RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'appello di Milano, con sentenza del 21 marzo 2024, ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano di condanna di Pr.Gi. e Lo.Za. in ordine al reato cui agli artt. 110,624 bis, 625, comma 2, cod. pen., commesso in M il (Omissis), alla pena di anni 2 mesi 8 di reclusione e Euro 700 di multa e alla misura di sicurezza della espulsione.
Nelle conformi sentenze di merito i fatti sono stati descritti nel modo seguente. I carabinieri, alla data suindicata, erano intervenuti in via (Omissis), dopo che era stata segnalata la presenza di due uomini che stavano camminando sul tetto dello stabile e nel contempo osservando gli appartamenti sottostanti; al quinto e ultimo piano del palazzo avevano constatato che la porta in ferro di accesso al tetto era stata divelta e insieme al proprietario Ug.Gr. avevano provato a fare ingresso nel suo appartamento, ubicato al quinto piano, senza riuscirvi, in quanto la porta era chiusa dall'interno; erano, indi, entrati nell'alloggio tramite la porta finestra presente sul balcone, anch'essa divelta, e qui avevano constatato l'asportazione di due cacciaviti; nello stesso momento, un altro teste oculare aveva segnalo la presenza di due soggetti rannicchiati all'interno di un balcone di un altro appartamento adiacente a quello in cui si era verificato il furto; i carabinieri si erano così recati su tale balcone e avevano individuato Pr. e Lo. intenti a nascondersi e, ai loro piedi, i due cacciaviti sottratti dall'alloggio di Gr..
2. Avverso la sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso, tramite il difensore, con atto unico, formulando cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, hanno dedotto il vizio di motivazione in relazione alla mancata riqualificazione del fatto in forma tentata. Il difensore ribadisce che gli imputati erano stati fermati nella immediatezza dei fatti, sicché non poteva dirsi che avessero acquisito la piena e autonoma disponibilità della refurtiva: la semplice circostanza per cui avevano tentato di nascondersi sul terrazzo adiacente non poteva valere a rendere il reato consumato, in quanto erano stati sorpresi a pochissima distanza dal luogo del furto.
2.2. Con il secondo motivo, hanno dedotto il vizio di motivazione in relazione alla configurazione della circostanza aggravante della violenza sulle cose. Il difensore osserva che non vi era prova alcuna che la rottura della porta di accesso al tetto fosse stata operata dai ricorrenti e osserva, altresì, che la porta finestra della abitazione di Gr. - secondo quanto riferito in denuncia-era stata forzata e non già divelta, come invece indicato dai verbalizzanti negli atti. Fra l'altro la perquisizione disposta nella immediatezza non aveva consentito di rinvenire alcun oggetto atto allo scasso.
2.3. Con il terzo motivo, hanno dedotto il vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Nella sentenza si è dato atto che non esistevano elementi da valorizzare ai fini della mitigazione del trattamento sanzionatorio, non avendo gli imputati manifestato resipiscenza, né fornito indicazioni in merito al contesto criminale all'interno del quale erano maturati i fatti oggetto di imputazione; si è affermato anche che gli imputati si sarebbero avvalsi di supporto logistico e informativo da parte di altri soggetti presenti sul territorio nazionale per poi fare rientro nel paese di origine. Negli atti, tuttavia, non era emerso alcun contatto con qualsivoglia ambiente criminale, né erano emersi elementi di riscontro rispetto alla esistenza di supporti logistici e informativi. Di contro - osserva il difensore - il trattamento sanzionatorio avrebbe dovuto essere mitigato, tenuto anche conto dell'avvenuto risarcimento, superiore al valore del danno arrecato.
2.4. Con il quarto motivo, hanno dedotto la violazione di legge in relazione alla determinazione del trattamento sanzionatorio. La pena, sensibilmente superiore al minimo edittale, era eccessivamente severa e non teneva conto del valore assai modesto dei beni sottratti. Il difensore ricorda che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 86/24 ha dichiarato la illegittimità costituzionale nell'articolo 628 cod. pen. nella parte in cui non prevede che la pena prevista sia diminuita in misura non eccedente un terzo, quando, per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo il fatto risulti di lieve entità.
2.5. Con il quinto motivo, hanno dedotto il vizio di motivazione con rifermento alla applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione. La Corte aveva fondato il giudizio di pericolosità sulla elevata capacità criminale emergente dalle modalità del fatto, dalla sua non estemporaneità, dall'assenza di riferimenti abitativi e lavorativi in Italia, in un contesto che accreditava l'esistenza di una rete di supporto informativo e logistico, senza che, tuttavia, tali valutazioni fossero in alcun modo suffragate dal compendio probatorio.
3. Il procuratore generale, in persona del sostituto Aldo Esposito, ha presentato conclusioni scritte con cui ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
2. Il primo motivo, relativo alla mancata derubricazione del reato nella forma tentata, è inammissibile, in quanto meramente reiterativo della doglianza già formulata in appello, in assenza di confronto puntuale con il percorso argomentativo della Corte di Appello e con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità richiamato. Nel delitto di furto, invero, il criterio distintivo fra consumazione e tentativo risiede nella circostanza che l'imputato consegua, anche se per breve tempo, la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva: l'interesse tutelato è quello della detenzione del bene da parte di chi ne ha diritto, sicché, il delitto è consumato ogni qualvolta il detentore del bene perda la signoria che esercitava sulla cosa (Sez. 5, n. 26749 del 11/04/2016, Oureghi, Rv. 267266). Così è stato nel caso in esame, posto che i ricorrenti, dopo aver sottratto i cacciaviti presenti nell'abitazione di Gr., sono scappati e sono stati rintracciati dalle forze dell'ordine, in un luogo vicino sì, ma diverso da quello del furto, dopo che avevano, quindi, consolidato il possesso sulla merce rubata, al di fuori della sfera di sorveglianza della persona offesa.
