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Atti persecutori: la reiterazione delle condotte produce un evento unitario di danno desumibile dal turbamento psicologico della vittima

Stalking

Cassazione penale sez. V, 10/01/2024, n.7462

Il reato di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), quale reato abituale di danno, richiede la reiterazione di condotte persecutorie che, considerate nel loro complesso, determinano uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma (grave stato d'ansia o paura, alterazione delle abitudini di vita della vittima). L'evento può manifestarsi anche dopo la consumazione dell'ennesimo atto persecutorio, in quanto ciò che rileva è la condotta unitaria e continuativa, non i singoli atti, i quali concorrono a produrre un progressivo accumulo di disagio nella vittima. La prova dell’evento può essere desunta da elementi sintomatici del turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della vittima o dai suoi comportamenti successivi alla condotta denunciata.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli ha confermato la decisione del Tribunale di Torre Annunziata - che aveva dichiarato Sc.Ra. colpevole di atti persecutori, lesioni personali aggravate, in danno di Ra.Ma., con cui aveva avuto una relazione sentimentale, ed evasione, e, riconosciuto il vincolo della continuazione, lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, assolvendolo, invece, per il reato di cui al punto 3) dei capi di imputazione (e dunque per il reato di cui all'art. 570, comma 2, n. 2, cod. pen.), con le statuizioni risarcitorie in favore della costituita parte civile. 2. Ricorre per cassazione l'imputato con il ministero del difensore di fiducia, avvocato Del Vecchio Antonio, che svolge sei motivi. 2.1. Con il primo motivo, denuncia erronea applicazione dell'art. 612 bis comma 4 cod.pen., e i correlati vizi della motivazione, in relazione al concetto di gravità delle minacce, quale presupposto per la irrevocabilità della querela. Posto che all'udienza del 06 aprile 2023 è intervenuta la remissione della querela da parte della persona offesa con contestuale accettazione da parte dell'imputato, lamenta il ricorrente la mancata contestualizzazione delle parole asseritamente minacciose, da valutarsi, anche alla luce della intervenuta remissione di querela, nell'ambito di un rapporto conflittuale caratterizzato da problemi economici, in cui l'imputato sarebbe stato succube della persona offesa e delle sue pretese economiche, tanto da non potersi ritenere integrato l'evento del reato non essendo dimostrata la volontà persecutoria dell'imputato, in realtà interessato solo a vedere la propria figlioletta. Non risultando dimostrato il delitto di stalking, verrebbe meno anche la procedibilità officiosa per il delitto di lesioni. 2.2. Il secondo motivo denuncia illogicità della motivazione in merito alla ritenuta sussistenza del delitto di atti persecutori, non potendosi ritenere sussistente l'evento del reato per la mancanza del turbamento psicologico tipico della fattispecie, come si evince dalle dichiarazioni rese dalla ricorrente in sede di controesame. 2.2. Con il terzo motivo, deduce erronea applicazione dell'art. 582 cod. pen. e correlati vizi della motivazione, non potendosi sussumere le conseguenze fisiche della condotta in contestazione nello schema delle lesioni quanto, piuttosto, in quello di percosse, mancando il dato della alterazione anatomica con riduzione di funzionalità dell'organismo. 2.3. Il quarto motivo lamenta vizi della motivazione con riguardo all'affermata responsabilità per il delitto di evasione: secondo il ricorrente, la Corte di appello non avrebbe riscontrato le doglianze dell'appellante incentrate sulle contraddizioni emerse tra le dichiarazioni rese dalla p.o. in sede di redazione della querela e quelle fornite in sede di S.i.t. dopo circa un mese e mezzo dai fatti. 2.4. Gli ultimi due motivi attingono il trattamento sanzionatorio e denunciano vizi della motivazione. La Corte di appello non avrebbe replicato alla questione concernente la incongruità dell'aumento di pena per la continuazione, né alle doglianze con cui si denunciava la illogicità della motivazione in punto di disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di individuazione della pena base in misura superiore al doppio di quella minima edittale. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso non è fondato. 1.Non ha pregio il primo motivo. 