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Reati contro la PA

Corruzione: il patto corruttivo per aumentare l'attività imprenditoriale comporta che il profitto vada commisurato al volume d'affari

Corruzione

Cassazione penale sez. VI, 21/10/2020, n.6607

In tema di confisca, la sussistenza di un patto corruttivo in virtù del quale il privato consegua la possibilità di incrementare lo svolgimento di un'attività imprenditoriale di per sé lecita, comporta che il profitto del reato deve essere commisurato non già ai ricavi lordi, bensì all'accresciuto volume di affari direttamente conseguente al patto corruttivo e senza tener conto dei corrispettivi legittimamente dovuti. (Fattispecie in cui, con riferimento alla corruzione commessa dal presidente di un ente locale ed il gestore di una discarica, per effetto del quale quest'ultima veniva ampliata, la Corte ha precisato che il profitto va limitato alle maggiori somme introitate rispetto a quelle che sarebbero state incassate se la quantità di rifiuti conferibili non fosse stata ampliata per effetto del fatto corruttivo).

Corruzione sistematica: messa a libro paga del funzionario pubblico come corruzione impropria

Corruzione: lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi integra il reato di cui all'art. 318 c.p.

Corruzione propria: non è determinante che il fatto contrario ai doveri d'ufficio sia ricompreso nell'ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale

Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: condannato rappresentante farmaceutico che aveva corrisposto denaro ad un primario ospedaliero

Corruzione propria: sulla configurabilità del reato nei confronti di un parlamentare

Corruzione: non rileva il solo fatto che l'attività del pubblico ufficiale presenti margini più o meno ampi di discrezionalità

Corruzione in Atti Giudiziari: Configurazione se il Denaro è Stato Ricevuto per Atto Già Compiuto

Corruzione: il compimento dell'atto da parte del pubblico ufficiale non fa parte della struttura del reato e non assume rilievo per la determinazione del momento consumativo

Corruzione propria: non occorre individuare esattamente l'atto contrario ai doveri d'ufficio

Corruzione: sulla applicabilità della confisca obbligatoria di cui all'art. 2641 c.c.

