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Bancarotta fraudolenta documentale: responsabilità dell'amministratore formale per omessa contabilità

Bancarotta fraudolenta documentale

Ottobre 2024 - Cassazione penale, Sez. 5 Num. 40860 Anno 2024

L'amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per omessa tenuta o sottrazione delle scritture contabili, anche se investito solo formalmente della carica.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1.Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Pesaro, in data 25 gennaio 2022, che aveva ritenuto S. U. responsabile del reato di bancarotta semplice documentale, condannandolo, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale. La Corte di appello ha ritenuto che l'imputato, quale rappresentante legale dell'associazione Casartigiani - Artigianato Metaurense, non possa essere considerato come mero amministratore formale, sottolineando aspetti che hanno fatto emergere profili di responsabilità sostanziale ed un suo pieno coinvolgimento nella vita dell'associazione. 2. L'imputato, per il tramite del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione. 2.1. Denuncia, con primo motivo, vizio di violazione di legge in relazione agli articoli 18 e 217, legge fall. Deduce che la sentenza di fallimento pronunciata dal Tribunale di Pesaro, confermata in sede di reclamo dalla Corte di appello di Ancona, è stata annullata dalla Corte di cassazione, con ordinanza del 16 Marzo 2020, con rinvio alla medesima Corte territoriale, per ulteriori accertamenti sulla prosecuzione dell'impresa non essendo stato ritenuto sufficiente l'avvenuto affitto dell'azienda. Il ricorso in riassunzione è stato, tuttavia, successivamente dichiarato improcedibile con sentenza della Corte di appello di Ancona del 27 novembre 2020, n. 1257/20. La Corte di appello, con la sentenza impugnata, avrebbe dovuto tenere conto della regola sancita dall'art. 393 cod.proc. civ., ritenendo inefficace la sentenza dichiarativa di fallimento, come stabilito da questa Corte con sentenza della I Sezione civile n. 3022/2020, traendone la dovuta conseguenza in punto di insussistenza dell'addebito contestato all'imputato per essere venuto meno un elemento costitutivo del reato. 2.2. Con secondo motivo denuncia vizio di violazione dell'art. 217, comma 2, legge fall. per la mancanza dell'elemento soggettivo del reato. 3. Le parti non hanno formulato richiesta di discussione orale ex art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 ( conv. in legge 18 dicembre 2020, n. 176) e successive proroghe. 4. Il Sostituto Procuratore generale, Lucia Odello, ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. 5. Il difensore, ha insistito, con memoria scritta, nell'accoglimento del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è nel suo complesso infondato. 1.11 primo motivo di ricorso, con il quale si invoca l'applicazione nel presente giudizio del principio sancito con la sentenza della Cass. civ., Sez.1., n. 3022/2020, non merita accogli mento. 1.1. Va premesso che, secondo le deduzioni del ricorrente, all'esito dell'annullamento con rinvio in sede di legittimità della sentenza di rigetto del reclamo ex art. 18 L.Fall. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento dell' associazione C. - Artigianato M., il ricorso in riassunzione, sempre in sede civile, è stato dichiarato improcedibile con sentenza della Corte di appello di Ancona del 27 novembre 2020, n. 1257/20 per vizi procedurali; in dipendenza di ciò il ricorrente invoca tout court l'applicabilità alla fattispecie in esame del principio espresso dalla sentenza suddetta in punto di inefficacia della sentenza di fallimento e di conseguente insussistenza del reato. 1.1.1. Con la suddetta pronuncia n. 3022/2020, la Sez. 1 di questa Corte, investita della questione circa l'applicabilità al processo fallimentare della disciplina generale delle impugnazioni - ed in particolare dell'art. 393 cod. proc. civ., nella parte in cui dispone che in caso di mancata riassunzione o di estinzione del giudizio di rinvio ""l'intero processo di estingue"" - ha affermato che, in tema di effetti del giudizio di rinvio su quello per la dichiarazione di fallimento, ove la sentenza di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa, di cui all'art. 18 I. fall., sia stata cassata con rinvio e il processo non sia stato riassunto nel termine prescritto, trova piena applicazione la regola generale di cui all'art. 393 c.p.c., alla stregua della quale alla mancata riassunzione consegue l'estinzione dell'intero processo e, quindi, anche l'inefficacia della sentenza di fallimento (Cass. civ. Sez. 1, n. 3022 del 10/02/2020, Rv. 657053 - 01). 