RITENUTO IN FATTO
1. - Con sentenza del 23 giugno 2017, la Corte d'appello di Bologna ha confermato la sentenza del 27 gennaio 2015 del Gup Tribunale di Parma, emessa a seguito di giudizio abbreviato, con cui: A) M.B. era stata ritenuta responsabile per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 perchè, nella sua qualità di legale rappresentante della società MB Premiscelati s.r.l., al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, avvalendosi di due fatture per operazioni inesistenti, indicava elementi passivi fittizi nella dichiarazione annuale, per il periodo d'imposta 2009; B) M.B. e B.G. erano stati ritenuti, inoltre, responsabili per il reato di cui all'art. 110 c.p. e del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 perchè, in concorso e previa intesa tra loro, agendo M.B. nella qualità di legale rappresentante precedentemente richiamata, al fine di consentire a B.G. l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, emettevano due fatture per operazioni inesistenti.
2. - Avverso la sentenza gli imputati hanno presentato, tramite il difensore e con unico atto, ricorsi per cassazione.
2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 8 e 9 con riferimento all'inapplicabilità dell'art. 110 c.p. al reato previsto dall'art. 8, considerato il disposto di cui all'art. 9 medesimo decreto, ai sensi del quale non sarebbe configurabile il concorso di persone nel reato con riferimento al delitto di "dichiarazione fraudolenta mediante l'uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti" e a quello di "emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti". I giudici di secondo grado, richiamando la sentenza della Corte di cassazione n. 14862 del 2010, hanno ritenuto che tale principio generale, volto a evitare la doppia punibilità, trovi una deroga nel caso in cui si tratti di utilizzatore solo potenziale, concorrendo, quest'ultimo con l'emittente, secondo la disciplina dettata dall'art. 110 c.p. Secondo la prospettazione difensiva, invece, tale interpretazione vanificherebbe la portata normativa del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 6 ai sensi del quale i delitti previsti dagli artt. 2, 3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo. Si sostiene che il senso di questa norma sarebbe duplice, in quanto, da un lato si sarebbe voluto evitare la punibilità di fatti meramente prodromici a una successiva evasione e, per tale ragione, privi di portata lesiva per l'erario, e dall'altro si sarebbe voluto concedere al contribuente, anche qualora eventualmente sottoposto ad accertamento, la possibilità di sottrarsi ad una futura responsabilità penale, presentando una dichiarazione veritiera. In tale contesto, secondo il ricorrente, sarebbe riduttivo interpretare la portata dell'art. 9 limitandola all'esclusione della doppia punibilità del soggetto agente, perchè un siffatto inquadramento eliminerebbe, dal punto di vista dell'applicazione della sanzione penale, ogni distinzione tra chi presenta una dichiarazione basata su una falsa dichiarazione e tra chi, pur in possesso di tale documentazione, decida di non usufruirne.
2.2. - In secondo luogo, si contesta, soltanto relativamente alla posizione di M.B., la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 in merito alla ritenuta sussistenza del dolo specifico di evasione. Si rileva, a tal riguardo, che l'imputata, non avendo le conoscenze per amministrare da sola l'azienda di cui era rappresentante legale, veniva aiutata dal marito, B.G., e dal suocero, B.E., in cui riponeva piena fiducia. La stessa imputata avrebbe ammesso, davanti alla Guardia di finanza, di aver emesso fatture per operazioni inesistenti, ma senza conoscerne le ragioni giustificatrici e rimanendo estranea a tali pratiche illecite. Mancherebbe, dunque, nella condotta dell'imputata, il "fine di consentire a terzi l'evasione delle imposti sui redditi o sul valore aggiunto" richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
2.3. - In ultima istanza, si deduce il vizio di violazione di legge, in relazione al termine di prescrizione del reato di cui al capo B), il quale, concernendo fatture emesse nel novembre 2009, risulterebbe decorso nel maggio 2017. Tuttavia, i giudici di secondo grado avrebbero aggiunto a tale termine il decorso di ulteriori 4 mesi, a causa della sospensione della prescrizione seguita al rinvio (sino al 30 settembre 2014) richiesto dagli avvocati degli imputati all'udienza preliminare del 3 giugno 2014, al fine di valutare la possibilità di eventuali riti alternativi. Si richiama, a tale proposito, la pronuncia di questa Corte n. 28081 del 2015, secondo la quale il rinvio del dibattimento disposto dal giudice in accoglimento della concorde richiesta delle difese, nulla opponendo il pubblico ministero, non determinerebbe la sospensione del termine di prescrizione, dal momento che tale ipotesi non rientrerebbe tra quelle previste dall'art. 159 c.p., n. 3), riferite unicamente a rinvii dell'udienza conseguenti a richiesta che provenga esclusivamente dall'imputato o dal suo difensore.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - I ricorsi sono inammissibili.