Corruzione propria: quando rileva lo stabile asservimento del pubblico ufficiale

Corruzione impropria: il nuovo art. 318 c.p. copre l'area della vendita della funzione in quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Taranto ha disposto, ai sensi dell'art. 321 c.p.p. - art. 322 ter c.p. - D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, artt. 53 e 19, il sequestro preventivo nei riguardi della società Linea Ambiente s.r.l. e di alcune persone fisiche, fra cui V.R.N., procuratore speciale della società indicata, finalizzato alla confisca - diretta e/o per equivalente- del profitto, quantificato in 26.272.298,13 Euro, derivante dal reato di corruzione propria e dall'illecito amministrativo da reato previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25, comma 2. Nell'ambito dello stesso, unico, procedimento oggettivamente e soggettivamente cumulativo (proc. n. 2785/2018 RGNR- 5400/19 R.g. resp. amm.), il Giudice ha emesso un ulteriore decreto di sequestro preventivo del profitto - quantificato in 2.044.750,00 Euro - derivante dallo stesso reato di corruzione e dall'illecito amministrativo attribuito alla società 2L Ecologia s.r.l.. 2. L'ipotesi accusatoria, per la quale sono state emesse - oltre alle misure reali per cui si procede- anche misure cautelari personali, è che T.M.C., Presidente della Provincia di Taranto, in concorso con tale N.L., dirigente del settore pianificazione ed ambiente della Provincia in questione, avrebbero adottato la determina dirigenziale n. 45 del 5.4.2018 di ampliamento della discarca di (OMISSIS) in favore della società Linea Ambente s.r.l. ed in violazione del principio di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione. T., in corrispettivo di detto atto, avrebbe: a) ricevuto la somma di 5000 Euro al mese da V.R.N., procuratore speciale della società Linea Ambiente s.r.l. per il tramite di tale L.P., amministratore di fatto della società 2L Ecologia SRL: la provvista di detta somma sarebbe stata creata mediante contratti di prestazione di servizi da parte di 2L Ecologia s.r.l. in favore di Linea Ambiente s.r.l. del valore complessivo di 2.044,750 Euro e gli importi delle fatturazioni sarebbero stati artatamente sovrastimati rispetto al valore reale delle prestazioni; b) accettato la promessa di un'autovettura - poi in effetti ricevuta - e di un'abitazione. Il reato - presupposto di corruzione sarebbe stato commesso nell'interesse ed a vantaggio delle due società indicate. 3. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore di V.R.N. articolando due motivi. 3.1. Con il primo si deduce la nullità dei due decreti di sequestro per essere stati emessi da un giudice privo di potere cautelare, atteso che, al momento della emissione del due provvedimenti, V. - ed altri tre coindagati - erano già da tempo imputati, a seguito della emissione del decreto di giudizio immediato, per lo stesso reato di corruzione posto a fondamento del sequestro; il dibattimento, si evidenzia, sarebbe già nella fase istruttoria. Ai sensi dell'art. 321 c.p.p. il sequestro sarebbe stato dunque emesso da un giudice non più funzionalmente competente a procedere nei riguardi del ricorrente. Nè, si aggiunge, rileverebbe, rispetto alla incompetenza del giudice, la circostanza che i due provvedimenti cautelari sarebbero riferibili anche ad altri soggetti - concorrenti nel medesimo reato di corruzione - per i quali il procedimento penale è ancora nella fase delle indagini preliminari e neppure sarebbe rilevante il fatto che, al momento della richiesta della misura cautelare, il procedimento penale fosse per tutti ancora nella fase delle indagini; l'art. 321 c.p.p., secondo il ricorrente, farebbe chiaramente riferimento al momento dell'esercizio dell'azione penale ai fini della individuazione del giudice competente a procedere. 2.2. Con il secondo motivo si deduce la nullità dei decreti di sequestro per inosservanza degli artt. 240 e 322 ter c.p.. Il tema attiene alla determinazione del profitto ed alla individuazione dei beni da sequestrare. Quanto al primo profilo, sarebbe viziato il dato di presupposizione del ragionamento del Tribunale e cioè che nella specie il profitto coinciderebbe con l'intero ricavo lordo. Osserva l'indagato che i ricavi sarebbero in realtà derivanti dai conferimenti di rifiuti - effettuati dai clienti di Linea Ambiente- nel sito di (OMISSIS) sulla base di autonomi rapporti contrattuali "non toccati" dalla presunta corruzione. Si tratterebbe cioè di rapporti contrattuali costituiti successivamente alla commissione del reato, di per sè non illeciti e non derivanti in via diretta ed immediata dalla presunta corruzione, atteso che la Provincia di Taranto non avrebbe avuto nessun ruolo in detto segmento di attività, cioè in relazione ai contratti stipulati dalla società Linea Ambiente con soggetti terzi. La tesi difensiva è che gli importi conseguiti da Linea ambiente per effetto dei contratti di smaltimento stipulati con terzi soggetti sarebbero solo una conseguenza indiretta e lecita del presunto accordo corruttivo e del successivo ampliamento delle volumetrie: detti contratti sarebbero stati adempiuti con prestazioni effettivamente eseguite dalla società con ogni conseguenza in termini di costi e spese sostenute dall'ente per il relativo adempimento; in tale contesto sarebbe inspiegabile, a dire dell'indagato, la mancata considerazione di quasi sei milioni di Euro di costi documentati dalla stessa Guardia di finanza. Analoghe considerazioni vengono formulate per il sequestro relativo alla società 2L Ecologia in ordine al quale si è sostenuto che il profitto consisterebbe "nell'utile tratto dai contratti stipulati con Linea ambiente costituendo il corrispettivo sovrastimato artatamente e cioè, per un verso, il prezzo per la intermediazione tra il corrotto ed il corruttore e, per altro, il mezzo per precostituire i fondi neri per le corresponsioni a T." (così il ricorso, che richiama uno stralcio del decreto). Anche in questo caso, si assume, difetterebbe ogni verifica sulla liceità ed effettività delle prestazioni eseguite tra i due soggetti privati, cioè tra le due