FATTI DI CAUSA
1. La Corte di appello di Ancona ha:
- confermato la sentenza con cui An.Ul. è stato condannato per il reato di cui all'art. 570-bis cod. pen., quanto alla condotta tenuta in danno del coniuge:
- confermato, quanto alla condotta in danno del figlio, il giudizio di responsabilità, ma, diversamente dal Tribunale - che invece aveva ritenuto sussistente il reato previsto dall'art. 570-bis cod. pen -, ha nuovamente riqualificato il fatto ai sensi dell'art. 570, comma 2, n. 2 cod. pen., cosi come originariamente contestato.
L'imputato avrebbe:
- fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore e alla moglie separata Ol.Ul., omettendo e di versare da gennaio ad aprile 2018 l'assegno di mantenimento mensile di 500 euro e omettendo di contribuire al pagamento delle spese straordinarie per il figlio minore nella misura del 50%;
- violato il provvedimento del Tribunale del 25.1.2018 che prevedeva il diritto dovere dell'imputato di fare visita al figlio almeno due pomeriggi alla settimana (coi l'imputazione.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato articolando sette motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge; il tema attiene alla configurabilità del reato di cui all'art. 570-bis cod. pen. per le condotte compiute in danno del coniuge.
Si assume che per il reato indicato, introdotto in attuazione della legge delega 23 giungo 2017, n. 103 e del c.d. principio della riserva di codice, il legislatore delegato, violando per eccesso la delega, non si sarebbe limitato a "trasferire" nel codice le precedenti fattispecie penali, ma avrebbe proceduto alla incriminazione di un fatto in precedenza non previsto dalla legge come reato, quale, appunto, quello della violazione degli obblighi di natura economica nei confronti del coniuge separato.
In precedenza, si argomenta, si sarebbe potuto procedere per i soggetti separati solo ai sensi dell'art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen., allorché fossero mancati i mezzi di sussistenza
In attuazione delle, legge delega, si argomenta, la condotta del soggetto che viola solo gli obblighi di natura economica nei confronti del coniuge separato senza far mancare a questi i mezzi di sussistenza non potrebbe essere considerata attualmente reato; dunque, la riqualificazione da parte del Tribunale - confermata dalla Corte di appello - sarebbe illegittima; in tal senso si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale "per eccesso di delega" (così il ricorso).
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio motivazione quanto al giudizio di responsabilità.
La sentenza sarebbe viziata per non avere la Corte compiutamente valutato le dichiarazioni dell'imputato che aveva rappresentato e descritto la propria impossibilità incolpevole di adempiere; la Corte avrebbe errato nell'attribuire all'imputato l'onere della prova della impossibilità di adempiere, che, invece, spetterebbe alla pubblica accusa la quale, quindi, sarebbe tenuta a dimostrare che l'imputato avesse avuto la disponibilità di risorse.
2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione; il tema attiene alla riqualificazione compiuta dalla Corte di appello quanto al fatto relativo all'inadempimento dell'obbligo di contribuzione nei confronti del figlio e alla sua riconducibilità alla fattispecie di cui all'art. 570, comma 2, n. 2 , cod. pen., come da originaria imputazione; il Tribunale, come detto, aveva ricondotto entrambi i fatti (l'inadempimento nei riguardi del figlio e della moglie) alla fattispecie di cui all'art. 570-bis cod. pen. con ciò escludendo che nei riguardi del figlio fossero stati fatti mancare i mezzi di sussistenza.
In assenza di impugnazione sul punto, si argomenta, la Corte avrebbe attribuito al fatto una qualificazione giuridica più grave e in tal modo avrebbe violato il principio del divieto di reformatio in peius.
La riqualificazione in danno, si aggiunge, avrebbe dovuto peraltro comportare la riassunzione della prova dichiarativa.
