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Bancarotta fraudolenta per distrazione: ne risponde il mandatario?

Bancarotta fraudolenta patrimoniale

Cassazione penale sez. V, 19/10/2020, n.37525

Commette il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione il mandatario, con o senza rappresentanza, che abbia acquisito la disponibilità di beni o somme di denaro in nome e per conto o nell'interesse del mandante, confondendoli con il suo patrimonio od omettendo di provvedere a riversarli, quando, intervenuto il fallimento dello stesso mandatario, tali beni illecitamente ritenuti non siano rinvenuti, senza valida giustificazione, nel suo patrimonio.

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La sentenza integrale

FATTO E DIRITTO 1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Brescia riformava in senso più favorevole al reo, solo sotto il profilo dell'entità del trattamento sanzionatorio, la sentenza con cui il tribunale di Bergamo, in data 21.3.2013, aveva condannato M.A., nella sua qualità di amministratore della "(OMISSIS) s.r.l. unipersonale", esercente attività di intermediazione immobiliare, dichiarata fallita dal tribunale di Bergamo con sentenza del 24.4.2008, alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione in rubrica ascrittogli, confermando nel resto la sentenza impugnata. 2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando: 1) vizio di motivazione, in quanto, in realtà l'imputato per i fatti in contestazione è già stato condannato con sentenze passate in giudicato, agli atti del processo, per reati commessi in danno delle stesse persone da cui, secondo l'assunto accusatorio, provengono le somme consegnate al M. a titolo di anticipo per l'acquisto di immobili. La diversità delle qualificazioni giuridiche attribuite ad un fatto unico, che ha violato più disposizioni di legge, non osta all'assorbimento del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale nei reati per i quali sono state pronunciate le sentenze passate in giudicato, stante il chiaro tenore dell'art. 649 c.p.p.; 2) vizio di motivazione, in quanto le somme indicate come distratte non sono mai entrate a far parte del patrimonio della società fallita, dunque non possono esserne uscite, trattandosi di somme provenienti da promissari acquirenti di immobili e ricevute dal M., non nell'interesse della società, ma in qualità di mandatario, in nome e per conto del promittente venditore. 3. Il ricorso va dichiarato inammissibile, ai sensi del combinato disposto dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto fondato su motivi, che, riproponendo acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame (con la cui motivazione sul punto il ricorrente non si confronta), devono considerarsi non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso. La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità (cfr. Cass., sez. IV, 18.9.1997 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, rv. 236945; Cass., Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, rv. 255568; Cass., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, rv. 277710). 3.1. Ed invero, quanto al primo motivo di ricorso, la corte territoriale, con motivazione articolata ed assolutamente condivisibile, ha evidenziato che "nel presente processo si discute di somme che, entrate nel patrimonio della società poi fallita, furono distratte dall'imputato e dunque di una condotta che ha portato alla indebita fuoriuscita dalle casse sociali di quel denaro. Le condotte per le quali M. già è stato condannato in via definitiva, attengono invece alle modalità - illecite con le quali quegli importi confluirono nel patrimonio suddetto". Per dedurne, con assoluta coerenza, la diversità dei reati contestati negli autonomi processi a carico del M., sia sotto il profilo del bene giuridico protetto, che dei soggetti passivi del reato, che, nei delitti di appropriazione indebita e di truffa, per i quali il ricorrente è stato condannato con sentenza passata in giudicato, "sono le singole persone fisiche il cui patrimonio è stato depauperato mediante quelle condotte ciascuna di per se stessa considerata mentre nel delitto di bancarotta soggetto passivo è la massa dei creditori", sicchè, dal punto di vista logico-giuridico, la condotta di truffa o di appropriazione indebita rappresenta il necessario antecedente logico della successiva attività di distrazione, conforme al modello legale del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, avente ad oggetto il patrimonio della società fallita, in cui sono confluiti gli importi frutto di appropriazione indebita e di truffa (cfr. pp. 6-7 della sentenza impugnata). La decisione cui è pervenuta la corte territoriale sul punto appare, del resto, assolutamente conforme ai principi affermati in materia dal costante ed uniforme insegnamento della giurisprudenza di legittimità, da tempo sedimentato, secondo cui il delitto di truffa o di appropriazione indebita attraverso il quale il fallito ha conseguito i beni da lui successivamente distratti concorre con quello di bancarotta fraudolenta, trattandosi di ipotesi delittuose con oggettività giuridiche diverse (cfr. Cass., Sez. 5, n. 10407 del 07/10/1981, Rv. 151039; Cass., Sez. 5, n. 7294 del 04/04/1978, Rv. 139294). Il reato di bancarotta fraudolenta, invero, non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti, come ad esempio mediante truffe o appropriazioni