti diversi da quelli indicati). Si precisa, peraltro, che i documenti avuti di mira sono unicamente quelli "aventi rilievo probatorio a fini fiscali", tali, cioè, da possedere, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, nel caso concreto, una attitudine alla prova delle operazioni che ne risultano non dissimile da quella delle fatture (non viene in rilievo, ad esempio, un mero "buono di consegna" di merce, non seguito dall’emissione della relativa fattura).
Con la formula "elementi attivi o passivi", cui è riferimento nella lettera b) dell’articolo 1 e che non trova specifico riscontro nella normativa vigente, si è inteso prefigurare una espressione di sintesi — valevole, in particolare, riguardo alle fattispecie criminose concernenti la dichiarazione — atta a comprendere, nella loro traduzione numerica, tutti le voci, comunque costituite o denominate, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Ciò ad evitare i rischi, in termini di incertezze interpretative e di possibili lacune, insiti in una enunciazione di tipo specifico e casistico (corrispettivi, ricavi, componenti reddituali, costi, oneri, eccetera).
Le lettere c) ed e) rendono palese — prevenendo possibili dubbi legati al principio di stretta legalità — che le norme incriminatrici dello schema sono applicabili, oltre che nei casi di coincidenza tra contribuente e soggetto attivo del reato, anche nei confronti di chi opera nella veste di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche, ai quali sono riferibili la dichiarazione presentata ed il fine di evasione.
La lettera d) chiarisce, ancora, evitando ripetizioni nel testo normativo, che la finalità di evadere le imposte, cui è costante richiamo nelle previsioni punitive, deve intendersi comprensiva anche dello scopo di conseguire indebiti rimborsi o il riconoscimento di inesistenti crediti di imposta; correlativamente, ai sensi della lettera g), le soglie di punibilità ragguagliate all’imposta evasa si intendono estese anche all’ammontare dell’indebito rimborso richiesto o dell’inesistente credito esposto in dichiarazione.
Sulla nozione di "imposta evasa", di cui alla lettera f) — che ha valenza anche precettiva — si porterà l’attenzione in sede di esame della disciplina delle soglie di punibilità (infra, §§ 3.1.2 e 3.1.4).
Nell’ambito del titolo II dello schema, recante le disposizioni incriminatrici, il capo I raggruppa i delitti in materia di dichiarazione, che, secondo quanto accennato in apertura, rappresentano l’asse portante del nuovo sistema punitivo (retro, § 1).
Posto che la dichiarazione avuta di mira è unicamente quella annuale, viene prefigurata, in ossequio alle indicazioni della legge delega, una terna di figure delittuose, tutte qualificate da dolo specifico di evasione: la dichiarazione fraudolenta, la dichiarazione infedele e l’omessa dichiarazione.
La fattispecie della dichiarazione fraudolenta si connota come quella ontologicamente più grave: essa ricorre, infatti, quando la dichiarazione non soltanto non è veridica, ma risulta altresì "insidiosa", in quanto supportata da un "impianto" contabile, o più genericamente documentale, atto a sviare od ostacolare la successiva attività di accertamento dell’amministrazione finanziaria, o comunque ad avvalorare artificiosamente l’inveritiera prospettazione di dati in essa racchiusa.
Nell’ambito di tale figura — che "assorbe" anche talune fattispecie attualmente punite a titolo di frode fiscale dall’articolo 4 del decreto legge n. 429 del 1982 — è parso peraltro necessario differenziare, costruendole come delitti autonomi, le ipotesi in cui la falsa dichiarazione si fondi su fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2. dello schema) e quella in cui si basi su artifici di altra natura (articolo 3. dello schema). L’esigenza nasce dalla diversa struttura che, in base alle indicazioni del legislatore delegante, il reato di dichiarazione fraudolenta è destinato ad assumere nelle due ipotesi: giacché solo nella seconda, e non invece nella prima, la punibilità del fatto resta subordinata al superamento di particolari soglie "quantitative".
La previsione di cui al n. 1) della lettera a) dell’articolo 9 della legge delega — a fronte della quale vanno configurate come "dichiarazioni fraudolente" quelle "fondate su documentazione falsa ovvero su altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile" — va infatti correlata con quella della successiva lettera b), che esclude la soggezione a soglie di punibilità delle "fattispecie concernenti … l’utilizzazione di documentazione falsa". La formula "documentazione falsa", adoperata dal legislatore delegante, è stata d’altro canto intesa in senso puntuale e restrittivo — ossia come riferita alle sole fatture o documenti per operazioni inesistenti, quali definiti nell’articolo 1, lettera a), dello schema di decreto (retro, § 2) — in coerenza con l’esigenza di restringere il campo applicativo dell’ipotesi criminosa non soggetta a soglia ai fatti che presentino il maggiore indice di "decettività" nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
Sulla scorta di tale impostazione, l’articolo 2 dello schema punisce, dunque, a prescindere da ogni sbarramento quantitativo, chiunque, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi fittizi ("gonfi", cioè, le componenti negative, in guisa da diminuire l’imponibile e l’imposta dovuta).
Ad evitare l’insorgenza di serie incertezze sul piano ermeneutico, si è ritenuto peraltro di dover precisare in quali casi il fatto si considera commesso "avvalendosi" dei documenti anzidetti. Va rilevato, infatti, come l’ampia elaborazione giurisprudenziale e dottrinale relativa al concetto di "utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti", rilevante nell’ottica applicativa del delitto di frode fiscale di cui all’articolo 4 del decreto legge n. 429 del 1982, non sia recuperabile sic et sempliciter in rapporto alla nuova figura di reato, la quale resta integrata, non dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione: dichiarazione alla quale, in base alla disciplina tributaria in vigore, non deve essere allegata alcuna documentazione probatoria.
Viene dunque chiarito che si avvale dei documenti in questione chi li registra nelle scritture contabili obbligatorie, o comunque li detiene a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (scilicet, in sede di successivo accertamento). Quest’ultima previsione è evidentemente riferibile (ed in primis) anche ai contribuenti che non siano obbligati alla tenuta delle scritture contabili, i quali rientrano tra i destinatari della previsione punitiva.
Quanto al trattamento sanzionatorio, è nella logica del sistema che esso debba attestarsi sul livello più alto fra quelli ritagliati nell’ambito della fascia (da sei mesi a sei anni di reclusione) entro la quale, a norma dall’articolo 9, comma 2, lettera a), della legge delega, il legislatore delegato può fissare la risposta punitiva ai singoli illeciti. In concreto, l’articolo 2, comma 1, dello schema commina per il delitto in rassegna la reclusione da due a sei anni.
Ad evitare, tuttavia, conseguenze sanzionatorie sproporzionate all’oggettivo disvalore del fatto, connesse alla mancanza di soglie di punibilità, si è prevista l’applicabilità di una pena decisamente più mite (da sei mesi a due anni di reclusione) quando l’ammontare complessivo degli elementi passivi fittizi indicato nella dichiarazione risulti inferiore a lire trecento milioni (la strutturazione della fattispecie con una pena più elevata per l’ipotesi-base e una più lieve per i casi di minore gravità, anziché l’inverso, mira intuitivamente ad evitare — con una tecnica già ampiamente sperimentata in occasione delle modifiche al decreto legge n. 429 del 1982 — che la comminatoria di pena più severa venga posta concretamente nel nulla dal giudizio di comparazione tra circostanze attenuanti ed aggravanti previsto dall’articolo 69 del codice penale).
L’articolo 3. dello schema delinea la fattispecie della dichiarazione fraudolenta mediante artifici diversi dall’utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Il reato resta integrato dalle mendaci indicazioni inerenti tanto agli elementi attivi che a quelli passivi: s’intende, nel senso della diminuzione dei primi o dell’aumento dei secondi rispetto al dato reale.
L’elemento qualificante, che segna il discrimen fra il delitto in esame e quello di dichiarazione infedele, è rappresentato da ciò, che la prospettazione inveritiera di dati deve essere realizzata "con mezzi fraudolenti". Il criterio direttivo della legge delega sul punto — in virtù del quale vanno configurate come dichiarazioni fraudolente quelle fondate (oltre che su documentazione falsa, di cui si occupa l’articolo 2 dello schema) "su altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile" — è stato attuato, in specie, prevedendo che l’accennata fraudolenza oggettiva della condotta debba ravvisarsi in presenza d’una situazione composita, nella quale confluiscono due condizioni fra loro concatenate.
Il mendacio deve risultare, cioè, anzitutto supportato dalla falsa rappresentazione degli elementi attivi o passivi nelle scritture contabili obbligatorie o nel bilancio (la "falsa rappresentazione contabile"): condizione, questa, a fronte della quale la figura criminosa in esame viene dunque a connotarsi come reato proprio dei soggetti obbligati alla tenuta della contabilità.