Né la Corte avrebbe considerato, da una parte, che l'inadempimento avrebbe riguardato solo due mensilità e che il minore avrebbe compiuto la maggiore età solo dopo due mesi, e, dall'altra, che, nel caso di specie, si sarebbe dovuta applicare la pena alternativa di cui all'art. 570, comma 1, cod. pen. e non quella congiunta, erroneamente inflitta dal Tribunale.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione di legge quanto al giudizio di responsabilità; l'imputato non avrebbe potuto essere ritenuto responsabile nemmeno per il reato di cui all'art. 570-bis cod. pen., essendo stato il minore affidato in via esclusiva alla madre: un fatto, dunque, non riconducibile al reato previsto dall'art. 570-bis cod. pen. che invece presuppone un affidamento condiviso.
Nel caso di specie vi sarebbe da parte dell'imputato una ignoranza scusabile derivante dalla lettera della legge, con esclusione del dolo.
2.5. Con il quinto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta recidiva e al giudizio di equivalenza con le attenuanti generiche.
Le precedenti condanne, si argomenta, sarebbero state cumulate e scontate in regime di affidamento in prova, al cui esito il Tribunale di Ancona, con ordinanza del 12.4.2017, dichiarò estinta la pena detentiva e ogni altro effetto penale.
Di quelle condanne, si argomenta, non avrebbe quindi potuto tenersi conto ai fini dalla recidiva, che avrebbe dovuto essere esclusa.
Né la sentenza, a fronte di uno specifico motivo di appello, avrebbe motivato sulla sussistenza di una pericolosità maggiore del reo.
2.6. Con il sesto motivo si deduce violazione di legge processuale per avere la Corte ritenuta rituale la costituzione di parte civile nonostante l'atto fosse stato depositato fuori udienza senza la previa notificazione al pubblico ministero: dunque una violazione dell'art. 78 cod. proc. pen.
2.7. Con il settimo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al danno liquidato: il Tribunale avrebbe liquidato la somma di 4.500 euro solo a titolo di danno morale ma la parte civile aveva chiesto solo le somme non pagate, dunque solo i danni materiali; la Corte avrebbe erroneamente ritenuto che le conclusioni della parte civile comprendessero anche i danni morali.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è fondato limitatamente al quinto motivo di ricorso.
2. É infondato il primo motivo di ricorso.
2.1. Il tema attiene ai rapporti tra il reato introdotto all'art. 570-bis cod. pen. e la fattispecie in precedenza disciplinata dagli artt. 3 e 4 I. 8 febbraio 2006, n.54.
Le norme in questione sanzionavano l'omessa corresponsione dell'assegno di mantenimento stabilito in sede di separazione; in particolare, l'art. 3 I. n.54 del 2006, aveva esteso al regime della separazione la previsione sanzionatoria prevista per il divorzio dall'art. 12-sexies I. 1 dicembre 1970, n.898.
Più precisamente, occorreva distinguere, come osservato in dottrina, tre ipotesi.
Anzitutto, vi erano i soggetti coniugati in costanza di coabitazione: ad essi si applicava (e si applica) l'intero art. 570 cod. pen, compreso il comma 2, n. 2, nell'ipotesi in cui si facciano mancare i mezzi di sussistenza.
In secondo luogo, vi erano i divorziati, ai quali si applicava la legge n. 898 del 1970, con la conseguenza che una sola violazione degli obblighi poteva far scattare la responsabilità penale.
Infine, vi erano i separati, comprensivi sia dei separati di fatto che dei separati legali (derivanti da separazione legale omologata, sia consensuale che giudiziale), ai quali, si riteneva, secondo una data ricostruzione giurisprudenziale, applicabile solo l'art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen.: non le altre fattispecie di cui all'art. 570 cod. pen., trattandosi di separati; non la legge n. 898 del 1970, perché riferita ai soli divorziati; non la legge n. 54 del 2006, perché riferita agli obblighi di natura economica a carico di un genitore (divorziato, separato, ex convivente di fatto) a favore dei figli e non riferita agli obblighi con il coniuge o con il convivente.
L'assunto era che la "mera" violazione di un obbligo a carico di un coniuge separato a favore dell'altro coniuge separato non era punibile, mentre la reiterata violazione era punibile la dove si fossero fatti mancare i mezzi di sussistenza.
