RITENUTO IN FATTO
1. Il difensore di Lo.St. ricorre per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Bari che aveva confermato l'ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari che aveva disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Lo., indagato per estorsione aggravata.
1.1 Al riguardo il difensore, premesso che già in sede di riesame aveva evidenziato come rispetto alla condotta accertata non fosse sussistente una ipotesi di concorso penalmente rilevante ex art. 110 cod. pen., in quanto Lo. avrebbe agito nell'interesse della vittima dell'estorsione Da.Fr. e per motivi di solidarietà umana nei confronti della stessa, lamenta che il Tribunale aveva fatto mal governo dei principi di diritto sul punto, avendo valorizzato il solo elemento modale della condotta e tralasciato l'elemento soggettivo della finalità che animava la condotta dell'indagato, che aveva il solo intento di evitare maggiori danni e pericoli in capo alla vittima dell'estorsione; d'altra parte, nessun elemento di vantaggio personale o patrimoniale era stato individuato in capo a Lo. per questa mediazione tra Da. e i soggetti indicati come autori della richiesta estorsi va.
1.2 Il difensore lamenta l'assenza di motivazione del provvedimento impugnato relativamente all'aggravante del ed. "metodo mafioso", osservando come nel caso in esame si sarebbe in presenza di una verosimile ed. "minaccia silente", atteso che non vi erano evenienze probatorie di come si fossero svolti gli incontri del 20 maggio e 1 giugno 2020 tra La.Gi. (ritenuto esecutore materiale dell'estorsione) e la vittima dell'estorsione, e che nel caso di minaccia silente l'applicazione dell'aggravante specifica di cui all'art. 628 comma 3 n. 3 cod. pen. esclude la contemporanea applicazione dell'aggravante di cui all'art. 416 - bis. 1 cod. pen.; il difensore rappresenta l'interesse di Lo. ad evidenziare l'insussistenza dell'aggravante, atteso che da essa dipendevano le presunzioni di cui all'art. 275 cod. proc. pen..
1.3 Con riferimento alla sussistenza delle esigenze cautelari, il difensore rileva come il reato si sarebbe consumato ben 3 anni prima rispetto all'applicazione della misura cautelare e che la presunzione di cui all'art. 275 comma 3 cod. proc. pen. tende ad affievolirsi quando un considerevole arco temporale separi il momento di consumazione del reato da quello dell'intervento cautelare; il vizio argomentativo assumeva ulteriore rilievo se si considerava che la condotta concorsuale dell'indagato aveva riguardato aspetti non primari e che Lo. non aveva tratto alcun vantaggio dalla condotta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
1.1 Si deve innanzitutto ribadire che in caso di ricorso per cassazione avverso un provvedimento di riesame in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato vizio dì motivazione, le doglianze attinenti alla sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza o delle esigenze cautelari possono assumere rilievo solo se rientrano nella previsione di cui all'art. 606 co. 1 lett. e) c.p.p., se cioè integrano il vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Esula, quindi, dalle funzioni della Cassazione la valutazione della sussistenza o meno dei gravi indizi e delle esigenze cautelari, essendo questo compito primario ed esclusivo dei giudici di merito e, in particolare, prima, del giudice al quale è richiesta l'applicazione della misura e poi, eventualmente, del giudice del riesame.