La falsa rappresentazione non è, però, da sola sufficiente ad integrare gli estremi del mezzo fraudolento, occorrendo che essa derivi, a propria volta, dalla violazione degli obblighi di fatturazione o di registrazione dei corrispettivi relativi a cessioni di beni o prestazioni di servizi, ovvero da altri artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità (gli "artifici" cui fa cenno il legislatore delegante). Ne consegue, ad esempio, che l’indebita sottovalutazione di un voce di bilancio, intesa ad abbattere l’utile di esercizio, non integrerà — anche laddove ecceda gli speciali "limiti di tolleranza" stabiliti dall’articolo 7 dello schema (infra, § 3.1.5) — il delitto di dichiarazione fraudolenta (ma, semmai, soltanto quello di dichiarazione infedele), quante volte non risulti accompagnata da un quid pluris atto a conferire caratteristiche di particolare decettività alla manovra contabile.
Con particolare riguardo alla preliminare inclusione, tra gli "artifici" rilevanti nell’economia applicativa della figura criminosa in esame, della violazione degli obblighi di fatturazione e di registrazione di corrispettivi, si è ritenuto che ad essa non sia d’ostacolo la circostanza che la norma di delega, nel tracciare la fisionomia della fattispecie, non faccia specifico e distinto riferimento — diversamente dal disegno di legge governativo n. 2979/S, le cui generali cadenze sono state da detta norma mutuate — alla "violazione degli obblighi contabili". Va rilevato, infatti, come l’ordine del giorno n. 9/1850-B/1, presentato nella seduta del 16 giugno 1999 della Camera dei deputati e non posto in votazione, in quanto accolto dal Governo, preveda puntualmente l’impegno del legislatore delegato a comprendere le violazioni in parola "tra le fattispecie penalmente sanzionate, ai sensi del comma 2, lettera a)", dell’articolo 9 della legge di delegazione. E se è certo che l’ordine del giorno in questione non potrebbe comunque prevalere sulla lettera della legge delega, che segna comunque il confine invalicabile dell’intervento normativo affidato all’esecutivo, esso può ben assumere, per converso, una valenza interpretativa del criterio direttivo che qui interessa, dissipandone i margini di ambiguità.
Giova al riguardo ricordare, in effetti, come il citato disegno di legge 2979/S, nel descrivere le condotte integrative del delitto di dichiarazione fraudolenta, indicasse la "violazione degli obblighi contabili" a fianco della più generale ipotesi degli "altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile". La cesura del primo inciso in sede parlamentare può considerarsi motivata — piuttosto che dalla voluntas di far rientrare in ogni caso le violazioni degli obblighi di fatturazione e di registrazione nel meno grave paradigma punitivo della dichiarazione infedele — dalla duplice considerazione che l’inciso soppresso, da un canto, poteva ritenersi superfluo, o comunque non indispensabile, risolvendosi dette violazioni nella predisposizione di un "impianto contabile" complessivamente "artificioso", così da rappresentare un mero "doppione" della previsione generale; dall’altro, e proprio per questo, poteva risultare sinanche "pericoloso", nella misura in cui si prestava ad avvalorare equivoche interpretazioni stando alle quali anche la semplice violazione formale degli obblighi attinenti alla fatturazione sarebbe stata suscettiva di integrare una condotta "artificiosa".
Sotto il profilo sostanziale, poi, la soluzione adottata nello schema di decreto si giustifica sul rilievo che il ricorso, a fini di evasione, alla sottofatturazione o all’omessa fatturazione, piuttosto che all’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti o ad altri artifici, non solo è in diretta funzione del tipo di reddito conseguito dall’autore dell’illecito, ma si connota, altresì, come condotta di pericolosità equivalente o, comunque, non significativamente dissimile: sì che una considerazione penalistica totalmente differenziata delle due ipotesi — nel senso che la violazione degli obblighi di fatturazione, cui consegua una mendace dichiarazione, debba non soltanto restare soggetta ad una soglia di punibilità, ma integrare altresì una diversa e meno grave fattispecie di reato — non risulterebbe rispondente a logica. Mentre, invero, per i titolari di reddito d’impresa l’evasione può più agevolmente realizzarsi tramite costituzione di costi fittizi documentati da false fatture, per i titolari di altri tipi di reddito (si pensi, in particolare, al reddito di lavoro autonomo) la via maestra per l’evasione è rappresentata, per l’appunto, dall’omessa o dalla sottofatturazione: nell’uno e nell’altro caso, peraltro, il risultato finale è una dichiarazione "sottomanifestante", ma avvalorata da un impianto contabile formalmente ineccepibile e tale, dunque, da sviare o rendere assai complessa la successiva verifica dell’amministrazione finanziaria.
Il punto — per la sua centrale rilevanza, anche in rapporto ai noti precedenti "storici" connessi alla definizione dell’area di applicabilità del delitto di frode fiscale ex articolo 4 del decreto-legge n. 429 del 1982 — viene peraltro specificamente segnalato all’attenzione delle Commissioni parlamentari chiamate ad esprimere il loro parere sullo schema di decreto, affinché forniscano opportune indicazioni, segnatamente sotto il profilo della conformità del proposto assetto ai criteri di delega.
Al di là di ciò, la fattispecie criminosa in discorso, punita con la medesima pena prevista dall’articolo 2, comma 1, per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, risulta, però, a differenza di questo, soggetta a soglie di punibilità intese — secondo la previsione dell’articolo 9, comma 1, lettera b), della legge delega — "a limitare l’intervento penale ai soli illeciti economicamente significativi".
In via generale, si è ritenuta coerente con la complessiva filosofia dell’intervento l’attestazione delle soglie su livelli sensibilmente più elevati — fatto il ragguaglio tra i diversi parametri di riferimento — di quelli attualmente previsti dal decreto-legge n. 429 del 1982. A tale soluzione è di conforto anche la considerazione che l’introduzione — imposta dal n. 1) della lettera c) dell’articolo 9 della legge delega — di soglie di punibilità ragguagliate all’ammontare dell’imposta evasa comporterà, inevitabilmente, un considerevole appesantimento del procedimento penale, imponendo al giudice di sottoporre a verifica in tale sede l’intera posizione del contribuente, quale premessa per l’accertamento del quantum di evasione. In simile situazione, la collocazione delle soglie di punibilità su cifre non adeguatamente selettive rischierebbe di vanificare gli obiettivi di deflazione della riforma, in quanto i benefici in termini di abbattimento del numero dei procedimenti finirebbero per risultare annullati dal maggior dispendio di energie necessario onde definire i procedimenti residui.
Tanto puntualizzato, si prevede che il delitto di cui si va discorrendo resti integrato — in linea con il disposto di cui ai numeri 1), 2) e 3) della lettera c) della legge delega — solo quando la falsa indicazione in dichiarazione degli elementi attivi o passivi porti al superamento congiunto di due soglie (da considerarsi alla stregua di altrettanti elementi costitutivi del reato, e che, in quanto tali, debbono essere investiti dal dolo).
In primo luogo, l’imposta evasa deve risultare superiore a lire cento milioni con riferimento a taluna delle singole imposte. Quest’ultima specificazione, che tiene conto del sistema della dichiarazione unica, esclude la sommatoria tra evasione concernente le imposte sui redditi e evasione concernente l’imposta sul valore aggiunto, incrementando così l’effetto deflattivo della soglia; al tempo stesso, però, rende rilevante il superamento del limite anche quando si sia verificato in rapporto ad una soltanto delle imposte considerate.
La nozione di "imposta evasa" è fornita dalla lettera f) dell’articolo 1: deve considerarsi tale, cioè, la differenza fra l’imposta effettivamente dovuta e quella che (a seguito della mendace esposizione dei componenti reddituali o delle basi imponibili) è stata indicata (come dovuta) in dichiarazione. Da tale importo vanno tuttavia sottratte le somme che il contribuente, od altri in sua vece (nella veste, segnatamente, di sostituito d’imposta), abbiano in fatto versato a qualunque titolo (acconto, ritenuta, ecc.) in pagamento dell’imposta prima della presentazione della dichiarazione (che segna il momento consumativo dell’illecito).
L’altra soglia, di natura composita, ha come paramento l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione (formula, questa, che traduce in termini maggiormente tecnici il riferimento della legge delega ai "componenti reddituali o … volume di affari evasi"), fermo restando, ovviamente, che la sottrazione all’imposizione può realizzarsi, oltre che attraverso una sottoindicazione delle componenti attive, anche mediante un mendace incremento di quelle passive. Affinché il fatto sia punibile, detto ammontare deve risultare superiore al rapporto proporzionale del cinque per cento rispetto all’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione (rapporto che segna un "limite di tolleranza" di scostamenti marginali rispetto a contribuenti con elevato imponibile), ovvero, e comunque, a lire tre miliardi.
c) Dichiarazione infedele
L’articolo 4 dello schema delinea il delitto di dichiarazione infedele, la cui struttura è sostanzialmente coincidente con quella del delitto di dichiarazione fraudolenta "non qualificata", ex articolo 3, salvo il già segnalato elemento differenziale dell’assenza dell’impiego di mezzi fraudolenti. In ragione di ciò, il reato può essere dunque commesso da qualunque contribuente, anche non obbligato alla tenuta della contabilità.