In particolare, operando un'esegesi fondata sull'iter normativo che aveva condotto all'approvazione della legge n. 54 del 2006, si era affermato che, nonostante l'apparente riferibilità dell'art.3 a qualsivoglia tipo di rapporto patrimoniale e, quindi, anche a quelli intercorrenti tra i coniugi, si dovesse pervenire in via interpretativa a restringere l'ambito applicativo della norma incriminatrice al solo inadempimento dell'assegno previsto a favore dei figli.
Per giungere a tale conclusione, si era sottolineato come dagli atti parlamentari emergesse che il testo dell'originario Kart. 3 fosse il seguente: "1. la mancata corresponsione dell'assegno di mantenimento dei figli per oltre tre mensilità è punibile ex art. 570 c.p." e che dunque, atteso l'incipit della originaria proposizione, la portata e gli ambiti di applicazione della norma, nell'intenzione del legislatore e nel quadro delle riforme in concreto adottate, concernevano le sole obbligazioni di natura economica nei confronti dei figli.
Pur dando atto del fatto che il tenore dell'art.3 l.n. 54 del 2006, nella sua versione definitiva, risultava completamente variato rispetto a quello inizialmente previsto, secondo l'orientamento in parola la corretta interpretazione della norma era quella che individuava gli obblighi di natura economica oggetto di tutela penale soltanto in quelli regolamentati dalla I. n. 54 del 2006, cioè quelli posti a carico di un genitore a favore dei figli (minorenni e maggiorenni), escludendo quindi gli obblighi posti a carico di un coniuge a favore dell'altro, atteso che questi rapporti economici non erano stati oggetto di modifica da parte della I. n. 54 del 2006 (in questo senso, seppur con differenti declinazioni motivazionali, Sez. 6, n.36263 del 22/09/2011, Rv. 250879; Sez. 6, n. 34181 del 19/6/2014, non mass.; Sez.6, n.41832 del 30/9/2014, non mass.; Sez.6, n.10800 del 28/11/2013, dep.2014, non mass.).
Alla luce di tale orientamento, nel caso di omesso versamento dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice nei confronti del coniuge separato, la tutela penale non conseguiva al mero inadempimento, dovendosi ricondurre la condotta nella previsione di cui all'art. 570, comma primo cod. pen., ovvero nello schema del più restrittivo art. 570, comma 2, cod. pen.
2.2. L'attuale art. 570-bis, cod. pen., ha razionalizzato la disciplina, racchiudendo in un'unica previsione sanzionatoria la condotta del coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero di violazione degli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli.
La suddetta norma, in quanto introdotta a seguito della risistemazione organica conseguente alla previsione della "riserva di codice", si è limitata a ricondurre nell'alveo del codice penale le norme incriminatrici precedentemente contenute nella legislazione speciale senza, tuttavia, che apportare alcuna modifica sostanziale della disciplina sanzionatoria.
In tale contesto assumono allora rilievo i principi affermati dalla giurisprudenza, di cui si è detto, formatasi in relazione alla disciplina contenuta all'art. 3 I. 8 febbraio 2006, n.54, che, in virtù della conclamata continuità normativa con l'attuale art. 570-bis cod. pen., dovrebbero ritenersi riferiti anche alla nuova previsione.
Il corollario che ne dovrebbe derivare, secondo l'impostazione in parola, sarebbe quello per cui i fatti in esame non sarebbero incriminati nemmeno oggi, perché opinando diversamente ci si troverebbe di fronte a una nuova incriminazione e quindi a un vero e proprio eccesso di delega.