società, e la configurabilità di un profitto derivante dal reato di corruzione. Quanto alla individuazione dei beni del ricorrente sottoposti a sequestro, la tesi difensiva è che non vi sarebbe nessun atto da cui inferire che V. abbia tratto personale ed autonomo profitto dalla commissione dei fatti per cui si procede: il profitto sarebbe stato conseguito solo dalla società. Dunque, fermo il principio solidaristico fra ente e persona fisica, il profitto della società potrebbe essere appreso sequestrando beni della persona fisica solo distinguendo tra confisca per equivalente e confisca diretta. La possibilità di confiscare in via diretta il denaro, pur nel senso interpretato dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione "Lucci", cioè slegando il bene dal nesso di derivazione dal reato, presupporrebbe sempre che il denaro sia entrato nella sfera del soggetto che subisce il sequestro. Nel caso di specie, mancherebbe la prova che il patrimonio del ricorrente si sia accresciuto dal profitto del reato e, dunque, non sarebbe stato possibile il sequestro delle somme giacenti sui conti correnti di V. ai fini della confisca diretta del profitto, in assenza della prova del nesso di derivazione nel senso indicato. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. Il primo motivo è fondato nei limiti in cui si dirà. Dagli atti emerge che il decreto di giudizio immediato ha ad oggetto solo il reato di corruzione e non anche l'illecito da reato attribuito alle due società (proc. 5400/19 R.G. resp. amm/va); non è neanche in contestazione che il procedimento finalizzato all'accertamento dell'illecito dell'ente, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001 e, in particolare, della società Linea Ambiente - di cui il ricorrente era procuratore speciale - sia ancora nella fase delle indagini; dunque la competenza a provvedere sulla richiesta di sequestro era, quanto alla persona giuridica, del Giudice per le indagini preliminari ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 47, non essendovi stato il rinvio a giudizio dell'ente. La questione si pone in relazione alla parte del provvedimento con cui è stato disposto il sequestro preventivo del profitto derivante dal reato di corruzione e dall'illecito dell'ente, anche nei confronti delle persone fisiche a cui il detto reato è attribuito. In tale contesto, dagli atti emerge che: a) la richiesta di sequestro è pervenuta al Giudice per le indagini preliminari il 14/05/2019; b) entrambi i provvedimenti cautelari sono stati emessi l'11/03/2020; c) la richiesta di giudizio immediato da parte della Procura della Repubblica è pervenuta al Giudice per le indagini preliminari il 24/07/2019; d) in data 2/08/2019 - quindi prima della emissione dei decreti di sequestro per cui si procede - è stato emesso il decreto di giudizio immediato solo nei confronti di alcuni degli indagati, fra i quali l'odierno ricorrente, per il reato di corruzione. Ne deriva che, al momento in cui la domanda cautelare è stata azionata (14/05/2019) il procedimento penale avente ad oggetto il reato di corruzione era ancora per tutti gli indagati nella fase delle indagini preliminari, non essendo stata ancora esercitata l'azione penale (24/07/2019). In quel momento il giudice competente a procedere era, ai sensi dell'art. 321 c.p.p., comma 1, il giudice per le indagini preliminari. E' utile evidenziare come, secondo il Giudice per le indagini preliminari nella specie sarebbe configurabile un concorso tra la persona fisica e quella giuridica in ragione del quale opererebbe un principio solidaristico che consentirebbe di aggredire i patrimoni di entrambe le "persone". La questione attiene al se la competenza a provvedere sulla richiesta cautelare muti nei casi in cui, tra il momento in cui è avanzata la richiesta di sequestro e quello in cui il Giudice - correttamente adito - provvede, sopravvenga un fatto processuale nuovo, quale il rinvio a giudizio solo per alcuni dei soggetti nei cui riguardi la domanda cautelare è stata esercitata. Secondo un consolidato orientamento di legittimità in tema di misure cautelari reali, la competenza funzionale a provvedere sulla richiesta di sequestro preventivo del P.M. ex art. 321 c.p.p. si radica nel momento in cui è presentata la richiesta cautelare e non quando la stessa viene decisa (Sez. 2, n. 14109 del 12/03/2015 De Mari, Rv. 263305). Si è affermato che, ai sensi dell'art. 279 c.p.p., il giudice che procede deve essere individuato sulla base della materiale disponibilità degli atti e che, prima dell'esercizio dell'azione penale, provvede sempre il GIP; la fase processuale a cui si deve fare riferimento, si sottolinea, deve essere individuata con riguardo al momento in cui la richiesta viene avanzata dal P.M. e non con riferimento al momento della decisione (Sez. 1, n. 5609 del 22/01/2008, Maggio, Rv. 238868 in cui si è precisato che se la richiesta è avanzata al G.i.p. durante le indagini preliminari, tale organo resta competente a decidere anche se nelle more il P.M. ha esercitato l'azione penale e gli atti materialmente si trovino davanti al G.u.p.). Si tratta di una impostazione che non è condivisa da altro indirizzo giurisprudenziale secondo cui, invece, ai fini della determinazione della competenza a decidere sulla richiesta di misura cautelare - tanto personale quanto reale - la figura del "giudice che procede" o di "quello competente a pronunciarsi nel merito" deve essere individuata in relazione allo sviluppo del rapporto processuale e all'articolazione di esso nelle varie fasi e nei vari gradi, nel senso che l'attribuzione della competenza funzionale in ordine ai relativi procedimenti dipende dalla disponibilità materiale e giuridica degli atti e viene meno solo con la loro trasmissione ad altro giudice; secondo l'indirizzo in esame l'avvenuta trasmissione del fascicolo alla cancelleria del giudice dell'udienza preliminare, a seguito della richiesta di rinvio a giudizio, comporterebbe inesorabilmente lo spostamento in favore di quest'ultimo della competenza a decidere anche sulla richiesta di applicazione di misura cautelare, presentata dal