La minore carica lesiva del fatto ha indotto a prevedere, oltre ad una pena meno severa (da uno a tre anni di reclusione), soglie di punibilità più elevate: in particolare, la soglia relativa all’imposta evasa viene stabilita in lire centocinquanta milioni, mentre quella proporzionale ragguagliata all’ammontare degli elementi sottratti all’imposizione risulta determinata nel dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, rimanendo invariato, per contro, il limite "fisso" alternativo di tre miliardi di lire.
A tale riguardo, si è invero ritenuto che l’istruzione impartita dal n. 4) della lettera c) dell’articolo 9 della legge delega — di prevedere, cioè, per l’omessa dichiarazione una soglia di punibilità minore rispetto a quella stabilita per i casi di infedeltà — non escludesse la facoltà del legislatore delegato di graduare opportunamente le soglie nelle residue ipotesi.
d) Omessa dichiarazione
L’articolo 5 dello schema, in attuazione del n. 3) della lettera a) della norma di delega, contempla il delitto di omessa dichiarazione, prefigurando per il medesimo una soglia di punibilità unitaria rapportata alla sola imposta evasa, il cui ammontare deve superare i cento milioni di lire. La mancanza della dichiarazione rende, infatti, logicamente inapplicabile una soglia concorrente basata sul rapporto tra elementi attivi sottratti all’imposizione ed elementi attivi dichiarati; mentre la previsione di una soglia fissa riferita agli elementi sottratti risulterebbe scarsamente significativa, rappresentando una sostanziale duplicazione di quella riferita all’imposta evasa.
Ovviamente, nel frangente per "imposta evasa" dovrà intendersi l’intera imposta dovuta, al netto delle somme comunque versate in pagamento di essa prima della scadenza del termine di presentazione della dichiarazione .
Il comma 2 dell’articolo 5 riproduce il secondo periodo dell’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 429 del 1982, escludendo la rilevanza penale di un ritardo nella presentazione della dichiarazione contenuto nel limite di novanta giorni ed evitando, altresì, che possa considerarsi omessa ai fini penali — come viceversa è previsto in ambito tributario — la dichiarazione non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto.
3.2 Le disposizioni sul tentativo e sulle valutazioni
Di particolare rilievo, nello spirito del nuovo sistema, è la previsione dell’articolo 6 dello schema, in forza della quale le condotte di utilizzazione di fatture o documenti per operazioni inesistenti, definite dall’articolo 2, comma 2, e le altre condotte fraudolente descritte nell’articolo 3, comma 2, non sono punibili a titolo di tentativo del delitto di dichiarazione fraudolenta, ove ad esse non segua la presentazione della dichiarazione recante indicazioni non veritiere.
La ratio è di evitare che il trasparente intento del legislatore delegante, di bandire il modello del "reato prodromico", risulti concretamente vanificato dall’applicazione del generale prescritto dell’articolo 56 del codice penale: si potrebbe sostenere, difatti, che le registrazioni in contabilità di fatture per operazioni inesistenti e le omesse o sottofatturazioni, scoperte nel corso del periodo d’imposta, rappresentino atti idonei diretti in modo non equivoco a porre in essere una successiva dichiarazione fraudolenta, come tali punibili ex se a titolo di delitto tentato. L’esclusione di quest’ultimo favorisce, d’altro canto, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente: di fronte ad un accertamento compiuto nei suoi confronti nel corso del periodo d’imposta, egli sarà portato — piuttosto che a contestare, anche pretestuosamente, l’accertamento — a presentare una dichiarazione conforme alle sue risultanze e veridica, in quanto ciò gli consente di sottrarsi alla responsabilità penale.
Altrettanto pregna di significato è la disposizione di cui al successivo articolo 7, che — riprendendo e sviluppando le indicazioni già contenute nell’articolo 6, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, come modificato dall’articolo 2 del decreto legislativo 5 giugno 1998, n. 203, in rapporto alle sanzioni amministrative tributarie — stabilisce i limiti entro i quali le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio possono dar luogo, nella successiva trasposizione in dichiarazione, a fatti penalmente rilevanti. A tal proposito, va invero premesso e rimarcato come nell’economia delle norme incriminatrici di nuovo conio — diversamente che in rapporto alla normativa vigente (la quale, per tale profilo, è stata spesso oggetto di censura) — possano assumere rilievo anche manovre contabili a carattere lato sensu valutativo (sottostime di poste attive, determinazione arbitraria dell’esercizio di imputazione di determinati costi, ecc.), manovre attraverso le quali, in effetti, assai di frequente si realizza la "grande evasione". Al tempo stesso, però, si è inteso evitare — in coerenza con la preoccupazione già emersa nell’ambito sanzionatorio amministrativo — che le nuove previsioni punitive di settore possano risultare oggetto di applicazioni improntate ad eccessiva asprezza, o comunque determinare l’insorgenza di un "rischio penale" anche nei confronti dei soggetti non spinti da reali intenti evasivi, stanti i margini di opinabilità e di incertezza che, tanto a livello normativo che fattuale, connotano la materia delle valutazioni.
Sostanzialmente, le disposizioni dettate dall’articolo in rassegna possono considerarsi alla stregua di altrettante regole di esclusione, con presunzione iuris et de iure, del dolo di evasione. In tale spirito, si prevede, così, anzitutto, che la violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza — dell’esercizio al quale imputare, cioè, una certa voce attiva o passiva (violazione che pure può incidere, deprimendolo, sul computo dell’imponibile) — non dia luogo a fatto punibile quando sia espressione di metodi costanti di impostazione contabile (e non, dunque, un fatto episodico artatamente e specificamente volto, ad esempio, a far gravare indebitamente costi su un esercizio in utile, piuttosto che su uno in perdita).
In secondo luogo, poi, si esclude rilievo all’inosservanza delle regole extrapenali che presiedono all’individuazione dei criteri di rilevazione e di stima, quante volte i criteri concretamente (e, cioè, effettivamente) applicati siano stati comunque indicati nel bilancio (segnatamente, nella nota integrativa, che è la sede normativamente deputata alla relativa illustrazione) o nei documenti che lo accompagnano. L’aperta ostensione, in documenti destinati alla pubblicità, dei metodi estimativi utilizzati, anche se scorretti, è stata ritenuta, difatti, incompatibile con la configurabilità di un dolo di evasione o, comunque, tale da escludere quel minimum di attitudine all’inganno nei confronti del fisco richiesta ai fini della configurabilità anche del delitto di dichiarazione infedele. In tal modo, si favorisce e si premia anche un atteggiamento di lealtà del contribuente, il quale, ove versi in una situazione di incertezza, potrà comunque evitare la sanzione penale indicando apertis verbis i criteri ai quali si è attenuto.
Da ultimo, si stabilisce che non diano comunque luogo a fatti punibili a titolo di dichiarazione fraudolenta o infedele le valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscano in misura inferiore al dieci per cento da quelle ritenute corrette (scilicet, sulla base dell’esatta applicazione dei criteri legali e contabili che, di volta in volta, debbono presiedere all’operazione). La previsione di una simile "soglia di tolleranza" — che si è ritenuto di dover fissare, dato il carattere esclusivamente doloso degli illeciti avuti di mira, in misura doppia rispetto a quella stabilita dal citato articolo 6 del decreto legislativo n. 472 del 1997 con riguardo agli illeciti amministrativi, qualificati anche dalla semplice colpa — si giustifica, per vero, al lume della già rimarcata opinabilità dei risultati delle stime. Deve sottolinearsi, d’altro canto, come la disposizione, che è unicamente "di favore", lasci affatto impregiudicata la possibilità che anche uno scarto eccedente l’indicato rapporto venga considerato, a fronte delle circostanze del caso concreto, compreso nella "fascia di ragionevolezza" entro la quale le valutazioni sono suscettive legittimamente di spaziare, ovvero, e comunque, non sorretto da dolo.
Logicamente conseguenziale è l’ulteriore previsione per cui degli importi compresi entro lo "scarto tollerato" non dovrà tenersi conto (anche quando lo scarto complessivo eccedesse il limite del dieci per cento) nella verifica del superamento delle soglie di punibilità dei delitti concernenti la dichiarazione (ad esempio, se il valore attribuito dal contribuente in bilancio ad una data voce è lire un miliardo e quello ritenuto corretto è lire un miliardo e cinquecento milioni, l’importo da considerare ai fini della verifica del superamento delle soglie non sarà rappresentato dalla differenza "secca" fra le due cifre, ma dalla differenza al netto della "franchigia" del dieci per cento: e, dunque, in concreto, lire quattrocento milioni).
3.3 I delitti in materia di documenti e pagamento di imposte
Il capo II del titolo II contempla tre ulteriori fattispecie delittuose, non concernenti la dichiarazione.