Nel caso in esame, il Tribunale ha fornito congrua motivazione sulla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in carico a Lo. per il reato contestato, evidenziando il contenuto delle conversazioni intercettate (riportate in motivazione) da cui risulta che il primo contatto con la vittima dell'estorsione (Da.Fr.) era stato cercato proprio da Lo., che gli aveva detto che avrebbe dovuto agevolare in qualche modo il clan, facendo il nome di La.Gi., e consigliando poi a La. come avrebbe dovuto presentarsi a Da. in modo da non farsi notare dagli operai presenti nell'azienda di Da. e di fare attenzione ai telefonini in modo che la conversazione relativa all'incontro non venisse intercettata; trattasi, all'evidenza, di una condotta agevolatrice del reato, visto che Lo. ha fatto da tramite tra esecutore materiale e vittima dell'estorsione, per cui correttamente è stato escluso dal Tribunale che Lo. agisse nell'interesse della vittima; è vero pertanto che "ai fini dell'integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita; ne consegue che anche l'intermediario, nelle trattative per la individuazione della persona alla quale versare la somma estorta, risponde del reato dì concorso in estorsione, salvo che il suo intervento abbia avuto la sola finalità di perseguire l'interesse della vittima e sia stato dettato da motivi di solidarietà umana" (Sez. 2, n. 37896 del 20/07/2017, Benestare, Rv. 270723), ma è da escludere che tale finalità sia presente nel caso in esame, alla luce delle conversazioni intercettate, sulle quali il motivo di ricorso pretende di fornire un diverso significato, operazione non consentita in sede di legittimità, dovendosi ribadire che nel procedimento "de libertate", la valutazione del contenuto e dei risultati delle intercettazioni telefoniche e del significato delle espressioni usate anche dagli interlocutori costituiscono accertamento di fatto, riservato al giudice del merito e insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica.
1.2 Relativamente alla sussistenza dell'aggravante del c.d. "metodo mafioso", il Tribunale ha evidenziato che era stato Lo. a dire a Da. che anche egli ogni tanto agevolava il clan mafioso, nominando come esponente del clan La.Gi., che successivamente era andato a formulare la richiesta estorsiva: conseguentemente Da., nel ricevere la richiesta estorsiva da una persona che gli era stata presentata come appartenente al clan, doveva necessariamente rappresentarsi di essere di fronte ad un gruppo organizzato, con sussistenza quindi dell'aggravante del ed. "metodo mafioso", per la quale non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia richiamino alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo la forza intimidatrice tipicamente mafiosa del vincolo associativo" (vedi Sez. 2, Sentenza n. 16053 del 25/03/2015, Rv. 263525).
Si deve poi rilevare che nel caso in cui un soggetto associato realizzi (anche in concorso) una estorsione, le due aggravanti (utilizzo del metodo mafioso e pregressa appartenenza del soggetto alla associazione) sono in un rapporto di possibile coesistenza: in tema di estorsione, la circostanza di cui all'art. 416 - bis.1 cod. pen. può concorrere con quella di cui all'art. 628 comma terzo n. 3 cod. pen., richiamata dall'art. 629 cod. pen., essendo le stesse ancorate a presupposti fattuali differenti: la prima, infatti, presuppone l'accertamento che la condotta di reato sia stata commessa con modalità di tipo mafioso, pur non essendo necessario che l'agente appartenga al sodalizio criminale, mentre la seconda si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza la necessità di accertare in concreto le modalità di esercizio di tale violenza o minaccia, né che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza alla associazione mafiosa; pertanto, correttamente è stata ritenuta la sussistenza anche dell'aggravante di cui all'art. 628 comma 3 n. 3 cod. pen., stante l'appartenenza di La. ad associazione mafiosa (fatto non contestato), che ben può coesistere con quella di cui all'art. 416 - bis.1 cod. pen.; il ricorrente sostiene che nel caso in esame si sarebbe di fronte ad una minaccia silente e che quindi le due aggravanti non potrebbero coesistere, ma il fatto che la minaccia sia stata silente rimane una mera affermazione della difesa, con conseguente manifesta infondatezza del motivo di ricorso.
1.3 Per quanto riguarda la motivazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari, il Tribunale ha richiamato la presunzione di cui all'art. 275 comma 3 cod. proc. pen. ed evidenziato il pieno inserimento di Lo. negli ambienti criminali, visti i consigli forniti a La. su come "nascondere" l'attività estorsiva posta in essere, con motivazione pertanto esente da censure.
2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 3.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 15 maggio 2024.
Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2024.