indebite, atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed, altresì, che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei. Ciò che importa, infatti, è la avocazione del bene alla massa attiva e quindi la possibilità giuridico-materiale della sua vendita coattiva, ad incremento della liquidazione ed in vista del soddisfacimento dei creditori. il fatto dell'imprenditore che successivamente sottrae alla garanzia patrimoniale i beni illecitamente acquisiti al suo patrimonio, costituisce, in altri termini, un'azione del tutto distinta ed autonoma, punita a titolo di bancarotta fraudolenta se viene dichiarato il fallimento (cfr. Cass., Sez. 5, n. 1401 del 25/11/1980, Rv. 147725; Cass., Sez. 5, n. 23318 del 17/03/2004, Rv. 228863). Va pertanto ribadito in questa sede il principio di diritto secondo cui, in tema di reati fallimentari, la provenienza illecita dei beni non esclude il delitto di bancarotta per distrazione, sia che si tratti di beni fungibili, e quindi confusi nel patrimonio del fallito destinato alla soddisfazione dei creditori, sia che si tratti di beni infungibili, e quindi formalmente distinti dal patrimonio del fallito, atteso che, in quest'ultimo caso, il curatore, che ne assume la disponibilità, ha l'obbligo di restituirli agli aventi diritto e la condotta distrattiva, rendendo impossibile la restituzione, genera a carico della procedura l'obbligo di pagarne il controvalore ai titolari (cfr. Cass., Sez. 5, n. 45372 del 18/10/2019, Rv. 276991). Ovviamente, accertata la sussistenza di una condotta criminosa lesiva di beni aventi distinta oggettività giuridica, deve ritenersi sussistere un concorso formale eterogeneo di reati, per cui nessuna preclusione processuale, derivante dal principio del "ne bis in idem", è ipotizzabile quando, come nel caso in esame, vi sia stato un processo, e si sia formato il giudicato, solo in relazione ad un reato compatibile con altro reato non giudicato, non essendovi la medesimezza del fatto, richiesta dall'art. 649 c.p.p., perchè vi sia divieto di un secondo giudizio (cfr. Cass., Sez. n. 3354 del 24/01/1995, Rv. 200695, nonchè Cass., Sez. 2, n. 10472 del 04/03/1997, Rv. 209022, in cui la Corte ha rigettato il ricorso con il quale l'imputato, quale agente di cambio, era stato già condannato per il reato di bancarotta fraudolenta - consistita, fra l'altro, nella sottrazione di titoli e denaro della clientela - e poi sottoposto a nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita in danno di un cliente). Risulta pertanto evidente anche la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso. 3.2. Anche con riferimento al secondo motivo di impugnazione l'imputato non si confronta realmente con la motivazione della sentenza impugnata. La corte territoriale ha correttamente evidenziato che il M. non ha mai agito in proprio, ma sempre nella qualità di amministratore unico della "(OMISSIS) s.r.l. unipersonale", alla quale sia i promissari venditori, che i promissari acquirenti, si erano rivolti per la messa in vendita e l'acquisto di unità immobiliari, essendo l'intermediazione immobiliare l'oggetto sociale della menzionata compagine, deducendone, con coerente argomentare, che l'imputato in tale veste si è appropriato delle somme di denaro versate dai promissari acquirenti a titolo di pagamento, conferendole di fatto nel patrimonio della società di cui era amministratore, senza trasmetterle ai promissari venditori. Tali somme, di conseguenza, non sono mai entrate "nella disponibilità personale di M. ma in quella della società da lui posseduta e gestita, ovviamente con l'obbligo (art. 1713 c.c.) di riversare quelle somme a mani dei soggetti che alla società stessa avevano dato mandato di procurare la vendita dei loro immobili" (cfr. pp. 7-9 della sentenza impugnata). Anche in questo caso l'occasione è propizia per ribadire consolidati principi della giurisprudenza di legittimità, secondo cui commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto, utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante, come nel caso del mandatario che, dopo aver adempiuto il mandato a vendere, trattenga definitivamente la somma ricavata dalla vendita invece di rimetterla al mandante (cfr. Cass., Sez. 2, n. 50156 del 25/11/2015, Rv. 265513; Cass., Sez. 2, n. 46586 del 29/11/2011, Rv. 251221). Manifestamente infondato, d'altra parte, appare il rilievo difensivo incentrato sulla natura del mandato, che, oppone la difesa, venne conferito al M. in nome e per conto dei promittenti venditori. Ove anche lo si volesse considerare un mandato con rappresentanza (circostanza, peraltro, dedotta ma non dimostrata dall'imputato, il quale, in violazione del principio della cd. autosufficienza, non ha allegato al ricorso nè trascritto integralmente in esso il contenuto degli atti processuali da cui si evincerebbe tale circostanza), ciò non muterebbe i termini della questione, in quanto il potere di rappresentanza avrebbe semplicemente consentito al prevenuto di ritenere le somme percepite in nome e per conto del mandante a titolo di pagamento del prezzo della vendita, somme che, tuttavia, in questo caso sarebbero entrate formalmente nel patrimonio della "società mandataria" per disposizione espressa del mandante, confondendosi con i beni oggetto di distrazione. 4. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest'ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000). P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 19 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2020
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