In attuazione del criterio di cui al n. 2 della lettera a) della norma di delega, l’articolo 8 punisce con la medesima pena prevista per il delitto di dichiarazione fraudolenta (reclusione da due a sei anni) chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
L’autonoma considerazione penalistica della fattispecie trova giustificazione, per vero, nel rilievo tutto particolare che la condotta incriminata assume nel quadro delle fenomeniche dell’evasione: fenomeniche che assai di frequente ruotano su "figure criminali" di spiccata pericolosità, rappresentate da imprese illecite create con l’unico o prevalente scopo di immettere sul "mercato" documentazione volta a supportare l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi fittizi (imprese note nella pratica come "cartiere").
Stante, peraltro, l’evidente interconnessione tra l’emissione di falsa documentazione e l’utilizzazione della stessa al fine di avvalorare dichiarazioni mendaci — condotte che rappresentano facce opposte della medesima medaglia — è apparso necessario introdurre opportuni correttivi volti ad evitare che, al di là della diversa strutturazione delle due ipotesi criminose (l’emissione è punita di per sé, l’utilizzazione solo in quanto "trasfusa" in una falsa dichiarazione), si determini una troppo marcata disparità di trattamento sanzionatorio tra emittente ed utilizzatore, in danno del primo, tale dar dare esca a sospetti di violazione del principio di cui all’articolo 3 della Carta costituzionale.
In tal ottica, poiché dal versante dell’utilizzatore l’impiego di più fatture o documenti falsi (non importa se emessi dallo stesso o da diversi soggetti) a supporto di una medesima dichiarazione mendace dà comunque luogo ad unico reato, si è previsto, al comma 2 dell’articolo 8, che anche nei confronti dell’emittente la formazione di una pluralità di fatture o documenti falsi nel medesimo periodo d’imposta (non importa se a favore dello stesso o di diversi soggetti) integri un solo episodio criminoso, anziché tanti reati quanti sono i documenti emessi (si tratta, in sostanza, di una speciale ipotesi di cumulo giuridico). Parallelamente, poi, a quanto stabilito per l’utilizzatore dal comma 3 dell’articolo 2, si è comminata una pena minore nei confronti dell’emittente (da sei mesi a due anni di reclusione) quando l’importo complessivo dei falsi documenti da lui formati nell’ambito del medesimo periodo d’imposta risulti inferiore a lire trecento milioni (s’intende che quando l’operazione, documentata dalla falsa fattura, sia solo in parte inesistente, si dovrà tener conto, a tale fine, non dell’intero importo esposto nel documento, ma della sola porzione non rispondente al vero).
Sotto diverso profilo, l’articolo 9. dello schema esclude, poi, in deroga all’articolo 110 del codice penale, la configurabilità del concorso dell’emittente nel reato di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione. Per quanto attiene all’emittente, la previsione mira a rendere inequivoca una soluzione comunque già ricavabile dai principi: essendo, infatti, l’emissione punita autonomamente ed "a monte", a prescindere dal successivo comportamento dell’utilizzatore, ammettere che l’emittente possa essere chiamato a rispondere tanto del delitto di emissione che di concorso in quello di dichiarazione fraudolenta significherebbe, in sostanza, punirlo due volte per il medesimo fatto. Diversamente, per quel che riguarda l’utilizzatore, la disposizione partecipa della medesima logica sottesa all’articolo 6, innanzi illustrato (retro, § 3.1.5): quella, cioè, di ancorare comunque la punibilità al momento della dichiarazione, evitando una indiretta "resurrezione" del "reato prodromico". In difetto dell’enunciato in rassegna, difatti, il soggetto a favore del quale venga emessa una fattura o altro documento per operazione inesistente potrebbe essere considerato, nella quasi totalità dei casi — ancorché egli non si sia successivamente avvalso della fattura o del documento stesso a supporto di una dichiarazione inveritiera — come egualmente punibile in veste di compartecipe (quantomeno morale) nel delitto di emissione, alla cui base sta normalmente un accordo tra emittente e beneficiario.
In riferimento, poi, al caso in cui tra emittente ed utilizzatore si collochi un "intermediario", il quale funga da tramite per il "collocamento" o l’ottenimento della falsa fattura, egualmente si è escluso che tale soggetto possa essere considerato concorrente in entrambi i reati.
b) Occultamento o distruzione di documenti contabili
In ossequio al n. 5 della lettera a) della norma di delega, l’articolo 10 dello schema prevede la fattispecie — corrispondente a quella di cui all’articolo 4, lettera b), del decreto legge n. 429 del 1982 — dell’occultamento o distruzione totale o parziale, a fine di evasione, di documenti o scritture contabili di cui sia obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
Proprio il tipo di ostacolo frapposto all’attività di accertamento, cui si connette la maggior difficoltà di verifica del superamento di prefissati livelli di evasione, spiega il mantenimento della fattispecie come ipotesi autonoma rispetto ai delitti in materia di dichiarazione ed il mancato assoggettamento della medesima (per disposizione del legislatore delegante) a soglie di punibilità. La pena edittale minima è pari a quella della dichiarazione infedele (un anno di reclusione), mentre la pena massima si approssima, senza raggiungerla, a quella della dichiarazione fraudolenta (cinque anni): al disvalore del mezzo fa difatti riscontro la possibilità che il quantum concreto di evasione, stante la rimarcata assenza di soglie di punibilità, si attesti, in concreto, su cifre non particolarmente elevate.
Viene fatto espressamente salvo, comunque, il caso in cui la condotta costituisca più grave reato: clausola che vale ad escludere, in particolare, il concorso fra il delitto in esame e quello di bancarotta fraudolenta documentale, sancendo la prevalenza di quest’ultimo.
c) Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
Il catalogo delle figure criminose è completato dal delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall’articolo 11 dello schema.
Giova al riguardo premettere e sottolineare che, nella cornice del nuovo sistema, il mero inadempimento dell’obbligazione pecuniaria avente ad oggetto l’imposta ed i relativi accessori — una volta che il contribuente abbia compiutamente e correttamente assolto il dovere di dichiarazione — non assume in alcun caso rilevanza penale. Scompare, così, in particolare, il delitto di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta, previsto dall’articolo 2 del decreto legge n. 429 del 1982: figura criminosa che, più di altre, è stata al centro di vivaci polemiche, anche a fronte dell’abnorme numero di procedimenti penali cui essa, specie nella versione d’origine (anteriore, cioè, alla modifica operata dall’articolo 3 del decreto legge 16 marzo 1981, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 maggio 1991, n. 154), aveva dato esca.
In linea con le indicazioni della legge delega , la sanzione penale è stata per converso mantenuta e rafforzata riguardo alle condotte fraudolente — delle quali l’alienazione simulata costituisce l’esempio paradigmatico — che il debitore d’imposta ponga in essere su propri od altrui beni al fine di frustrare la procedura di riscossione coattiva. Rispetto alla previsione punitiva dell’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall’articolo 15, comma 4, lettera b), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 — di cui quella in esame costituisce lo sviluppo — si evidenzia, in particolare, la soppressione del presupposto rappresentato dall’avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche, o dalla preventiva notificazione all’autore della manovra di inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo: presupposto che aveva contribuito, in effetti, a limitare fortemente le capacità di presa dell’incriminazione. Inoltre, la linea della tutela penale è stata opportunamente avanzata, richiedendo, ai fini della perfezione del delitto, la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione — idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex ante — e non anche l’effettiva verificazione di tale evento.
Per converso, è stata aumentata a lire cento milioni, in conformità delle direttrici generali di intervento (supra, § 3.1.2), la soglia di punibilità riferita all’ammontare complessivo delle imposte, degli interessi e delle sanzioni amministrative il cui pagamento si intendeva eludere. Correlativamente, è stato elevato anche il trattamento sanzionatorio, comminando la pena della reclusione da uno a quattro (laddove la norma vigente prevede invece la reclusione fino a tre anni).
Da ultimo, è stata pure nel frangente inserita, in testa alla formula descrittiva dell’illecito, la clausola di salvezza del reato più grave, riferita soprattutto all’ipotesi in cui il fatto risulti riconducibile al paradigma punitivo della bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Il titolo III dello schema raccoglie le disposizioni comuni, applicabili alla generalità dei reati contemplati dal titolo precedente.
Dando attuazione alla direttiva di cui alla lettera d) dell’articolo 9 della legge di delegazione, l’articolo 12 stabilisce le pene accessorie che conseguono alla condanna per taluno di detti reati. La relativa griglia corrisponde — al di là del differente ordine di elencazione — a quella già prefigurata dall’articolo 6 del decreto legge n. 429 del 1982, fatta eccezione per la pena accessoria, non più riproposta, dell’esclusione dalla borsa degli agenti di cambio e dei commissionari.