pubblico ministero prima dell'azione penale, ma non tempestivamente delibata dal giudice per le indagini preliminari. (Sez. 3, n. 36532 del 12/05/2015 Ciminello, Rv. 264731 in cui la Corte ha proceduto all'annullamento di ordinanza del riesame che aveva ritenuto la competenza del Gip a decidere su richiesta di sequestro preventivo, nonostante quest'ultimo si fosse pronunciato solo dopo la trasmissione degli atti alla cancelleria del Gup e la avvenuta fissazione dell'udienza preliminare; nello stesso senso Sez. 1, 10923 del 20/12/2011, dep. 2012, Vollaro, Rv. 252551). Dunque, secondo quest'ultima impostazione, il fatto processuale sopravvenuto costituito dal rinvio a giudizio - sarebbe idoneo ad incidere ed a trasferire la competenza se il giudice originariamente - ritualmente adito - decida dopo aver trasmesso gli atti al giudice della fase procedimentale successiva. In tale contesto, quello che tuttavia non è chiaro nella specie, come meglio si dirà anche per il terzo motivo di ricorso, è se il sequestro nei riguardi del ricorrente sia stato disposto in ragione del profitto che V. avrebbe conseguito per il reato di corruzione a lui attribuito - e quindi nell'ambito del procedimento penale per il quale il ricorrente era imputato al momento della imposizione del vincolo reale- ovvero per ragioni -giuridicamente fondate o infondate nel merito - legate all'ente, alla responsabilità della persona giuridica ed al procedimento nei riguardi di questi che, come detto, al momento dell'adozione della misura cautelare reale era ancora nella fase delle indagini preliminari. Sul punto, obiettivamente rilevante, l'ordinanza è silente, non avendo il Giudice chiarito in nessun modo se ed in che limiti egli abbia ritenuto sussistente la sua competenza. Ne consegue, quanto al primo motivo, che il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio; il Giudice per le indagini preliminari chiarirà il titolo in ragione del quale si è proceduto nei confronti del ricorrente ed in tal senso procederà a valutare la propria competenza a procedere. 3. E' fondato anche il secondo motivo di ricorso. Si è già detto di come, secondo il Giudice per le indagini preliminari, rispetto alla determina dirigenziale della Provincia di Taranto del 5 aprile 2018 - oggetto della ipotizzata corruzione - con la quale si disponeva in favore della società Linea ambiente l'ampliamento della discarica di (OMISSIS), il profitto derivante dal reato di corruzione e dall'illecito attribuito all'ente sarebbe costituito, per detta società, dall'utile lordo conseguito nel periodo successivo, e, quanto, alla società 2L Ecologia nell'intero utile lordo, cioè dal corrispettivo dei contratti da questa stipulati con la società Linea Ambiente, essendo "il corrispettivo, artatamente sovrastimato, per un verso, il prezzo per la intermediazione tra il corrotto ed il corruttore e, peraltro verso, il mezzo per precostituire i fondi neri per i corrispettivi versati a T. per fare ottenere a Linea Ambiente" (così il decreto nei riguardi di 2L Economia a pag. 28); in particolare, per la società 2L Ecologia, l'assunto costitutivo sarebbe quello per cui le prestazioni oggetto dei contratti stipulati con Linea Ambiente sarebbero state, in tutto o in parte, ineffettive. Secondo il Giudice l'indicata quantificazione del profitto discenderebbe dal fatto che nella specie si sarebbe in presenza di un c.d. reato contratto - la corruzione - che, dunque, consentirebbe di prescindere di valutare gli eventuali vantaggi conseguiti dalla parte contrattuale in favore della quale sono state eseguite le prestazioni dal soggetto coinvolto nel reato. Ha aggiunto il G.i.p., quanto alla società Linea Ambiente, che, pur volendo accedere alla "prospettiva interpretativa che impone un minor sacrificio per il soggetto passivo del sequestro...la Provincia di Taranto, non avrebbe conseguito alcuna utilità" atteso che, anche senza la corruzione, i rifiuti sarebbero stati smaltiti in altre discariche. Nel caso di specie, non è peraltro in contestazione che il profitto sia stato calcolato, quanto alla società Linea Ambiente, facendo riferimento ai dati acquisiti dalla Guardia di Finanza nel corso di un controllo fiscale ai fini dell'IVA: nella specie, si sono verificati i ricavi percepiti nel corso del 2018 -e, in particolare, dal momento in cui è stata deliberato l'ampliamento della discarica- fino a febbraio 2019, facendo riferimento alla voce di bilancio "Trasposto e smaltimento rifiuti", si sono raffrontati i dati in questione con quelli precedenti alla delibera con cui fu autorizzato l'ampliamento della discarica e si è determinato il profitto, facendolo coincidere con i ricavi, senza prendere in considerazione i costi, pari a circa 6 milioni di Euro. 4. Si tratta di una impostazione non condivisibile per più ragioni. Quanto alla società Linea Ambiente, per la quantificazione del profitto si è fatto riferimento ai rapporti contrattuali intercorsi tra la società in questione e una serie di soggetti, interessati a conferire i rifiuti nella discarica (pag. 52- 53 decreto di sequestro). Dunque si è quantificato il profitto valorizzando non il rapporto tra la società e la Provincia di Taranto, cioè tra i soggetti che erano stati direttamente (la società) o indirettamente (la Provincia per mezzo del suo Presidente) coinvolti nel patto corruttivo, ma i contratti stipulati dall'ente - nell'interesse o a vantaggio del quale la corruzione sarebbe stata commessa - e terzi estranei al patto corruttivo. Una corruzione, per così dire, "a monte", esterna rispetto ai contratti da cui sarebbe derivato il profitto: un fatto corruttivo che ha consentito al corruttore o, meglio, all'ente nell'interesse ed a vantaggio del quale il reato presupposto sarebbe stato commesso, di stipulare con altri soggetti un determinato numero di contratti che hanno prodotto un incremento dei ricavi. 