2.3. Si tratta di un assunto che, a parere del Collegio, non può essere condiviso. Sez. 6, n. 36205 del 16/12/2020, A., Rv. 280179, dopo aver ripercorso i plurimi interventi normativi succedutisi sul tema, ha correttamente valorizzato, in senso diverso rispetto alla impostazione in precedenza descritta, il fatto che l'art. 3, della legge n. 54 del 2006, abbia esteso l'applicabilità dell'art. 12-sexies, I. n. 898 del 1970 al "caso di violazione degli obblighi di natura economica" discendenti dal provvedimenti adottati in sede di separazione tra i coniugi, equiparando cosi integralmente sul piano penale il mancato versamento dell'assegno nei confronti del coniuge e dei figli, stabilito tanto in sede di separazione quanto di divorzio
A supporto di tale conclusione è stato valorizzato testualmente quanto osservato da Corte cost., sent. n. 189 del 2019 in cui, seppur in un obiter dictum, la Corte, in senso non propriamente simmetrico all'indirizzo di cui in precedenza si è detto, ha affermato appunto che "l'art. 3 della legge n. 54 del 2006 stabili l'applicabilità dell'art. 12 sexies della legge n. 898 del 1970 per il caso "di violazione degli obblighi di natura economica" discendenti dalla sentenza di separazione tra i coniugi equiparando cosi integralmente sul piano penale il mancato versamento dell'assegno nei confronti del coniuge e dei figli, stabilito tanto in sede di separazione quanto di divorzio".
Si tratta di un inciso "equiparando cosi integralmente sul piano penale il mancato versamento dell'assegno nei confronti del coniuge", che si presta ad essere interpretato nel senso che la legge n. 54 del 2006 aveva equiparato anche i coniugi legalmente separati ai divorziati
In effetti, come già rilevato, il dato testuale dell'art. 3 della L. n. 54 del 2006, art. 3 fa riferimento in generale ai casi di violazione degli obblighi di natura economica originati dal procedimento di separazione dei coniugi, senza alcuna distinzione in relazione ai soggetti beneficiari.
Sotto altro profilo, assume rilievo il fatto che il rinvio disposto dall'art. 3 cit. alla L. n. 898 del 1970, art. 12-sexies - che contempla la condotta del coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile dovuto rispettivamente, ai sensi degli artt. 5 e 6 della medesima legge, in favore dell'altro coniuge o dei figli- rivela come la fattispecie astratta in esame, poi trasfusa nel vigente art. 570-bis cod. pen., punisca gli inadempimenti degli obblighi di natura economica originati da provvedimenti adottati nel corso del procedimento di separazione dei coniugi non solo quando tali obblighi siano stabiliti in favore dei figli, ma anche allorché essi siano imposti in favore dell'altro coniuge (in tal senso, Sez. 6, n. 43341 del 27/09/2016, D.C., Rv. 268506, che in motivazione ha affermato che il citato art. 3 assiste con sanzione penale gli inadempimenti agli obblighi stabiliti con qualunque intervento, volontario o coattivo, dettati in materia economica nel corso della separazione; vedi, Sez. 6, n. 1653 del 24/10/2013, dep. 2014, F., Rv. 258132, che in motivazione ha precisato che il citato art. 3 sanziona la violazione degli "obblighi di natura economica", senza operare alcuna
distinzione quanto alla loro fonte; in tal senso anche Sez.6, n.18106 del 10/5/2021, Sacco, n.m., - che ha ritenuto che il reato di cui all'art. 570-bis cod. pen. sia configurabile anche nel caso in cui l'omesso versamento abbia ad oggetto l'assegno previsto in favore del coniuge separato)
In tale contesto si è peraltro osservato in modo condivisibile in dottrina che la separazione legale presenta caratteristiche assimilabili al divorzio perché, sul piano formale, non solo, come per il divorzio, possono derivare da essa obblighi di corresponsione giudizialmente stabiliti a carico di un coniuge e a favore dell'altro, ma anche perché, se si assume come ratio della tutela di queste situazioni la vulnerabilità di una delle due parti, si deve osservare come la situazione del coniuge separato sia di obiettiva vulnerabilità e necessità di tutela, essendo la separazione una fase che se può essere transitoria, può anche risultare definitiva, e comunque in entrambe le ipotesi si tratta di una fase di ridefinizione dei rapporti contraddistinta da incertezza, trasformazione e spesso anche tensioni.
Ne discende la infondatezza del motivo di ricorso e la inammissibilità della richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale.
3. Il secondo motivo, relativo alla situazione di impossibilità assoluta e incolpevole di adempiere da parte dell'imputato, è inammissibile.