1.1. Il Collegio premette di riconoscersi nell'orientamento, prevalente nella giurisprudenza di legittimità che, in tema di atti persecutori, ai fini dell'irrevocabilità della querela ex art. 612-bis, comma quarto, cod. pen., ritiene non necessario che la gravità delle minacce sia oggetto, nell'imputazione, di specifica contestazione, non costituendo una circostanza aggravante, ma una modalità della condotta, incidente sulla revocabilità della querela. La valutazione della gravità delle minacce è demandata, quindi, alla valutazione del giudice e deve essere comunque ricavabile dalla compiuta descrizione della condotta nell'imputazione (Sez. 5 n. 7994 del 09/12/2020 (dep. 2021) Rv. 280726; Sez. 5 n. 9403 del 24/01/2022, Rv. 282983, conf. Sez. 5 n. 34412 del 11/05/2023, Rv. 284992). 1.2. Nel caso di specie, l'imputazione contiene un chiaro riferimento, nella descrizione della condotta persecutoria, alla minaccia grave pronunciata dall'imputato nel corso di una conversazione telefonica ("le devo tagliare la testa ora che esco, la devo mettere su una sedia a rotelle, le devo dare fuoco"). Dunque, potendo riconoscersi che, nella imputazione, è stato contestato in modo chiaro e preciso che la condotta è stata realizzata con minacce integranti i caratteri della circostanza aggravante di cui all'art. 612, comma secondo, cod. pen., trattandosi di intimidazioni riguardanti la vita e l'incolumità personale della vittima e dei suoi familiari, la Corte di appello si è determinata correttamente, considerando oggettivamente gravi le minacce rivolte dall'imputato all'ex compagna. 1.3. Del tutto infondata la deduzione difensiva incentrata sulla mancata contestualizzazione della condotta persecutoria, laddove la sentenza impugnata contiene, invece, un'ampia ricostruzione delle vicende che hanno condotto alla degenerazione del rapporto di coppia e alle plurime modalità persecutorie con le quali si è manifestato il rifiuto dell'imputato di accettare la fine della relazione, anche sottolineando come la decisione della donna di interrompere la seconda gravidanza fosse sintomatica della condizione di sofferenza e esasperazione vissuta. 1.4. L'inquadramento giuridico del fatto nello schema degli atti persecutori risulta, dunque, corretto, avendo dato atto la sentenza impugnata della condotta assillante, implacabile, morbosa, molesta e gravemente intimidatoria dell'imputato, perpetrata in un arco temporale niente affatto insignificante. 2. Da qui la inammissibilità del secondo motivo, incentrato sull'evento del reato, in quanto sostanzialmente finalizzato a contrastare le valutazioni espresse dalla Corte di appello, con l'intento di conseguire una diversa, quanto inammissibile, ricostruzione in fatto, che, invece, si fonda su argomentazioni logiche e coerenti con le emergenze probatorie, le quali, per quanto si è già ricordato a proposito delle gravi minacce pronunciate dall'imputato, danno conto degli effettivi rapporti di forza esistenti nella coppia, e smentiscono palesemente la tesi difensiva di un imputato "succube" della compagna. Al contrario, la Corte di appello ha dato atto, in uno al Giudice di primo grado, della idoneità delle minacce e delle ingiurie patite dalla persona offesa a turbare la serenità e l'equilibrio psicologico, come rappresentato in dibattimento dalla persona offesa che ha anche riferito del cambio di alcune abitudini di vita. Come è noto, ciò che rileva è che le singole condotte, considerate unitariamente, risultino idonee a ingenerare nella vittima un progressivo stato di disagio e di prostrazione psicologica, tale da dare luogo a uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice (Sez. 5 n.33842 del 03/04/2018, rv. 273622; Sez. 5 n. 41040 del 17/06/2014, rv. 260395; Sez. 5 n. 5313 del 16/09/2014, rv. 262665; Sez. 5 n. 6417 del 21/01/2010, rv. 245881). 2.1. Ciò che si richiede per l'integrazione del delitto di stalking, che è costruito quale reato abituale di danno, è la necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e il loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell'evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio, sicché ci・che rileva non sono i singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causaimente orientata alla produzione dell'evento. In tal senso, si è precisato efficacemente, l'essenza dell'incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici (di per sé già rilevanti penalmente), bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo del disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell'art. 612 bis (Sez. 5 - n. 7899 del 14/01/2019 Rv. 275381; conf. a Sez. 5, n. 54920 del 08/06/2016, Rv. 269081; Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, Rv. 262636). Non si vede come possa dubitarsi della inidoneità di condotte persecutori e, attuate per un non trascurabile arco temporale, a produrre uno stato d'ansia e di paura nella vittima. Peraltro, nella elaborazione ermeneutica operata, negli anni, da questa Corte di legittimità ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, si è detto della sufficienza anche di uno solo degli eventi alternativamente indicati nell'art. 612 bis cod. pen. (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, Rv. 265231), e, quanto alla prova dell'evento stesso, che esso può essere desunto, in generale, da elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, come evincibili dalle dichiarazioni della vittima o dai comportamenti da questa tenuti successivamente alla condotta denunciata (ex plurimis, Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, rv. 269621). 