5. Il tema involge innanzitutto la nozione di profitto derivante a reato ed il nesso che deve sussistere tra la res sottoposto al vincolo cautelare ed il reato per cui procede. E' consolidata l'affermazione secondo cui non si rinviene una nozione generale di profitto non solo nel codice penale, ma anche nelle varie disposizioni contenute in leggi speciali che ne prevedono la confisca; si tratta di norme che danno la nozione per presupposta, ovvero si limitano a contrapporla ad altri concetti parimenti non definiti, quali quelli di "prezzo", "corpo" e "strumento" del reato, utilizzandola, peraltro, sia per determinare l'oggetto della confisca, sia ad altri fini, come, cioè, elemento costitutivo della fattispecie di reato o come circostanza aggravante. Sulla nozione di profitto, la giurisprudenza delta Corte di Cassazione, anche a Sezioni unite, aveva individuato nel tempo una serie di stabili principi: 1) il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della "pertinenzialità", inteso nel senso che deve derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone (principio di "causalità" del reato rispetto al profitto) (Sez. Un., n. 9194 del 3/07/1996, Chabni, Rv. 205707; Sez. Un., n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motivazione; Sez. Un., n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motivazione; Sez. Un., n. 41936 del 25/10/ 2005, Muci, Rv. 232164; Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motivazione). In tutte le sentenze indicate si è sempre fatto riferimento alla circostanza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l'effettivo criterio primario selettivo di ciò che può essere confiscato; anche la sentenza delle Sezioni unite, n. 20208 del 25/10/2007, - dep. 2008- Miragliotta, Rv. 238700, pur ammettendo la confiscabilità dell'utilità mediata - c.d. surrogati-, ha tuttavia affermato la necessità di individuazione di un profitto originario e di accertare i passaggi attraverso i quali si è compiuta la trasformazione dello stesso); 2) tale collegamento diretto reato-profitto esiste anche rispetto ai c.d. surrogati, cioè rispetto al bene acquisito attraverso l'immediato impiego/trasformazione del profitto diretto del reato, ma tale estensione del concetto di "pertinenzialità" trova il suo limite estremo in siffatto requisito di immediatezza (del reimpiego), che - in sostanza - ne garantisce la "riconoscibilità" probatoria (Sez. un., Miragliotta, cit.; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso); 3) in virtù del "principio di causalità" e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo, della situazione patrimoniale del suo beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l'acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicchè non rappresenta "profitto" un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, - dep. 2014-, Banca Italease s.p.a, Rv. 258577; ma anche Sez. un. "Fisia impianti", cit.). In tale articolato quadro di riferimento, si colloca Sez. un., n. 2014 del 30/01/2014, Gubert, con cui è stata recepita una nozione di profitto funzionale alla confisca molto più ampia perchè capace di accogliere al suo interno "non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa... la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Il concetto di profitto o provento di reato dovrebbe intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa". Sul tema, sono nuovamente intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza emessa n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261117, nel processo per i tragici fatti della "Tyssen". La Corte di cassazione ha sostanzialmente recepito il principio affermato nella sentenza "Gubert", secondo cui "il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa". Sulla questione, obiettivamente intricata, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, ribadendo il principio, che questo Collegio condivide, secondo cui profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato (Sez. un., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436; successivamente, nello stesso senso, Sez. 6, n. 33226 del 14/07/2015, Azienda Agraria Greenfarm di Guido Leopardi, Rv. 264941; Sez. 2, n. 53650 del 05/10/2016, Maiorano, Rv. 268854). Dunque, il profitto deve essere direttamente derivante al reato. Sulla base di tal presupposto, si pone il tema della quantificazione del profitto. In tale prospettiva, assumono rilievo i principi fissati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in tema di sequestro finalizzato alla confisca - sanzione, prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 19 e 53 (Sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Impianti s.p.a. e altri, Rv. 239924). Come è stato già rilevato, il principio di diritto formulato dalle Sezioni Unite "Fisia Impianti" può essere scisso in due parti, una di valenza generale, che definisce il concetto giuridico di profitto del reato, ed un'altra - enunciata in forma di "regola di esclusione" - ritagliata sulla specifica ipotesi dell'illecito che si inserisce in un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive. Quanto alla regola generale, le Sezioni Unite nell'occasione chiarirono che: a) nel linguaggio penalistico il termine "profitto" assume un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non essendo mai stato inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito; b) all'espressione "profitto" va attribuito il significato di "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale", a superamento "quindi dell'ambiguità che il termine "vantaggio" può ingenerare"; c) la nozione di profitto confiscabile è diversa e più ristretta di quella di profitto di rilevante entità richiamato nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 13 evocando, solo quest'ultimo, un concetto di profitto "dinamico", rapportato alla natura e al volume dell'attività d'impresa e comprensivo dei vantaggi economici anche non immediati, ma "di prospettiva", in relazione, ad esempio, alla posizione di privilegio che l'ente collettivo può acquisire sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi". Un intero paragrafo della decisione "Fisia Impianti" fu invece dedicato all'approfondimento di possibili deroghe al principio generale. La Corte giunse all'enucleazione di una "regola di esclusione", di cui si è detto: non può ritenersi profitto del reato, e come tale non