1.1.2. La pronuncia in questione ha motivato tale conclusione rilevando, tra l'altro, che: secondo « il testo originario dell'art. 18 della legge fall., antecedente alle riforme di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 e al d.lgs. n. 169 del 2007, l'opposizione al fallimento costituiva, in base all'opinione prevalente, un mezzo di impugnazione teso ad avviare un processo di cognizione di primo grado, caratterizzato dalla diretta applicazione delle norme ordinarie del codice di rito anche relativamente alle successive fasi (appello e ricorso per cassazione). Sicché nel contesto di quella normativa era possibile sostenere [....] che la mancata riassunzione del giudizio di rinvio, in casi simili a quello in esame, avesse a travolgere il (solo) giudizio di opposizione, ferma restando la stabilizzazione della sentenza di fallimento»; nel nuovo modello normativo, conseguente alla riforma della legge fallimentare, una analoga conclusione sarebbe priva di supporto, visto che il reclamo ex art. 18 legge Fall. è disciplinato in modo diverso, essendo caratterizzato da un effetto devolutivo pieno e attinente a un provvedimento decisorio, emesso all'esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio e suscettibile di acquistare autorità di cosa giudicata. Invero, l'art. 393 c.p.c. ha la portata di una regola generale e non è condivisibile l'affermazione secondo cui tale norma sarebbe applicabile solo in presenza di sentenza avente ""funzione sostitutiva"" in quanto la norma prevede l'estinzione dell'intero processo come conseguenza dell'estinzione del giudizio di rinvio, con conseguente caducazione di tutte le attività espletate, salva la sola efficacia del principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione; nel caso del processo per dichiarazione di fallimento, non è dato rinvenire l'esistenza di un'altra regola, speciale e per l'appunto derogatoria, rispetto all'art. 393 cod. proc. civ., a differenza di quanto previsto per l'opposizione a decreto ingiuntivo, per il quale vige la diversa regola di cui all'art. 653 cod. proc.civ. che disciplina la sorte del decreto ingiuntivo opposto a seconda che l'opposizione sia stata rigetta oppure accolta. La tesi secondo cui l'oggetto del giudizio di reclamo, è costituito dal gravame proposto contro la detta sentenza, e non dall'originaria domanda di fallimento, cosicché l'effetto della mancata riassunzione non potrebbe essere quello dell'estinzione dell'intero processo fallimentare, ma unicamente quello dell'estinzione del processo di reclamo, che seppure senza menzionarlo evoca l'art. 338 cod. proc. civ., quale applicazione dell'art. 310 stesso codice, sarebbe errata nel presupposto, in quanto l'oggetto del giudizio di reclamo non può scindersi da quello innestato dalla domanda di fallimento, il quale oggi risponde all'archetipo del procedimento giurisdizionale di tipo contenzioso in contraddittorio tra le parti. In altre parole, il reclamo non innesta un processo autonomo avente a oggetto il (solo) gravame avverso la sentenza di fallimento, quasi che codesta rimanga all'esterno del giudizio detto. 1.2. Tanto premesso si osserva, innanzitutto, che il principio affermato dalla sentenza suddetta, al di là della sua condivisibilità o valenza, non può trovare diretta e immediata applicazione nel presente giudizio, come in sostanza invocato dal ricorrente, e ciò per varie ragioni. Innanzitutto, nessun provvedimento è intervenuto in sede civile, idoneo a dar conto della intervenuta inefficacia del sentenza dichiarativa di fallimento, o comunque nessun provvedimento caducatorio di essa. Nel caso della pronuncia n. 3022/2020, infatti, era stato richiesto al giudice delegato di far annotare al registro delle imprese un provvedimento che desse atto delle conseguenze della mancata riassunzione del giudizio ex art. 393 cod. proc. civ., con ordine di cancellazione delle trascrizioni pregiudizievoli a proprio carico e a favore della massa di disporre il deposito del rendiconto del curatore ex art. 116 legge fall. ed il giudice delegato aveva respinto l'istanza; il decreto, reclamato ai sensi dell'art. 26 legge fall., era stato confermato dal Tribunale, sicchè il ricorrente proponeva ricorso per cassazione in relazione al quale veniva emessa appunto la sentenza n. 3022/2020, di cassazione del decreto impugnato con rinvio al Tribunale. Pertanto, in relazione al principio affermato dalla pronuncia suddetta, non può dubitarsi del fatto che occorra un provvedimento formale che dia conto dell'intervenuta inefficacia/revoca della sentenza di fallimento, in dipendenza del verificarsi delle condizioni di cui all'art. 393 c.p.c., non potendo il giudice penale rilevare