Limitati ritocchi sono stati apportati alla durata delle misure, in una logica di razionalizzazione complessiva dell’assetto sanzionatorio: in particolare, è stata aumentata la durata minima e massima dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e dell’interdizione dai pubblici uffici, nonché la durata massima dell’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria.
A differenza che per le altre pene accessorie, le quali trovano applicazione in caso di condanna per uno qualsiasi dei delitti contemplati dallo schema, si è previsto che l’interdizione dai pubblici uffici consegua esclusivamente alla condanna per i delitti più gravi (dichiarazione fraudolenta e emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), e sempre che non ricorrano le circostanze attenuanti speciali previste dagli articoli 2, comma 3, e 8, comma 2. È appena il caso di rilevare, al riguardo, come la conservazione della pena accessoria in parola — peraltro in ambiti più ristretti rispetto alla normativa vigente — risulti pienamente giustificata a fronte dell’incompatibilità degli atteggiamenti delinquenziali avuti di mira con i doveri di probità e fedeltà all’ordinamento di chi è chiamato ad un munus publicum.
Gli articoli 13 e 14 dello schema si connettono all’istruzione impartita dalla lettera e) dell’articolo 9 della legge di delega, che dà mandato all’esecutivo di prevedere "meccanismi premiali idonei a favorire il risarcimento del danno".
Al riguardo, si è scartata la soluzione "estrema" — che pure avrebbe potuto astrattamente ipotizzarsi a fronte della genericità dell’indicazione del legislatore delegante — di elevare la condotta risarcitoria a causa estintiva del reato: e ciò sul rilievo che in materia di criminalità economica, e tributaria in particolare — laddove vengono in giuoco interessi di natura prettamente patrimoniale — una simile soluzione finirebbe per frustrare la comminatoria di pena, se non anche per sortire un effetto "criminogeno", in quanto consentirebbe ai contribuenti di "monetizzare" il rischio della responsabilità penale, barattando, sulla base di un freddo calcolo, la certezza del vantaggio presente con l’eventualità di un risarcimento futuro privo di stigma criminale.
In tale ottica, lo "strumento premiale", incentivante il risarcimento, è stato quindi individuato nella previsione di circostanze attenuanti speciali che rispondono, in sostanza, alla medesima ratio di quella comune di cui all’articolo 62, n. 6), prima parte, del codice penale. Tali circostanze sono state costruite come ad effetto comune — esse comportano, cioè, l’abbattimento della pena principale nella misura ordinaria di un terzo, prevista dall’articolo 65, n. 3), del codice penale — con l’aggiunta, tuttavia, dell’attitudine ad escludere tout court l’applicabilità delle pene accessorie.
L’articolo 13 — costituente la norma applicabile nei casi ordinari — connette segnatamente l’indicata attenuante all’avvenuta estinzione, mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti contestati, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (limite temporale, questo, che, oltre a risultare in linea con le previsioni citato articolo 62 n. 6 del codice penale, mira ad evitare lunghe sospensioni o rinvii del dibattimento in prossimità della decisione, o comunque ad istruttoria avanzata, finalizzate ad iniziative risarcitorie). Il pagamento non deve essere, peraltro, necessariamente integrale in rapporto alle pretese avanzate dal fisco, potendo l’interessato giovarsi degli "istituti premiali" previsti dalla legislazione tributaria al fine di favorire l’adempimento spontaneo, anche se tardivo, del contribuente (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, rinuncia all’impugnazione, ravvedimento operoso). La formula al riguardo adoperata — estinzione "anche a seguito delle procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie" — è volutamente "aperta", al fine di consentire l’adattamento automatico del disposto normativo ad eventuali nuovi istituti di futura introduzione.
Mette conto segnalare, per altro verso, come la disposizione non riferisca specificamente il pagamento estintivo all’imputato, per modo che il medesimo giova, ai fini della fruizione dell’attenuante, anche se eseguito da un terzo: ipotesi suscettiva di verificarsi segnatamente in rapporto a fatti commessi da amministratori o rappresentanti di società od enti, allorché il versamento venga effettuato dalla società o dall’ente rappresentato, in quanto soggetto passivo della pretesa tributaria.
Il comma 2 dell’articolo 13 stabilisce, tuttavia, al tempo stesso, che il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato in virtù del principio di specialità sancito dall’articolo 18 dello schema (infra, § 5.1). La disposizione non intende introdurre una deroga a tale principio — inammissibile a fronte delle indicazioni della legge delega — né qualificare in senso risarcitorio le sanzioni amministrative tributarie, in contrasto con le indicazioni di sistema emergenti dal decreto legislativo n. 472 del 1997, ma semplicemente utilizzare la sanzione amministrativa quale criterio "legale" di commisurazione del risarcimento del danno da reato, ulteriore rispetto al mero pagamento dell’imposta.
Il successivo articolo 14 prende in considerazione un’ipotesi particolare, nella quale la disposizione dell’articolo 13 risulterebbe logicamente inapplicabile: quella, cioè, in cui i debiti tributari connessi alle violazioni per le quali si procede penalmente risultino estinti per prescrizione o decadenza dall’azione di accertamento (l’evenienza è configurabile a fronte della diversa calibratura dei relativi termini rispetto a quelli di prescrizione dei reati). Poiché sarebbe incongruo — e di dubbia conformità al principio costituzionale di eguaglianza — che in tale frangente resti preclusa all’imputato la possibilità di fruire dell’attenuante, si è prefigurato uno speciale ed agile meccanismo inteso alla determinazione della somma dovuta a titolo di riparazione dell’offesa recata dal reato, le cui cadenze mutuano (ma in ottica ovviamente del tutto diversa) quelle dell’istituto del c.d. "patteggiamento allargato", della cui introduzione si discute in sede di più generale riforma del processo penale.
In particolare, si stabilisce che l’imputato possa chiedere di essere ammesso a pagare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma, da lui indicata, a titolo di "equa riparazione" dell’offesa recata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata, comunque non inferiore a quella risultante dal ragguaglio a norma dell’articolo 135 del codice penale della pena minima prevista per il delitto contestato. Il riferimento al carattere equitativo della riparazione rende palese come, pur dovendosi tener conto della gravità dell’offesa, l’istituto non rappresenti uno strumento surrettizio di "reviviscenza" del debito tributario prescritto, al cui importo il versamento non deve, dunque, necessariamente adeguarsi.
Qualora il giudice, sentito il pubblico ministero, ritenga congrua la somma offerta, fissa con ordinanza un termine non superiore a dieci giorni per il pagamento, la cui concreta effettuazione determina l’applicabilità dell’attenuante. Poiché, peraltro, il pagamento non presuppone in alcun modo un’ammissione di responsabilità da parte dell’imputato, si è espressamente previsto che, in caso di assoluzione o di proscioglimento, la somma versata — non corrispondente ad alcun debito attuale — debba essergli restituita.
Da ultimo, al fine di assicurare la pronta applicazione delle disposizioni passate in rassegna — tanto dell’articolo 13 che dell’articolo 14 — evitando l’instaurazione di prassi difformi in tema di interpello dell’amministrazione finanziaria con effetti di allungamento dei tempi processuali, la norma finale di cui all’articolo 21 dello schema demanda ad un decreto del ministero delle Finanze — da emanare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto legislativo e privo, per i suoi contenuti, di carattere regolamentare (essendo piuttosto ascrivibile alla categoria degli atti generali) — di stabilire le modalità di documentazione dell’avvenuta estinzione dei debiti tributari rilevanti ai fini dell’applicazione dell’attenuante e di versamento delle somme dovute a titolo di riparazione dell’offesa.
L’articolo 15 dello schema attua il criterio direttivo di cui alla lettera f) della norma di delega, stabilendo che non dia luogo a fatto punibile a norma del decreto delegato la condotta di chi, avvalendosi della speciale procedura disciplinata dall’articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si sia uniformato al parere espresso dal Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive o abbia compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso.
Come è noto, il Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive — istituito dal comma 1 dello stesso articolo 21 della legge n. 413 del 1991 — è organo competente ad esprimere pareri su richiesta del contribuente, dopo un preventivo infruttuoso interpello dell’amministrazione finanziaria, in ordine a casi concreti nei quali possa farsi questione dell’applicazione di norme tributarie specificamente indicate dalla legge (articoli 37, comma 3, e 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 10 della legge 30 dicembre 1990, n. 408). Esso è tenuto a pronunciarsi entro sessanta giorni dalla richiesta o, al più, entro ulteriori sessanta giorni dal ricevimento di una formale diffida, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale ad assenso.
La previsione della non punibilità di chi si sia adeguato al parere dell’organo consultivo — manifestato anche nella forma del silenzio-assenso — si connette ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 24 marzo 1988, n. 364 e risponde alla medesima logica di fondo delle speciali disposizioni in tema di non punibilità delle valutazioni di cui all’articolo 7, in precedenza illustrate (retro, § 3.2.1): si tratta, cioè, di un criterio legale di esclusione del dolo di evasione richiesto per la configurabilità delle diverse ipotesi criminose.