è legittimamente confiscabile, il "corrispettivo di una prestazione lecita... regolarmente eseguita dall'obbligato", benchè nell'ambito di un rapporto contrattuale inquinato, nella fase di formazione o in quella di esecuzione, dalla commissione di un reato. In tali casi, il profitto, secondo le Sezioni unite, si identifica con il vantaggio economico derivato dal reato "al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente". Tale conclusione è fondata sulla distinzione tra impresa criminosa, quella, cioè, stabilmente dedita alla commissione di reati, ed esercizio di un'attività imprenditoriale lecita, nel cui ambito venga realizzato un illecito penale. Il profitto viene identificato nel ricavo lordo quando "s'inserisce (...) validamente, senza alcuna possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un'attività totalmente illecita". Quando, invece, l'illecito penale si innesta, come nel caso di specie, episodicamente in un'attività imprenditoriale lecita, e, in particolar modo, "nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica", l'identificazione del profitto con il lordo "può subire, per così dire, una deroga o un ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che viene in considerazione". Poichè infatti nell'attività economica lecita il trasferimento del bene avviene sulla base dell'esistenza di un titolo giuridico, occorrerebbe, secondo la Corte, verificare quali conseguenze abbia la commissione di un reato sul titolo giuridico in forza del quale il trasferimento avviene. La risposta a tale domanda è stata, come noto, fornita valorizzando la distinzione tra reato-contratto e reato-in contratto; si è affermato che devono essere distinti i casi in cui la legge direttamente sanzioni il regolamento contrattuale (reato-contratto) - ipotesi nelle quali il contratto è nullo per contrarietà a norme imperative ex art. 1418 c.c., comma 1, ovvero per illiceità dell'oggetto - dai casi in cui la legge penale punisca, invece, il comportamento di una parte soltanto nella fase pregressa, di tal che penalmente rilevante non è l'assetto di interessi raggiunto, ma la condotta tenuta da una parte ai danni dell'altra per raggiungerlo (reato-in contratto). Poichè la legge penale e la legge civile disciplinano ambiti diversi, la violazione della norma penale in caso di reati- in contratto non potrebbe determinare, secondo le Sezioni Unite, la nullità del contratto, essendo frutto di una unilaterale inottemperanza che non può coinvolgere nella radicale sanzione anche la parte per la quale la partecipazione al contratto è lecita. In tal caso, infatti, non necessariamente l'attuazione del programma obbligatorio previsto nel contratto è connotata da illiceità, atteso che ogni "iniziativa lecitamente assunta" per adempiere alle obbligazioni contrattuali "interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita", giacchè il contraente che adempie, sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato. Il corollario che se ne è fatto conseguire è che la remunerazione di una prestazione lecita, ancorchè eseguita nell'ambito di un affare illecito, "non può ritenersi sine causa o sine iure"; e, quindi, non costituisce profitto di un illecito, ma profitto avente "titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale". 6. La distinzione tra reato - contratto e reato- in contratto attiene alla individuazione dei rapporti tra norme di comportamento e norme di validità contrattuale e, in particolare, alla individuazione delle ipotesi in cui un contratto stipulato in violazione di norme penali debba considerarsi posto in essere in violazione di norme imperative, e quindi sia strutturalmente nullo, da quelle in cui, invece, la violazione della norma renda comunque il contratto efficace, ancorchè annullabile (reato - in contratto). Il problema della distinzione tra norme imperative di comportamento e norme imperative di validità non si pone, chiaramente, nei casi di nullità testuale ed in quelli di nullità strutturale del contratto. Nelle "nullità testuali" (art. 1418 c.c., comma 3) infatti è la legge che, prevedendo la sanzione della nullità, qualifica il precetto violato in termini di norma di validità. Nella "nullità strutturale" (art. 1418 c.c., comma 2), il contratto è nullo perchè strutturalmente privo dei suoi requisiti costitutivi indicati nell'art. 1325 c.c., ovvero perchè manca nell'oggetto qualcuno dei requisiti stabiliti dall'art. 1346 c.c.: il contratto è nullo per deficienza strutturale. Il problema attiene in realtà alla c.d. "nullità virtuale", quella cioè prevista dall'art. 1418 c.c., comma 1, che ha, secondo la dottrina, tre presupposti. Il primo presupposto è che il contratto si ponga in contrasto con una norma imperativa, cioè con una norma posta a tutela di un interesse pubblico o generale, quindi non derogabile da parte dei singoli. Anche le norme per la cui violazione l'ordinamento prevede la sanzione della annullabilità del contratto sono norme imperative, e quindi inderogabili, e tuttavia in tali casi, in considerazione della valenza pregnante che assume l'interesse del contraente, la sorte del contratto viene rimessa al contraente medesimo. Il secondo presupposto è che la legge non "disponga diversamente". La legge "dispone diversamente" in tutti i casi in cui, pur essendo in presenza della violazione di una norma imperativa, ne viene tuttavia espressamente esclusa la sanzione della nullità. Il terzo presupposto è che la norma imperativa, da una parte, abbia ad oggetto il contratto, cioè deve riguardare la struttura o il contenuto del contratto (vietandolo o imponendogli requisiti necessari), e non solo il comportamento delle parti contraenti, e, dall'altra, nulla dica sugli effetti che dalla sua violazione discendano sulla validità del negozio, atteso che, diversamente, si tratterebbe di una ipotesi di nullità testuale. Dalla violazione di una norma di validità del contratto è tradizionalmente distinta la violazione di una norma di comportamento da parte dei contraenti, che può attenere alla fase precontrattuale, non incidendo in tal caso, tuttavia, la violazione sulla validità del