incidentalmente l'intervenuta inefficacia della sentenza dichiarativa di fallimento per la mancata riassunzione della causa in sede civile. In mancanza di un provvedimento formale di revoca, o di inefficacia, della sentenza dichiarativa di fallimento, quest'ultima continuerà ad esplicare i suoi effetti ai sensi dell'art. 18 L.Fall.. Tale valutazione risulta in linea con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui, il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti R.D. 16 marzo 1942, n. 267 non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento (Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Rv. 239398 - 01), poichè, diversamente, si determinerebbe una impropria forma di impugnazione di una sentenza civile in sede penale (Sez. 5, n. 21920 del 15/03/2018, Rv. 273188 - 01). Va, poi, aggiunto che nella vicenda in esame, secondo quanto rappresentato dallo stesso ricorrente, non si vede in un'ipotesi di mancata riassunzione della causa ex art. 393 c.p.c., bensì in un'ipotesi di riassunzione effettuata, ma dichiarata improcedibile, e tale epilogo non risulta adeguatamente scrutinato dal ricorrente in relazione all'applicabilità del disposto di cui all'art. 393 c.p.c.. Invero, il riferimen contenuto nella norma in questione ""o si avvera successivamente a essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l'intero giudizio si estingue"" attiene testualmente ai casi di estinzione del giudizio di rinvio. 1.3. In ogni caso, non ci si può esimere dal rilevare come il presupposto da cui muove la sentenza n.3022/2020, ovvero che il procedimento ex art. 18 della legge fallimentare - nella nuova veste delineata dalle riforme del 2006 e del 2007 in punto di impugnazione avverso la sentenza di fallimento - sia un procedimento configurabile, sotto tutti i profili, come appello, non sia condivisibile. Il reclamo non si ritiene introduca una fase impugnatoria del processo per dichiarazione di fallimento, sussumibile negli schemi di un giudizio di appello ordinario, bensì più correttamente, come sostenuto dalla dottrina, un processo a cognizione piena, in unico grado, da definire con sentenza ricorribile per Cassazione. L'estinzione del giudizio di rinvio non rende, pertanto, inefficace la sentenza reclamata, esterna al processo contenzioso, che è caducabile da una espressa pronuncia di revoca, che non ammette equipollenti a contenuto implicito od automatismi. 1.3.1 Verso tale conclusione milita, innanzitutto, la significativa previsione introdotta dall'alt 2, comma 7, del d.lgs. n. 169 del 12/09/2007 che ha modificato l'art. 18 della legge fall. (già oggetto di una precedente modifica, di poco antecedente, attuata con d.lgs. n. 5 del 09/01/2006 che aveva qualificato in termini di ""appello"" e non più di ""opposizione"" il procedimento in esame), espressamente qualificando come ""reclamo"" anziché come ""appello"" la procedura volta ad ottenere, su istanza del debitore o di qualunque interessato, un giudizio sull'accertamento dei presupposti di fallibilità del debitore, retto dalle norme sul rito camerale. Nella Relazione illustrativa del decreto legislativo veniva indicato che «La sostituzione dell'""appello"" con il ""reclamo"" è coerente con il rito camerale, adottato non solo per la decisione di primo grado, ma anche per la fase di gravame: il reclamo è, infatti, il mezzo tipico di impugnazione dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, quale che ne sia la forma. La modifica vale ad escludere l'applicabilità della disciplina dell'appello dettata dal codice di rito e ad assicurare l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione, com'è necessario attesi il carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che incide su tutto il patrimonio e sullo status del fallito». Veniva, altresì, evidenziato che la modifica era ritenuta «corretta» e che, per tali ragioni, «non è stata accolta l'osservazione del Senato che invitava il Governo a ripristinare l'appello quale mezzo di impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento». 1.3.2. Anche le caratteristiche strutturali del reclamo, come delineato dal legislatore, forniscono una giustificazione sistematica alla interpretazione qui condivisa, dovendosi considerare: che il contenuto del ricorso non diverge da quello dell'atto introduttivo del processo di primo grado richiedendo ""l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l'impugnazione"" oltre che ""l'indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti"" ; che, in caso di rigetto del reclamo, ove la domanda sia stata respinta, l'art. 22 legge fall. impone alla Corte di appello, in ipotesi di accoglimento del reclamo del creditore ricorrente o del pubblico ministero, di rimettere gli atti al Tribunale per la dichiarazione di fallimento (escludendosi la possibilità che il giudice del gravame sostituisca la propria decisione a quella impugnata). Vanno, altresì, considerate le previsioni concernenti il divieto di sospendere l'efficacia della sentenza (essendo il potere di sospensione limitato soltanto alla liquidazione dell'attivo) e quella concernente il conferimento del potere di intervento a qualunque interessato, contribuendo entrambe a corroborare la conclusione che la procedura in esame non possa essere sussunta negli schemi di un giudizio di appello ordinario. 