L’ambito di operatività della previsione ripete, naturalmente, i confini, alquanto circoscritti, delle competenze del Comitato consultivo (che, come accennato, si esplicano in rapporto alle sole materie specificamente indicate dalla legge): competenze il cui ampliamento — auspicabile nell’ottica di consentire ai contribuenti un preventivo trasparente rapporto con l’amministrazione finanziaria — esula, all’evidenza, dai limiti della delega legislativa nella contingenza attuata.
Val la pena peraltro di soggiungere che, nelle ipotesi di mancata sottoposizione del caso al parere del Comitato (anche perché esorbitante dai limiti delle sue attribuzioni), resta comunque pienamente salva la possibilità che la condotta del contribuente, intesa allo sfruttamento delle opzioni consentite dalla legge civile al fine di realizzare risparmi di imposta, vada ricondotta al paradigma di quella che è tradizionalmente qualificata come semplice "elusione di imposta", quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimanendo dunque priva d’ogni riflesso penale. In altre parole, la disposizione di cui all’articolo 15. è unicamente di favore per il contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire, "a rovescio", ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo.
Per quanto attiene alla prescrizione, la legge delega impartisce l’istruzione di uniformare la relativa disciplina a quella generale, facendo salve, tuttavia, eventuali deroghe "rese opportune dalla particolarità della materia tributaria" .
Attualmente, come è noto, l’articolo 9 del decreto legge n. 429 del 1982 enuncia regole derogatorie circa la prescrizione dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto tanto sul versante dei termini prescrizionali, da esso modulati in senso fortemente "atipico"; quanto su quello degli atti interruttivi, al cui catalogo viene aggiunta la "constatazione" delle violazioni.
Sul primo fronte, il presente schema prefigura l’integrale abbandono del regime speciale, rendendo così applicabili senza eccezioni alle nuove ipotesi criminose le disposizioni generali sui termini di prescrizione di cui all’articolo 157 del codice penale.
Di contro, è sembrato opportuno conservare, in correlazione all’iter tipico dell’accertamento delle infrazioni in campo tributario, la previsione di atti interruttivi ulteriori rispetto a quelli elencati dall’articolo 160 del codice penale: atti che sono stati peraltro più puntualmente identificati nel "verbale di constatazione" e nell’"atto di accertamento" delle violazioni. La nuova formulazione vale, invero, a risolvere in senso formale e più garantista i dubbi interpretativi originati dal concetto di "constatazione", cui è riferimento nella norma vigente — particolarmente sul punto dell’attitudine a comprendere qualsiasi attività accertativa degli uffici finanziari o della polizia tributaria a prescindere dalla verbalizzazione dei relativi risultati — evitando che possa attribuirsi efficacia interruttiva ad atti ed attività non aventi rilievo tipico.
Quanto all’atto di accertamento, alla produzione dell’effetto interruttivo è peraltro sufficiente la semplice adozione, non essendo richiesta la notifica.
L’articolo 17 dello schema detta regole specifiche in ordine alla competenza per territorio. In proposito, il criterio direttivo della legge delega — "individuare la competenza per territorio sulla base del luogo in cui il reato è stato commesso, ovvero, ove ciò non fosse possibile, del luogo in cui il reato è stato accertato" — prelude alla trasformazione del criterio del luogo di accertamento, da regola generale ed esclusiva di determinazione del foro competente (qual è attualmente: articolo 11, secondo comma, del decreto-legge n. 429 del 1982), a regola sussidiaria, destinata ad operare unicamente allorché non possa trovare applicazione il criterio principale del luogo di commissione.
In puntuale ossequio a tale direttiva, il comma 1 dell’articolo in esame esordisce, dunque, stabilendo che quando (e solo quando) la competenza per territorio in ordine ai reati previsti dal decreto non possa determinarsi sulla base delle disposizioni generali di cui all’articolo 8 del codice di procedura penale (che individuano, in rapporto alle diverse categorie e forme di manifestazione dei reati, il luogo di commissione dell’illecito), la competenza stessa si radichi presso il giudice del luogo di accertamento, escludendo così l’applicazione delle regole suppletive di cui all’articolo 9 del medesimo codice.
I successivi commi 2 e 3 dettano disposizioni specifiche, intese a risolvere in via normativa i problemi connessi all’individuazione del giudice competente in ordine a determinate ipotesi di reato, le quali si giustificano sulla base della generale delega legislativa al coordinamento conferita dall’articolo 16, comma 1, lettera b), della legge delega.
Relativamente ai delitti in materia di dichiarazione, tali problemi si connettono al nuovo sistema di trasmissione dei dati in via telematica attraverso soggetti abilitati: sistema che, ove si abbia riguardo al luogo dal quale la trasmissione parte, consentirebbe, in pratica, all’autore dell’illecito di "scegliersi" il giudice competente con il semplice accorgimento di incaricare della trasmissione stessa un soggetto abilitato che operi nel luogo ritenuto più conveniente; mentre, ove si abbia riguardo al luogo in cui i dati confluiscono, porterebbe all’inaccettabile risultato di concentrare la competenza per tutti i reati presso il tribunale di Roma, stante la gestione centralizzata del materiale informatico. A fronte di ciò, si è dunque stabilito che i reati in questione debbano considerarsi consumati nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, salva l’applicabilità del criterio suppletivo del luogo dell’accertamento laddove detto domicilio risulti ubicato all’estero.
Il comma 3 ha per converso di mira la fattispecie, prevista dall’articolo 8, comma 2, dello schema, dell’emissione di più fatture o documenti per operazioni inesistenti da parte del medesimo soggetto nel corso dello stesso periodo d’imposta: ipotesi che — per le ragioni a suo tempo lumeggiate (retro, § 3.2.1) — è stata configurata come integrativa di un unico reato. Stante la particolare strutturazione dell’ipotesi criminosa, nella quale confluiscono più episodi distinti, si è reso necessario dettare uno specifico criterio di individuazione del giudice competente nel caso, ben configurabile, in cui i plurimi documenti siano stati emessi in località diverse (e, più precisamente, in località comprese nelle circoscrizioni di diversi tribunali). Al riguardo, si è scartata, per vero, la soluzione di privilegiare il luogo di emissione del maggior numero di documenti o dei documenti di maggiore importo: soluzione che avrebbe inevitabilmente alimentato e trascinato nel tempo le questioni di competenza, specie nel caso — tutt’altro che infrequente — di scoperta in fasi successive delle false fatturazioni. La competenza è stata di contro attribuita a quello fra i giudici dei diversi luoghi di emissione dei singoli documenti, presso il quale ha sede l’ufficio del pubblico ministero che per primo ha provveduto ad iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’articolo 335 del codice di procedura penale: criterio che ripete, con gli opportuni adattamenti, quello previsto dal comma 2 dell’articolo 10 del medesimo codice.
Il titolo IV dello schema reca disposizioni intese a regolare i rapporti tra il nuovo sistema penale e quello sanzionatorio amministrativo, nonché fra il procedimento penale, il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario.
Le coordinate nell’ambito delle quale si muove l’intervento sono segnate dai criteri di delega che impongono, per un verso, l’applicazione del principio di specialità nel caso di convergenza di norme sanzionatorie eterogenee (penali ed amministrative) su un medesimo fatto ; e, per l’altro, di coordinare i due sistemi "in modo da assicurare risposte coerenti e concretamente dissuasive" .
Sulla base di tali istruzioni parlamentari, il comma 1 dell’articolo 18. dello schema — ribaltando la regola del cumulo, oggi sancita dall’articolo 10 del decreto legge n. 429 del 1982, ed allineando il sistema sanzionatorio tributario al principio generale di cui all’articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 — stabilisce che quando uno stesso fatto è punito da una delle norme incriminatrici del decreto delegato e da una disposizione che prevede sanzioni amministrative, si applichi la sola disposizione speciale.
All’affermazione del principio di specialità non deve peraltro seguire — stante il ricordato criterio di delega di cui alla lettera l) — una perdita di deterrenza del sistema nel suo complesso. Preoccupazioni su questo versante si connettono, per vero, all’eventualità che, in determinati frangenti, il potenziale autore d’una violazione tributaria possa considerare maggiormente temibile una sanzione amministrativa pecuniaria di elevato ammontare (quale normalmente sono quelle tributarie, ragguagliate a percentuali o multipli dell’evasione) e che verrà d’altro canto indefettibilmente applicata, piuttosto che una sanzione penale, fortemente afflittiva bensì in astratto, ma la cui esecuzione è suscettiva di venir evitata, in concreto, con l’ottenimento della sospensione condizionale della pena: donde, in definitiva, un possibile pungolo al compimento dei fatti più gravi di evasione (collocati, cioè, al di sopra della soglia di punibilità), in luogo di quelli più lievi. Siffatto timore appare pregnante, in verità, soprattutto in riferimento ai fatti commessi nell’ambito di società o altri enti — quali saranno, in buona parte dei casi, quelli puniti con pene criminali dal presente decreto, stante il livello delle soglie di punibilità — a fronte della possibilità di sottrarre all’applicazione delle sanzioni amministrative il titolare sostanziale dell’interesse (la società o l’ente, per l’appunto), riversando la responsabilità penale su meri prestanome.