contratto- ferma restando la possibile responsabilità dell'autore- ovvero alla fase esecutiva, ma anche in tal caso, ferma restando la responsabilità da inadempimento di obblighi specifici, il contratto continua ad essere efficace. In questo contesto deve essere registrato l'intervento delle Sezioni unite civili, che hanno riaffermato il tradizionale principio secondo cui, in relazione alla nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, in difetto di espressa previsione in tal senso (c.d. "nullità virtuale"), deve trovare conferma la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, solo la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, che può al più essere fonte di responsabilità. L'ampia motivazione - con cui le Sezioni unite hanno deciso la questione sottoposta al loro giudizio - si articola in due passaggi argomentativi fondamentali. Il primo riguarda la tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto, distinzione di cui si afferma la piena operatività all'interno del sistema: tale distinzione implica che la violazione delle regole di comportamento, "tanto nella fase prenegoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell'atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità". Da queste premesse si fa discendere il secondo passaggio argomentativo per cui la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative (art. 1418 c.c., comma 1) opera soltanto al cospetto di "violazioni attinenti ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto". Si esclude, pertanto, che "l'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative prenegoziali ovvero nella fase dell'esecuzione del contratto stesso possa esser causa di nullità, indipendentemente dalla natura delle norme con le quali siffatta condotta contrasti, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista" (Sez. un. civ., n. 26724 del 19/12/2007, Rv. 600329). 7. Applicando i principi indicati al caso di specie, è evidente che i contratti stipulati tra Linea Ambiente e i soggetti terzi rispetto al patto corruttivo non possono considerarsi nulli, atteso che il loro contenuto non è illecito e la loro struttura non è frutto di alcuna violazione; ciò che rileva nella specie è semmai la condotta tenuta da una delle parti contraenti - la società Linea Ambiente- nella fase precedente alla formazione dell'accordo, peraltro non in danno dell'altro contraente. I contratti in esame cioè non coincidono con il reato di corruzione intercorso tra una sola delle parti negoziali con altri soggetti, ma, semplicemente, presuppongono l'illecito, nel senso che la loro ragione trova collocazione, in tutto o in parte, nel patto corruttivo stipulato da uno dei contraenti con un altro soggetto. Dunque il riferimento alla categoria dei reati - contratto è errato. 8. E' parimenti errato il riferimento alla Provincia di Taranto al fine di sostenere che nella specie non sarebbe quantificabile il profitto; si è detto come, secondo il Giudice, pur volendo ragionare con lo schema del reato - in contratto, nondimeno nel caso di specie la Provincia di Taranto non avrebbe conseguito alcuna utilità "atteso che, anche senza la corruzione, i rifiuti sarebbero stati smaltiti in altre discariche"; da tale presupposto, si fa discendere l'assunto secondo cui il profitto sarebbe nella specie coincidente con i ricavi lordi conseguiti dal soggetto corruttore. Si tratta di un assunto non condivisibile. Nel caso di specie, il profitto del corruttore ha innanzitutto una dimensione accrescitiva, che, tuttavia, consiste non nell'ammontare complessivo dei ricavi conseguiti dalla società, ma nella possibilità per l'ente di far conferire una maggiore quantità di rifiuti nella discarica; il profitto si identifica con le maggiori somme introitate rispetto a quelle che sarebbero state incassate se la quantità di rifiuti conferibili non fosse stata ampliata per effetto del fatto corruttivo. L'oggetto della delibera frutto della corruzione attiene all'ampliamento della discarica e dunque il profitto derivante dal reato al maggior numero di contratti che, altrimenti, non sarebbero stati stipulabili, ovvero allo stesso numero di contratti ma posti in essere con un oggetto più ampio, cioè per un quantitativo maggiore di rifiuti conferibili e dunque produttivi di maggiori ricavi. Ciò che deve essere determinato è il vantaggio che la società, nel cui interesse o nel cui vantaggio la corruzione sarebbe stata commessa, ha tratto per effetto del conferimento di un maggiore quantità di rifiuti rispetto quello che sarebbe stato predisposto senza l'ampliamento. Nell'ambito dei maggiori ricavi individuati nel modo indicato, occorre poi verificare come il programma obbligatorio dei contratti sia stato attuato, se cioè i contratti siano stati eseguiti correttamente, se l'altro contraente abbia subito una lesione dei suoi diritti, se vi siano stati inadempimenti qualitativi e quantitativi da parte della società Linea Ambiente; in tale indagine occorre applicare il principio indicato dalle Sezioni unite e cioè ogni "iniziativa lecitamente assunta" per adempiere alle obbligazioni contrattuali "interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita", giacchè il contraente che adempie, sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato. Sotto ulteriore profilo, ai fini della esatta individuazione e quantificazione del profitto, possono assumere rilievo nella specie anche eventuali mancati esborsi da parte della società; il tema attiene al se, per effetto della maggiore capacità recettiva di rifiuti conseguente all'ampliamento della discarica, occorresse adeguare quest'ultima, se il processo di smaltimento dovesse essere modificato, adattato, conformato al "fatto nuovo"- cioè all'ampliamento- ed eventualmente, posto che ciò dovesse fatto, se siano stati compiute, in tutto o in parte, dette opere, atteso che, diversamente anche il risparmio di spesa conseguito dalla società assumerebbe rilievo. Sul punto l'ordinanza deve essere annullata. 