3.1. - Il primo motivo di doglianza - relativo alla violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 8 e 9 con riferimento all'inapplicabilità dell'art. 110 c.p. al reato previsto dall'art. 8 - è manifestamente infondato. Secondo il costante e noto orientamento di questa Corte, come correttamente ricordato dalla sentenza impugnata, la previsione dell'art. 9 citato decreto, mentre esclude espressamente il concorso tra chi ha emesso la fattura e chi se ne è avvalso - al fine di evitare che la medesima condotta sostanziale sia punita due volte - non esclude, tuttavia, il concorso nell'emissione della fattura per operazione inesistente, secondo le regole ordinarie del concorso di persone nel reato di cui all'art. 110 c.p. Contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, una diversa interpretazione di tale deroga, comporterebbe una situazione di irrilevanza penale nei confronti di chi abbia concorso nell'emissione delle fatture fittizie - magari ricoprendo anche un ruolo primario, ad esempio come istigatore - ma che poi, per una situazione accidentale (ad esempio, un accertamento effettuato prima della scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione) non abbia utilizzato la documentazione illecita che aveva contribuito a predisporre (Sez. 3, 17 marzo 2010, n. 14862). Secondo la ricostruzione proposta dalla difesa, il soggetto, pur avendo concorso all'emissione delle fatture inesistenti non verrebbe punito nè per il reato di cui all'art. 8, nè per quello di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 dal momento che in questo caso, l'art. 6 medesimo decreto esclude la possibilità della configurazione del tentativo. Risulta errata, inoltre, dal punto di vista logico, la prospettazione difensiva volta ad attribuire al D.Lgs. 74 del 2000, art. 9 una portata maggiore rispetto all'esclusione della doppia punibilità del soggetto agente, dal momento che le condotte di chi presenta una dichiarazione basata su una falsa dichiarazione e quelle di chi, pur essendone in possesso, decida di non utilizzarla sono, in ogni caso, trattate in modo distinto dall'ordinamento: la prima ipotesi configura il reato di cui all'art. 2, mentre la seconda integra il concorso nel delitto di cui all'art. 8, esclusivamente nel caso in cui emerga un contributo del beneficiario delle fatture fittizie alla loro emissione.
3.2. - Il secondo motivo di ricorso, concernente l'insussistenza del dolo specifico richiesto dal reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8 è inammissibile, perchè volto a una rivalutazione dei medesimi elementi probatori già analizzati dai giudici di merito. La Corte d'appello ha, in ogni caso, correttamente ritenuto che il dolo specifico in capo all'imputata risulti pienamente integrato, in ragione del fatto che - come sostanzialmente ammesso anche nel ricorso per cassazione - la stessa era semplicemente coadiuvata dal marito e dal suocero nella gestione della società. Ella ha confermato, infatti, di seguire la contabilità della società, emettendo fatture ed eseguendo pagamenti; mansioni radicalmente incompatibili con lo svolgimento dei compiti di un mero prestanome. La sentenza impugnata ha, inoltre, coerentemente aggiunto che la fiducia riposta dall'imputata nel marito non possa essere ritenuta una ragione giustificatrice della sua estraneità alle operazioni contestate, dal momento che le stesse riguardavano importi rilevanti e interventi di assoluta rilevanza nella vita societaria.
3.3. - Il terzo motivo, riferito alla decorrenza del termine di prescrizione del reato di cui al capo B), è manifestamente infondato. La pronuncia di legittimità citata dal ricorrente (Sez. 2, 12 giugno 2015, n. 28081) si riferisce, infatti, all'ipotesi in cui il rinvio dell'udienza dibattimentale derivi dalla concorde richiesta della difesa dell'imputato e della parte civile, con la mancata opposizione del pubblico ministero. Tale richiesta, provenendo non soltanto dall'imputato o dal suo difensore, ma anche dalla difesa della parte civile, non rientrerebbe nell'ipotesi di cui all'art. 159 c.p., comma 1, n. 3, non determinando alcuna sospensione della prescrizione. Nel caso di specie, invece, come tra l'altro prospettato nello stesso motivo di ricorso, la richiesta di rinvio è provenuta unicamente dai difensori degli imputati, al fine di valutare la percorribilità di eventuali riti alternativi; trattandosi, dunque, come correttamente affermato dalla sentenza impugnata, "di una tipica richiesta di parte, che come tale sospende la prescrizione ex art. 159 c.p.c., comma 1, n. 3".
4. - I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 18 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2018