3. Il secondo motivo, relativo alla riconosciuta circostanza aggravante della violenza sulle cose è inammissibile, in quanto anch'esso meramente riproduttivo di censura già dedotta ed adeguatamente vagliata e disattesa dalla Corte di Appello con argomenti coerenti e non illogici.
I giudici hanno spiegato, quanto alla porta di accesso al tetto, che essa era stata trovata divelta dagli operanti e, con inferenza non manifestamente illogica, hanno dedotto che la violenza sulle cose sia stata posta in essere dai ricorrenti, presenti sul tetto e autori altresì della contestale manomissione della porta finestra dell'alloggio ove avevano consumato il furto. Quanto alla "forzatura" di tale ultima porta, si ricorda che ai sensi dell'art. 625 n. 2 cod. pen. il furto è aggravato se, per commetterlo, "il colpevole usa violenza sulle cose": la nozione di "violenza sulle cose" è delineata a livello normativo dall'art. 392, secondo comma, cod. pen. che la ritiene sussistente "allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione". La giurisprudenza è concorde nel ritenere che l'aggravante sia integrata dall'uso "di energia fisica diretta a vincere, anche solo immutandone la destinazione, la resistenza che la natura o la mano dell'uomo hanno posto a riparo o difesa della cosa altrui" (cfr. Sez. 5, n. 53984 del 26/10/2017, Amoroso, Rv. 271889; Sez. 5, n. 641 del 30/10/2013, dep. 2014, Eufrate, Rv. 257949). Coerentemente i giudici hanno rilevato che, al di là delle diverse sfumature terminologiche, pacificamente negli atti si dava atto che sulla stessa era stata esercitata una forza fisica, tale da provocare la rottura o quanto meno il danneggiamento.
La Corte si è confrontata anche con la doglianza con cui si era rilevato che agli imputati non erano stati sequestrati oggetti atti allo scasso, spiegando che la manomissione poteva essere avvenuta anche solo tramite l'impiego della forza fisica e che, in ogni caso, prima dell'arrivo delle forze dell'ordine, gli imputati ben avrebbero potuto disfarsi di eventuali strumenti di effrazione.
4. Il terzo motivo, attinente al mancato riconoscimento delle circostanze attenunati generiche, è manifestamente infondato. In tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione. Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, infatti, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 7, Ord. n. 39396 del 27/05/2016, Jebali, Rv. 268475; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016, De Cotiis, Rv. 265826; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 2, n. 2285 dell'11/10/2004, dep. 2005, Alba, Rv. 230691). Peraltro il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986 - 01) ed anche solo sulla base dei precedenti penali (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 - 01). La motivazione della Corte di appello, con cui si è sottolineato che, nel caso di specie, non vi erano elementi da valorizzare ai fini della ulteriore mitigazione del trattamento sanzionatorio, non è, dunque, censurabile.
5. Il quarto e quinto motivo attinenti al trattamento sanzionatorio sono inammissibili, in quanto anch'essi meramente reiterativi delle censure già dedotte, e, comunque, manifestamente infondati. Secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale assolve al relativo obbligo di motivazione se dà conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197). A questo proposito la giurisprudenza ha anche specificato che la pena media edittale non deve essere calcolata dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288). Nel caso in esame la pena è stata determinata in misura inferiore alla media edittale e la Corte ha spiegato, con motivazione particolarmente approfondita, che il discostamento dal minimo trovava adeguata giustificazione nelle modalità della condotta, indicative di organizzazione e non estemporaneità, e nella spiccata capacità a delinquere dimostrata dai ricorrenti. Contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, invero, i giudici hanno anche chiarito, in aderenza alla ricostruzione dei fatti operata attraverso le risultanze delle indagini, per quali ragioni le modalità concrete dovessero ritenersi gravi. In tal senso hanno evidenziato che gli imputati avevano scelto un appartamento non visibile dall'esterno, nel quale si erano introdotti approfittando dell'oscurità; che avevano provveduto a bloccare la porta di ingresso dall'interno; che, una volta accortisi dell'arrivo delle forze dell'ordine, avevano reagito con prontezza. Il motivo, di contro, è meramente avversativo; nel richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 13 maggio 2024 n 68, con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 628 cod. pen. nella parte non prevede che la pena da esso comminata sia diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità, è anche generico, in quanto non si confronta con la contestazione concreta mossa agli imputati e con gli indici di gravità della condotta sottolineati dai giudici di merito.
Anche sotto il profilo della applicazione della misura di sicurezza, la Corte, in ottemperanza al principio per cui la pericolosità sociale rilevante per l'applicazione della misura facoltativa dell'espulsione dal territorio dello Stato di cui all'art. 235 cod. pen. consiste nel pericolo di commissione di nuovi reati e deve essere valutata sulla scorta di ogni altro parametro valutativo di cui all'art. 133 cod. pen.(Sez. 5, n. 23101 del 18/05/2020 Jriji, Rv. 279388), ha ancorato, in modo non irragionevole, il giudizio di pericolosità a dati di fatto concreti, ovvero alla non estemporaneità della condotta, all'assenza di riferimenti abitativi e lavorativi in Italia, tali da far supporre l'esistenza di una rete di supporto informativo e logistico.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi, segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che i ricorrenti non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve essere disposto a loro carico, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere di versare la somma di Euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 26 settembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 14 ottobre 2024.