Quale opportuno correttivo, si è dunque previsto, al comma 2 dell’articolo 18., che quando pure il principio di specialità porti ad escludere l’applicabilità delle sanzioni amministrative nei confronti della persona fisica autrice della violazione, permanga tuttavia la responsabilità per tali sanzioni dei soggetti indicati nell’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 472 del 1997, che non siano, a lor volta, s’intende, persone fisiche penalmente responsabili in veste di concorrenti nel reato. La disposizione richiamata stabilisce, invero, come è noto, che nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa dal dipendente o dal rappresentante negoziale di una persona fisica nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato, ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore di società, associazione od ente, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata.
Si tratta, per vero, d’una soluzione che appare, in sé, rispondente ad una logica "di sistema". Questa consiste, in effetti, nell’evitare che il medesimo fatto venga punito due volte in capo al medesimo soggetto (una volta come illecito amministrativo e l’altra come illecito penale), mantenendo, tuttavia, la possibilità di una punizione divaricata rispetto a soggetti diversi (ad esempio: amministratore, da un lato, e società amministrata, dall’altro). Inoltre, sebbene l’obbligazione dei soggetti indicati dal citato articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 472 del 1997 sia qualificata come "solidale" rispetto a quella dell’autore della violazione, lo stesso decreto legislativo già contempla la possibilità che detti soggetti rispondano della sanzione amministrativa nonostante l’inapplicabilità della medesima all’autore. Ciò avviene, in particolare, nel caso di morte di quest’ultimo: ancorché, infatti, l’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmetta agli eredi (articolo 8 del decreto legislativo n. 472 del 1997), la responsabilità dei soggetti di che trattasi permane, pure quando la morte sia avvenuta prima dell’irrogazione della sanzione stessa (articolo 11, comma 7, del decreto).
Il tema dei rapporti tra procedimento penale e processo tributario assume una rilevanza tutta particolare nella cornice del nuovo sistema, a fronte del generale spostamento "a valle" della linea di intervento punitivo e dell’introduzione di soglie di punibilità ragguagliate all’ammontare dell’imposta evasa, con conseguente devoluzione al giudice penale di compiti di verifica spesso integralmente sovrapponibili a quelli del giudice tributario.
Al riguardo, si è peraltro decisamente scartata qualsiasi soluzione che postulasse l’affermazione di un rapporto di pregiudizialità tra procedimenti nell’uno o nell’altro senso (pregiudiziale tributaria al processo penale o pregiudiziale penale al processo tributario): e ciò per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, per l’inaccettabile dilatazione dei tempi di intervento della decisione che ne seguirebbe, e che in fatto preluderebbe — come ha in particolare insegnato l’esperienza della "pregiudiziale tributaria", già contemplata dall’articolo 21, terzo comma, della legge 7 gennaio 1929, n. 4 e successivamente abbandonata dal decreto legge n. 429 del 1982 tra il generale plauso — ad un drastico illanguidimento dell’efficacia del sistema sanzionatorio. In secondo luogo, poi, per le diverse regole probatorie valevoli nei due processi, non esportabili sic et simpliciter dall’uno all’altro senza che ne derivino effetti penalizzati per l’imputato o per l’amministrazione finanziaria.
In sostanziale continuum con il panorama normativo vigente, si è pertanto affermato l’opposto principio dell’autonomia reciproca dei due processi (o del "doppio binario"), segnatamente escludendo — sulla falsariga dell’articolo 12, primo comma, prima parte, del decreto legge n. 429 del 1982 — che il processo tributario possa essere sospeso per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione (articolo 19 dello schema): regola, questa, estesa — al fine di evitare ogni possibile dubbio — anche al preliminare procedimento amministrativo di accertamento delle violazioni tributarie. Quanto alla regola inversa — id est, all’impossibilità di sospensione del processo penale per la pendenza di quello tributario — essa discende dalle regole generali del codice di procedura penale (articoli 3 e 479).
Non si sono dettate, del pari, disposizioni particolari sull’efficacia del giudicato penale nel processo tributario, del tipo di quella già prevista dall’articolo 12, primo comma, seconda parte, del decreto legge n. 429 del 1982, e peraltro ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità tacitamente abrogata dal nuovo codice di rito. Troveranno quindi applicazione le disposizioni ordinarie, ed in particolare l’articolo 654 di detto codice, che esclude l’efficacia "esterna" del giudicato penale allorché la legge civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.
Nella cornice degli accolti principi di specialità (retro, § 5.1) e di autonomia, si sono introdotte, per converso, speciali regole procedurali intese ad evitare che le intersezioni dei due sistemi provochino comunque un rallentamento dei tempi di applicazione delle sanzioni. Occorre considerare, per vero, che l’appartenenza d’una data violazione all’area dell’illecito penale, piuttosto che a quella dell’illecito amministrativo, è in funzione di elementi (superamento di soglie, dolo specifico di evasione, eccetera) la cui sussistenza, anche a fronte delle allegazioni difensive dell’imputato, potrebbe ovviamente rimanere esclusa all’esito del procedimento penale (questo potrebbe concludersi, ad esempio, con l’accertamento che la contestata omissione della dichiarazione dei redditi sussiste bensì, ma non è punibile come reato perché al di sotto della soglia di evasione o non qualificata da dolo). In tale situazione, se di fronte a violazioni ritenute integrative di reato l’amministrazione finanziaria dovesse senz’altro sospendere il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative (in quanto inapplicabili sulla base del principio di specialità, ex articolo 18, comma 1, dello schema), salvo poi a riavviarlo in caso di assoluzione o proscioglimento dell’imputato con sentenza definitiva, si aprirebbe, in coda al processo penale — al di là della possibile scadenza, medio tempore, dei termini di decadenza o di prescrizione — una nuova fase suscettiva di sviluppi in sede contenziosa.
Ad evitare ciò, l’articolo 20 dello schema prefigura un meccanismo che consente all’amministrazione finanziaria di determinare subito le sanzioni amministrative astrattamente applicabili per le violazioni fatte oggetto di notizia di reato: sanzioni la cui concreta eseguibilità nei confronti dei soggetti ritenuti penalmente responsabili resta comunque soggetta alla condizione sospensiva che essi vengano assolti o prosciolti in via definitiva con formula che esclude la rilevanza penale del fatto. In tal modo, fermo restando il principio di unicità della sanzione (nella specie, solo amministrativa), viene salvaguardata — conformemente al dettato della citata lettera l) della norma di delega — la capacità di pronta risposta e, dunque, l’efficacia dissuasiva del sistema.
Il comma 3 dello stesso articolo 20 fornisce, da ultimo, un opportuno chiarimento circa l’operatività dell’indicato meccanismo nei casi in cui ci si trovi di fronte a più violazioni tributarie che, in base al disposto dell’articolo 12 del decreto legislativo n. 472 del 1997, debbono essere colpite con sanzione amministrativa unica in quanto in concorso formale o continuazione tra loro. Allorché, in particolare, solo alcune di dette violazioni risultino penalmente rilevanti, l’ufficio competente procederà comunque all’irrogazione di un’unica sanzione per tutte, secondo il disposto del comma 1 dell’articolo 20: ma di tale sanzione sarà eseguibile nei confronti dell’imputato — sino a quando il procedimento penale non si concluda con l’assoluzione o il proscioglimento per la riconosciuta irrilevanza penale del fatto — solo la parte che sarebbe stata applicabile in rapporto alle violazioni considerate ab origine prive di riflessi penali.
A chiusura dello schema, il titolo V detta le disposizioni di coordinamento, transitorie e finali, le quali trovano la loro generale fonte di legittimazione nel criterio di cui all’articolo 16, comma 1, lettera b), della legge delega.
Posto che dell’articolo 21 — connesso alle neointrodotte circostanze attenuanti legate al risarcimento del danno — si è già detto a suo luogo (retro, § 4.2), l’articolo 22 novella l’articolo 63, primo comma, secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e l’articolo 33, terzo comma, secondo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, in tema di trasmissione agli uffici finanziari degli atti di indagine svolti in sede penale relativamente a reati tributari. L’attuale formulazione delle norme novellate — in base alla quale tale trasmissione può aversi solo "previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria in relazione alle norme che disciplinano il segreto" — è stata per vero interpretata nel senso che l’autorizzazione stessa possa intervenire solo quando sia cessato il segreto investigativo in base alle norme del codice di procedura penale: prospettiva nella quale, peraltro, le disposizioni in questione non svolgono alcuna utile funzione, rendendo priva di ratio la stessa previsione di un provvedimento autorizzatorio. Anche in correlazione all’enunciato principio di reciproca autonomia del processo penale e del procedimento amministrativo di accertamento (retro, § 5.2), si chiarisce ora, per converso, che l’autorizzazione de qua può essere rilasciata dall’autorità giudiziaria anche in deroga alle generali disposizioni sul segreto di cui all’articolo 329 del codice di procedura penale. In sostanza, nel concedere o negare la trasmissione, l’autorità giudiziaria potrà compiere, caso per caso, una valutazione comparativa dell’interesse a non diffondere comunque ante diem la conoscenza di atti che possono risultare cruciali per lo svolgimento delle indagini e quello contrapposto dell’amministrazione finanziaria ad avere pronta notizia di acquisizioni investigative suscettive di portare all’avvio di procedure di recupero di imposte o di applicazione di sanzioni.