1.3.3. Il procedimento di reclamo si configura, pertanto, come procedimento incidentale, che si innesta a margine della procedura fallimentare, in grado di sviluppare, su richiesta della parte privata (ma anche della parte pubblica in caso di rigetto della richiesta dichiarativa di fallimento da parte del Tribunale fallimentare), un confronto pieno sulla sussistenza o meno dei presupposti del fallimento, rimesso alla competenza della Corte di appello, e non più del Tribunale, a differenza di quanto previsto in precedenza, nel rispetto del principio del contraddittorio e delle facoltà ad esso connesse nell'interesse delle parti. L'oggetto del giudizio di reclamo si identifica nell'accertamento della non fallibilità del debitore e la sentenza che, in fase rescissoria, rigetta il reclamo conferma che il fallimento è stato rettamente dichiarato disattendendo la domanda di accertamento negativo, mentre se accoglie il reclamo revoca il fallimento in conseguenza della statuita non fallibilità del debitore per motivi oggettivi e soggettivi. La sentenza che conclude il relativo procedimento non si sostituisce all'evidenza alla sentenza dichiarativa di fallimento, che rimane, peraltro, vitale durante l'espletamento della relativa procedura (salva possibilità di sospensione ai sensi dell'art. 19 della legge fall.) e fino alla formale conclusione della stessa. Ammettere, altresì, che l'estinzione del giudizio di rinvio determini la cessazione dello stato di insolvenza, ovvero l'automatica inefficacia della sentenza dichiarativa di fallimento, equivarrebbe ad introdurre una causa atipica di chiusura del fallimento, non compresa fra quelle enumerate dall'art. 118 legge fall.; tale conclusione non sarebbe conciliabile neppure con la previsione contenuta nell'art. 119, comma 5, legge fall. che prevede l'emissione del decreto di chiusura a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di revoca. Invero, gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento possono essere rimossi solo dal passaggio in giudicato della sentenza che ne dispone la revoca ai sensi dell'art. 21 della legge fall. Tale conclusione è confortata anche dall'insegnamento espresso da questa Corte secondo cui «gli effetti della sentenza di fallimento, la cui provvisoria esecutività, disposta dall'art. 16, comma 2, I.fall., non è suscettibile di sospensione, vengono meno solo con il passaggio in giudicato della decisione che, accogliendo il reclamo ex art. 18 I.fall., la revoca ( cfr. Cass. 1073/2018; Cass. 17191/2014; Cass. 13100/2013)» ( Sez. 3, n. 22153 del 03/08/2021, Rv. 662422 - 01). 1.3.4. Sulla base di tali coordinate diventa arduo assimilare il procedimento di reclamo ex art. 18 legge Fall. ad un ordinario procedimento di appello, essendo a tale proposito ininfluente che la competenza a decidere sia stata rimessa alla Corte di appello (ed essendo rinvenibili nel nostro ordinamento anche altre ipotesi simili in cui la Corte di appello è chiamata a giudicare nell'ambito di procedimenti non riconducibili ai binari di un appello ordinario), dovendo, piuttostd;~ tenersi conto del carattere speciale della procedura (desumibile dalle norme sopra richiamate) rispetto alla quale la sentenza dichiarativa di fallimento vive ""a margine"", fino al momento in cui intervenga, per decisione degli stessi organi della procedura, la chiusura del fallimento ( nelle ipotesi di cui all'art. 119 della legge) o la revoca della medesima sentenza ( prevista e disciplinata dall'art. 21 della stessa legge). 1.3.5. Nel giudizio di reclamo ex art. 18 della legge fall. manca il cd. ""effetto sostitutivo necessario"" che contraddistingue l'appello quale mezzo di gravame avente come normale obiettivo non la mera eliminazione della sentenza impugnata, bensì sempre e direttamente la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, destinata a prendere in ogni caso il posto della sentenza di primo grado (anche nell'ipotesi di rigetto dell'appello oltre che di accoglimento). D'altra parte, proprio la natura sostitutiva della sentenza di appello dà ragione della differente disciplina introdotta dall'art. 393 cod.proc.civ. rispetto al quadro delineato dall'art. 338 del medesimo codice (secondo cui l'estinzione del giudizio di appello fa passare in giudicato la sentenza impugnata), come ritenuto dalle Sezioni Unite civili (Sez. U., n. 4071 del 16/02/2010, Rv. 611575-01) che- nel definire i rapporti fra le sfere applicative degli artt. 393 e 338 cod.proc.civ.