9. Non diversamente, quanto alla società 2L Economia, quello che non è chiaro è: a) se ed in che misura esistessero rapporti pregressi tra le due società che avevano condotto già alla stipula di precedenti contratti, regolarmente adempiuti, tra le stesse; b) se ed in che limiti i contratti per i quali si procede trovino la loro causa giustificativa nel reato di corruzione; c) in che limiti i contratti siano stati adempiuti, atteso che lo stesso GIP sembra fare riferimento alla possibilità che almeno in parte il programma obbligatorio sia stato effettivamente eseguito (pag. 22-123 decreto); d) in che misura quindi i contratti siano stati posti in essere ed asserviti, in quanto funzionalmente strumentali, alla realizzazione del disegno corruttivo da parte di soggetti coinvolti direttamente o indirettamente in detto programma. 10. E' fondato anche il terzo motivo di ricorso. Le Sezioni unite della Corte di cassazione, ribadendo che profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato, hanno chiarito che la confisca di somme di denaro ha natura di confisca diretta. Ha precisato tuttavia la Corte di cassazione che: - la confisca per equivalente, rappresentando una alternativa alla confisca diretta -operando solo quando non può trovare applicazione la ordinaria misura di sicurezza patrimoniale - presuppone che il relativo oggetto (vale a dire il prezzo o il profitto del reato) abbia una sua consistenza naturalistica e/o giuridica tale da permetterne l'ablazione, nel senso che, una volta entrato nel patrimonio dell'autore del reato, continui a mantenere una sua identificabilità; - ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica; - non avrebbe ragion d'essere - nè sul piano economico nè su quello giuridico - la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell'illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell'interesse del reo; - soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l'imputato per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato; - la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato pur in assenza di elementi che dimostrino che proprio quella somma è stata versata su quel conto corrente non determina una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l'esistenza del numerarlo comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l'oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza la eventuale movimentazione di un determinato conto bancario. Dunque, se è vero che il sequestro preventivo di somme di denaro deve essere qualificato - in ragione della fungibilità del bene- come funzionale alla confisca diretta del profitto e che la confisca - misura di sicurezza del profitto storico deve avere ad oggetto quello effettivamente rinvenuto nella disponibilità dei singoli concorrenti nel reato, è altrettanto vero che il principio in questione presuppone, al fine della qualificazione del sequestro come funzionale alla confisca diretta, che il denaro - profitto storico derivante dal reato - sia comunque entrato nella disponibilità del destinatario del sequestro e poi si sia confuso nel suo patrimonio. In assenza della prova che il patrimonio dell'indagato si sia accresciuto del profitto storico derivante dal reato, il sequestro deve considerarsi disposto in funzione della confisca per equivalente. Quanto ai limiti entro i quali può essere aggredito il patrimonio del singolo concorrente con il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, in presenza di indirizzi giurisprudenziali non sovrapponibili, è utile riportare testualmente le considerazioni esposte dalle Sezioni unite della Corte di cassazione sul tema: "Di fronte ad un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. Più in particolare, perduta l'individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso), non essendo esso ricollegato, per quello che emerge allo stato degli atti, all'arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi (cfr. Cass. sez. E 14/6/2006 n. 31989, Troso; 20/9/2007 n. 38599, Angelucci; 21/2/2007 n. 9786, Alfieri; 20/12/2006 n. 10838, Napoletano; 6/7/2006 n. 30729, Carere). Sul punto si registra un orientamento giurisprudenziale solo apparentemente contrastante, secondo cui, in caso di pluralità di indagati, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura della quota di profitto del reato a lui attribuibile, sempre che tale quota sia individuata o risulti chiaramente individuabile (cfr. Cass. sez. VI 23/6/2006 n. 25877; sez. VI 5/6/2007 n. 31690; sez. VI 14/6/2007 n. 30966). E' chiaro quindi che, ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d'individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l'intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti" (così, testualmente, Sez. U., n. 26654 del 2008, Fisia Impianti, cit.) Dunque, solo nel caso in cui la natura della fattispecie concreta ed i rapporti economici ad essa sottostanti non consentano d'individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l'intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti. In applicazione dei principi indicati, ciò che non è chiaro nei decreti impugnati è: a) se il sequestro delle somme di denaro giacenti sui conti correnti del ricorrente sia stato disposto in funzione della confisca diretta ovvero per equivalente; b) se il patrimonio dell'indagato si sia o meno effettivamente accresciuto del profitto storico derivante dal reato commesso nell'interesse ed a vantaggio dell'ente, cioè se V. abbia conseguito personalmente il profitto del reato; c) quali siano i rapporti economici sottostanti alla fattispecie e se sia individuabile la quota di profitto che V. avrebbe conseguito. L'ordinanza impugnata deve essere annullata anche sul punto. Il Giudice del rinvio, verificata la propria competenza, in applicazione del principi indicati, procederà a rideterminare il profitto del reato ed a chiarire a quale titolo il sequestro sia stato disposto nei confronti del ricorrente, facendone derivare le necessarie conseguenze giuridiche. P.Q.M. Annulla i decreti impugnati e rinvia per nuovo giudizio al Gip del Tribunale di Taranto. Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2020. Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2021
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