3. Manifestamente infondato il terzo motivo, che tende alla derubricazione del reato contestato, di lesioni personali, in quello di percosse, replicando doglianze già puntualmente valutate dalla Corte di appello, che ha condotto lo scrutinio sulla natura giuridica della condotta in questione in conformità con l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (peraltro espressamente richiamata) in merito al concetto di malattia, integrata da qualsiasi alterazione, anatomica o funzionale, dell'organismo, ancorché lieve e circoscritta, e non influente sulle condizioni organiche generali, che comporti un processo di reintegrazione, sia pure di breve durata, della salute della vittima (Sez. 5, n. 43763 del 29/09/2010 Rv. 248778). 3.1. Nell'ottica di tale linea ermeneutica, si è riconosciuto che rientri nella nozione di "malattia" anche l'ematoma, in quanto consiste in un versamento ematico nei tessuti sottocutanei che comporta un'alterazione anatomica alla quale segue un naturale processo riabilitativo. (Conf. Sez. 1, n. 11000 del 1978, Rv. 139944; conf. Sez. 1 n. 31008 del 25/09/2020, Rv. 279795), così come l'ecchimosi (Sez. 6, n. 10986 del 13/01/2010 Rv. 246679), la contusione (Sez. 5, n. 22781 del 26/04/2010, Rv. 247518), e l'escoriazione (Sez. 5, n. 6371 del 19/01/2010 Rv. 246158), anche se limitate ad una ristretta zona di tessuti (Sez. 1, n. 4118 del 31/01/1972, Rv. 121300), essendosi precisato che la malattia perdura anche quando è visibile, sulla cute, una crosta ematica, dal momento che questa, pur costituendo un fatto secondario dell'alterazione primitiva, nasconde una superficie non integra e cioè una epidermide non ancora ricostituita appieno, sicché la lesione non può ritenersi giunta al termine di guarigione, ma abbisogna ancora di cure fino a che non si sia formata la cicatrice cutanea.(Sez. 1, n. 2904 del 11/10/1976 (dep. 1977) Rv. 135358). 4. Parimenti infondato il quarto motivo: risulta pacifico che l'aggressione ai danni della compagna, da cui derivò un'escoriazione ai danni della vittima (in ci・consistendo le lesioni personali refertate e giudicate guaribili in giorni uno), avvenne nell'androne del palazzo, cosicché correttamente, la Corte di appello ha ravvisato il delitto di evasione, attenendosi al principio di diritto secondo il quale, in tema di evasione dalla detenzione domiciliare, agli effetti dell'art. 385 cod. pen., deve intendersi per abitazione lo spazio fisico delimitato dall'unità abitativa in cui la persona conduce la propria vita domestica, con esclusione di ogni altra pertinenza (Cass. n. 4731 del 2016, Rv. 268500), come aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili, che non sia di stretta pertinenza dell'abitazione e non ne costituisca parte integrante (Sez. 6, n. 4830 del 21/10/2014 (dep. 2015) Rv. 262155). 5. Gli ultimi due motivi, che attingono il trattamento sanzionatorio sono manifestamente infondati: non risponde al vero la circostanza secondo la quale nessuna risposta sarebbe stata fornita dai giudici di merito sulla questione concernente l'aumento di pena dovuto per la continuazione, avendo la Corte di appello fatto espresso riferimento alla qualità e quantità delle molestie arrecate, e ritenendo proporzionata e adeguata all'entità dei fatti gli aumenti individuati dal primo Giudice. (cfr. pag. 8, rig. 10, della sentenza impugnata). 5.1. Espressa motivazione si rinviene nella sentenza impugnata anche con riguardo al diniego delle generiche e dell'irrogazione di una pena superiore ai minimi edittali, giustificati dalla gravità e reiterazione delle condotte illecite e dalla assenza di comportamento collaborativo dell'imputato. (cfr. pag. 8, rig. 5 e ss.). Posto che, all'epoca del fatto la pena per il delitto di stalking era quella della reclusione da sei mesi a cinque anni, la misura di un anno, individuata quale pena base, pur corrispondendo al doppio del minimo edittale, è certamente ben inferiore al medio e non significativamente distante dal minimo. Come si è già rilevato, sul punto vi è specifica replica della Corte di appello, dovendo ribadirsi che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, Sentenza n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243). P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. N. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2024.
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