- hanno affermato che « la ragione di questa apparente deroga dell'art. 393 cod.proc. civ. al sistema dell'estinzione viene concordemente individuata nell'efficacia della sentenza di appello che è sempre sostitutiva della sentenza di primo grado, sia quando la riformi sia quando la confermi» con la ulteriore precisazione che « la deroga è, in realtà, solo apparente e comunque coerente con il sistema definito dagli artt. 310 e 338 cod.proc.civ., appunto perché solo dopo la pronuncia del giudice d'appello la sentenza di primo grado perde quell'efficacia cui possa riconoscersi una stabilizzazione in conseguenza dell'estinzione del processo» ( Sez. U., n. 4071 del 16/02/2010, Rv. 611575-01). 1.3.6. La limitazione dell'effetto caducatorio soltanto alla sentenza che abbia pronunciato sull'istanza di reclamo di parte- e non alla sentenza dichiarativa di fallimento trova preciso aggancio, inoltre, ai prindpi affermati anche da Cass. S.U. n. 4071/2010, secondo cui in tema di effetti del giudizio di rinvio sul giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, nel caso in cui l'estinzione del giudizio di rinvio sia successiva ad una pronuncia di cassazione di una decisione di rigetto, in primo grado o in appello, dell'opposizione proposta avverso un decreto ingiuntivo, a tale estinzione consegue il passaggio in giudicato del decreto opposto, secondo quanto prevede il citato art. 653, comma primo, cod. proc. civ., che, limitatamente a questa ipotesi, prevale sul menzionato art. 393. La circostanza che la legge fallimentare non contenga una specifica previsione sovrapponibile a quella di cui all'art. 653 c.p.c. a cui fa cenno la sentenza n. 3022/2020 risulta smentita dalla circostanza che la legge fallimentare prevede, come detto, specifiche ipotesi di caducazione/estinzione e segnatamente la revoca ex art. 18 I. fall. e quelle di chiusura di cui agli artt. 118 e 119 L.Fall. deroganti all'evidenza alla ""regola generale"" di cui all'art. 393 c.p.c. Inoltre, la limitazione dell'effetto caducatorio soltanto alla sentenza che abbia pronunciato sull'istanza di reclamo di parte- e non alla sentenza dichiarativa di fallimento si collega anche alla speciale connotazione della stessa sentenza dichiarativa di fallimento e degli effetti normativamente previsti, ricadenti su una pluralità di soggetti, anche estranei alla fase della pronuncia di fallimento. 2. È manifestamente infondato il secondo motivo di ricorso con il quale la difesa deduce che la mera qualità di legale rappresentante dell'associazione Casartigiani Artigianato Metaurense dichiarata fallita non sarebbe sufficiente a ritenere la responsabilità dell'imputato, essendo questi, piuttosto, chiamato a svolgere un ruolo meramente formale, come desumibile dalle dichiarazioni dei testi Morelli e Iacucci ( il cui verbale di prova risulta allegato al ricorso). La censura non si confronta con la motivazione spesa dalla Corte di appello sul punto, che, richiamando proprio il contenuto della deposizione del teste Morelli, ha messo in risalto come l'imputato fosse in realtà coinvolto negli aspetti organizzativi inerenti la vita dell'associazione, firmando documenti a proprio nome, in guisa da non potere essere considerato rappresentante solo formale e non effettivo, in quanto coinvolto nell'attività della fallita, sia a livello operativo che gestionale. Le doglianze difensive, fondate su circostanze specifiche aventi incidenza minima sulla ricostruzione fattuale della condotta, non riescono a disarticolare la tenuta dell'apparato motivazionale. In ogni caso, anche aderendo, per ipotesi, all'assunto difensivo la soluzione comunque non muterebbe alla luce dell'insegnamento di questa Corte secondo cui «l'amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, in frode ai creditori, delle scritture contabili, anche laddove sia investito solo formalmente dell'amministrazione della società fallita (cosiddetta testa di legno), in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione della effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari» Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754 - 01). 3. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P. Q. M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 11/07/2024.
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