La Corte di cassazione, anche recentemente, ha spiegato che l'impossibilità assoluta dell'obbligato di far fronte agli adempimenti sanzionati dall'art. 570-bis cod. pen., che esclude il dolo, non può essere assimilata alla indigenza totale, dovendosi valutare se, in una prospettiva di bilanciamento dei beni in conflitto, ferma restando la prevalenza dell'interesse dei minori e degli aventi diritto alle prestazioni, il soggetto abbia effettivamente la possibilità di assolvere ai propri obblighi senza rinunciare a condizioni di dignitosa sopravvivenza.
Si è precisato che, a tal fine, deve tenersi conto delle peculiarità del caso concreto, e, in particolare, dell'entità delle prestazioni imposte, delle disponibilità reddituali del soggetto obbligato, della sua solerzia nel reperire, all'occorrenza, fonti ulteriori di guadagno, della necessita per lo stesso di provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita, del contesto socio-economico di riferimento (Sez. 6, n. 32576 del 15/06/2022, F, Rv. 283616)
In tale contesto, rispetto ad una adeguata motivazione con cui la Corte ha, da una parte, spiegato come l'imputato avesse acquistato per il minore strumenti elettronici di non modesto costo e, dall'altra, evidenziato una serie di considerazioni non manifestamente illogiche, nulla di specifico è stato dedotto, essendosi il ricorrente limitato a reiterare le stesse considerazioni portate alla cognizione dei Giudici di merito e da questi adeguatamente valutate
4. É infondato il terzo motivo di ricorso.
L'assunto difensivo è che la Corte di appello, quanto alla omessa contribuzione nei riguardi del figlio, non avrebbe potuto ricondurre il fatto, riqualificato dal Tribunale nel reato di cui all'art. 570-bis cod. pen., alla originaria imputazione in cui era contestato il reato previsto dall'art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen.
Nell'operare la riqualificazione la Corte avrebbe peraltro violato il divieto di reformatio in peius e comunque avrebbe dovuto disporre la rinnovazione dell'esame dei testimoni.
Si tratta di un assunto che non può essere condiviso.
Sotto un primo profilo, la riqualificazione operata da parte del giudice di appello non può considerarsi resa "a sorpresa", essendo conforme alla qualificazione giuridica operata dal pubblico ministero; una riqualificazione legittima e conforme alle regole del giusto processo e ai principi sovranazionali del contraddittorio e della prevedibilità delle decisioni in quanto l'imputato, sin dall'inizio del procedimento, ha potuto esercitare i propri diritti difensivi.
Sotto altro profilo, è utile evidenziare come, nei casi, come quello di specie, in cui la diversa definizione giuridica del fatto sia data dal giudice di primo grado e contro la decisione così emessa sia possibile provocare un controllo dapprima in appello e poi davanti alla Corte di cassazione, la Corte di Strasburgo risulti orientata ad escludere la violazione dell'art. 6, par. 1 e 3, lett. a) e b), della Convenzione alla luce di una valutazione che tiene conto del complesso del procedimento e della possibilità dell'imputato di far valere le proprie ragioni davanti al giudice nazionale (emblematiche sono, in proposito, le sentenze Corte EDU, Quinta Sezione, 9 dicembre 2010, Zhupnik c. Ucraina, e le sentenze 'gemelle' Corte EDU, Quarta Sezione, 8 ottobre 2013, Mulosmani c. Albania, e Corte EDU, Quarta Sezione, 8 ottobre 2013, Hoxha c. Albania).
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha inoltre in più occasioni escluso la violazione dei parametri convenzionali in tutti i casi in cui la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato, censurando, in concreto, le ipotesi in cui la riqualificazione dell'addebito assuma le caratteristiche di un atto a sorpresa.