L’articolo 23 sostituisce con una sanzione amministrativa pecuniaria la sanzione penale attualmente comminata dall’articolo 2 della legge 26 gennaio 1983, n. 18 per le condotte di manomissione dei registratori di cassa. Va rilevato, in proposito, come la qualificazione penalistica di tali condotte non trovi più giustificazione nel nuovo sistema, trattandosi di violazioni "prodromiche" ad una dichiarazione mendace; pur tuttavia, non potrebbe procedersi all’abrogazione pura e semplice della norma incriminatrice, in quanto — diversamente che per altre ipotesi di reato — le violazioni in questione rimarrebbero sfornite di qualsiasi sanzione, anche sul piano amministrativo (assetto, questo, evidentemente inopportuno, trattandosi di comportamenti trasgressivi comunque di rilievo). L’ammontare della sanzione introdotta (da due milioni a quindici milioni di lire) è stato parametrato tenendo conto dell’importo delle sanzioni comminate dal decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 per infrazioni di omologo disvalore.
L’articolo 24 reca le abrogazioni, che investono, conformemente al dettato del comma 1 dell’articolo 9 della legge delega, l’intero titolo I del decreto-legge n. 429 del 1982 e le altre norme vigenti incompatibili con la nuova disciplina. Al riguardo, si è sancita l’abrogazione espressa — oltre che delle disposizioni relative a fattispecie od istituti diversamente disciplinati dallo schema (quali l’articolo 97, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 602 del 1973, in tema di sottrazione fraudolenta alla riscossione delle imposte, o l’articolo 6, comma 1, del decreto legge 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1997, n. 30, in tema di risarcimento del danno nei reati tributari) — anche di un complesso di norme incriminatrici che, sulla falsariga del decreto legge n. 429 del 1982, e talora con esplicito richiamo alle relative disposizioni, sanzionavano penalmente violazioni "prodromiche" ad una falsa dichiarazione, con intenti anticipatori della tutela: modello, questo, da considerare incompatibile con il nuovo assetto, a fronte di quanto innanzi ampiamente lumeggiato.
Tra le norme incriminatrici abrogate non figura quella di cui all’articolo 2, comma 26, del decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17: in forza dell’articolo 6, comma 1, lettera b), della legge n. 205 del 1999 tale disposizione deve essere infatti oggetto di semplice depenalizzazione (depenalizzazione in fatto disposta dall’articolo 27 del decreto attuativo della distinta delega legislativa di cui all’articolo 1 della legge stessa).
Lo schema di decreto è completato da norme transitorie volte a dare compiuta risposta ai delicati problemi connessi alla successione di leggi penali nel tempo.
Giova al riguardo osservare come, a seguito della abolizione del principio di ultrattività delle norme penali finanziarie (articolo 20 della legge n. 4 del 1929) — abolizione imposta dall’articolo 6, comma 1, lettera d), della legge n. 205 del 1999 e sancita anch’essa dal decreto legislativo attuativo della delega di cui all’articolo 1 della medesima legge (articolo 24, comma 1) — la sorte dei fatti criminosi commessi anteriormente all’entrata in vigore del presente decreto dovrebbe essere stabilita alla stregua delle regole generali dettate dall’articolo 2 del codice penale. La diversità strutturale tra il vecchio ed il nuovo regime renderebbe peraltro malcerta l’applicazione di tali regole, determinando l’insorgenza di questioni ermeneutiche particolarmente complesse, destinate ad appesantire, per i loro riflessi sul piano giudiziario, la fase di passaggio dall’uno all’altro sistema. Accanto, infatti, ad ipotesi criminose che non trovano più riscontro nel rinnovato panorama normativo, e rispetto alle quali il presente decreto realizza senz’altro una vicenda di abolitio criminis (omessa fatturazione o registrazione di corrispettivi, irregolarità concernenti le scritture contabili, omesso versamento di ritenute, violazioni concernenti gli stampati, eccetera), ve ne sono per converso altre che presentano più o meno marcati tratti comuni con le fattispecie delittuose di nuovo conio , così che, rispetto ad esse, l’interprete dovrebbe volta per volta indagare se il fatto punibile in base alle vecchie disposizioni resti tale anche in base alle nuove, in vista della successiva individuazione della norma concretamente applicabile alla fattispecie, ex articolo 2, terzo comma, del codice penale, in quanto più favorevole al reo. La definizione dell’area di sovrapposizione dei due schemi punitivi sarebbe resa, peraltro, disagevole dalle discrepanze di struttura, che investono sia l’elemento psicologico (si passa, infatti, da contravvenzioni punite anche a titolo di semplice colpa a delitti qualificati da dolo specifico di evasione: così, ad esempio, rispetto all’omessa dichiarazione); sia la configurazione e l’oggetto materiale della condotta ; sia, infine, le soglie di punibilità, che risultano non soltanto modificate in aumento, ma riferite altresì a diversi parametri (così, ad esempio, la soglia di punibilità dell’omessa dichiarazione è ragguagliata all’imposta evasa e non più ai componenti positivi di reddito non dichiarati).
A tali delicate questioni si è intesa dunque dare soluzione normativa, indicando espressamente e in modo specifico, nel rispetto del generalissimo principio del favor rei, in quali casi i fatti criminosi pregressi conservino rilevanza penale e quali disposizioni siano ad essi applicabili.
In simile prospettiva, l’articolo 25. dello schema prevede preliminarmente, al comma 1, che le nuove norme incriminatrici — caratterizzate, nel complesso, da risposte sanzionatorie decisamente più energiche di quelle prefigurate dalle corrispondenti disposizioni del decreto legge n. 429 del 1982 — non operino in alcun caso, ai sensi dell’articolo 2, terzo comma, del codice penale, relativamente ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore; mentre, nei successivi commi, individua le condizioni in presenza delle quali le vecchie norme incriminatrici continuano ad applicarsi ai fatti posti in essere sotto il loro impero (a contrario sensu, in loro assenza la condotta non sarà più penalmente perseguibile). In sostanza, siffatte condizioni attuano un raccordo tra la vecchia e la nuova disciplina, "ritagliando" entro l’originario perimetro di operatività della singola incriminazione un’area più ristretta, che corrisponde a quella nella quale il fatto manterrebbe valenza penale anche alla stregua delle nuove norme. Nei casi in cui si riscontra una diversità nel parametro di riferimento della soglia di punibilità (imposta evasa, anziché soli componenti positivi), il raccordo è stato operato elevando l’originaria soglia ad un multiplo della soglia prevista per le nuove incriminazioni: multiplo che tiene conto del rapporto esistente, in base all’id quod plerumque accidit, tra omessa indicazione di ricavi ed evasione. Così, ad esempio, si è previsto che la norma incriminatrice dell’omessa dichiarazione, di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legge n. 429 del 1982, continui ad applicarsi solo quando il fatto sia stato commesso al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto (non, dunque, per semplice colpa o dolo generico) e l’ammontare dei redditi fondiari, corrispettivi, ricavi, compensi o altri proventi non dichiarati risulti superiore a lire trecento milioni (in luogo dei cinquanta oggi previsti): importo, questo, pari al triplo della soglia di punibilità ragguagliata all’evasione stabilita per il corrispondente delitto di cui all’articolo 5 del presente schema (articolo 25, comma 2, dello schema). La soluzione mira intuitivamente ad agevolare la definizione del processi in corso, evitando che si debba procedere a supplementi di indagine per accertare il superamento di soglie basate su parametri diversi da quelli sui quali sinora è stata puntata l’attività di accertamento.
È opportuno segnalare, da ultimo, che, a mente del citato articolo 25, quante volte ricorrano le condizioni di applicabilità delle disposizioni incriminatrici del decreto legge n. 429 del 1982 ai fatti anteriormente commessi, tale decreto legge troverà applicazione in blocco (e così, anche per quel che concerne la disciplina delle pene accessorie, della prescrizione, della competenza per territorio, eccetera). Anche nel frangente, l’obiettivo è quello di evitare l’insorgenza di questioni ermeneutiche di non agevole risoluzione, connesse alla "mescolanza" — altrimenti ipotizzabile — tra norme incriminatrici del vecchio regime e norme "collaterali" del nuovo.