La stessa Corte, inoltre, non ha mancato di sottolineare come il diritto di difesa e quello al contraddittorio non siano vulnerati nei casi in cui i fatti costitutivi del nuovo reato siano già presenti nella originaria imputazione: ciò, evidentemente, anche nella ipotesi in cui la nuova definizione giuridica non fosse di per sé prevedibile per l'imputato (v. fra le tante, sentenze lOmarzo 2001, Dallos c. Ungheria; 3 luglio 2006, Vesque c. Francia; 7 gennaio 2010, Penev c. Bulgaria; 12 aprile 2011, Adrian Constantin c. Romania; 3 maggio 2011, Giosakis c. Grecia; 15 gennaio 2015, Mihei c. Slovenia, nella quale ultima si è in particolare rilevato come l'imputato fosse pienamente a conoscenza degli elementi fattuali posti alla base della contestazione originaria, dai quali era possibile desumere l'oggetto della contestazione cosi come modificata nel corso del dibattimento).
In tale contesto, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito come l'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. Il, secondo comma, Cost., e dell'art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. U., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438).
Sotto ulteriore profilo, quanto all'ipotizzata violazione del divieto di reformatio in peius, la Corte di appello, nel ricondurre il fatto alla originaria imputazione, non ha inflitto una pena più grave rispetto a quella in concreto irrogata dal Tribunale e anche il tema della legittimità della pena inflitta dal Tribunale in relazione al reato di cui all'art. 570-bis cod. pen., a cui il fatto era stato ricondotto, e sostanzialmente assorbito dalla rituale riqualificazione compiuta dalla Corte.
Né, ancora, rileva il tema della rinnovazione dibattimentale, ai sensi dell'art. 603, comma 3 bis, cod, proc. pen.; sul punto il motivo e generico non essendo stato spiegato quali dichiarazioni sarebbero state diversamente valutate e perché dette dichiarazioni sarebbero state decisive.
5. É inammissibile il quarto motivo di ricorso.
Si tratta di un motivo articolato sul presupposto che, in relazione alla condotta nei riguardi del figlio minore, il fatto per cui si procede sia riconducibile al reato di cui all'art. 570-bis cod. pen.: alla luce di quanto detto in ordine alla corretta riqualificazione compiuta dalla Corte, il motivo perde di giuridica rilevanza.
6. É invece fondato il quinto motivo di ricorso, relativo alla ritenuta recidiva.
Dal certificato penale emerge che le precedenti condanne riportate dall'imputato sono state cumulate e scontate in regime di affidamento in prova ai servizio sociali; in ragione dell'esito positivo dell'affidamento, il Tribunale di Sorveglianza di Ancona il 12.4.2017 ha dichiarato, prima della cessazione della condotta per cui si procede, l'estinzione "della pena detentiva e di ogni altro effetto penale".
Le Sezioni unite della Corte hanno già spiegato come l'estinzione di ogni effetto penale determinata dall'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale comporta che delle relative condanne non possa tenersi conto agli effetti della recidiva (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Rv. 251688).
Ne consegue che la ritenuta recidiva deve essere eliminata e la pena rideterminata, in ragione delle riconosciute circostanze attenuanti generiche, in mesi tre e giorni venti di reclusione e 266,00 euro di multa.
7. É infondato per carenza di interesse il sesto motivo di ricorso, non essendo chiaro né quale sia l'interesse concreto e attuale dell'imputato a dedurre la omessa notificazione dell'atto di costituzione di parte civile, avvenuto fuor udienza, al pubblico ministero, che nulla ha eccepito nel corso del giudizio, e neppure quale sia stato in concreto il pregiudizio subito dal ricorrente.
8. É infine infondato, ai limiti della inammissibilità, il settimo motivo ricorso, avendo la Corte correttamente chiarito come dal dato testuale delle conclusioni rassegnate dalla parte civile all'udienza del 24.2.2020 non sia possibile ritenere né che la pretesa risarcitoria fosse stata limitata i soli danni materiali e neppure che vi fosse stata una rinuncia al risarcimento dei danni morali, chiesti invece con l'atto di costituzione di parte civile.
Nulla di specifico è stato dedotto, essendosi limitato anche in questo caso il ricorrente limitato a reiterare le stesse argomentazioni portate alla cognizione del Giudice di merito e da questi correttamente valutate
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta recidiva, che elimina, e per l'effetto ridetermina la pena in mesi tre e giorni venti di reclusione e 266,00 euro di multa.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 14 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2024.