RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Milano, intervenendo in sede di giudizio di rinvio, per la terza volta, in relazione alla sentenza con la quale il Tribunale di Milano, in esito a giudizio abbreviato, aveva dichiarato la penale responsabilità di C.L. in ordine al reato di cui al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 8, comma 1, per avere egli, nella qualità di legale rappresentante della S.I.R. Srl, emesso fatture relative ad operazioni inesistenti (fatture utilizzate al fine di evadere le tasse dalle imprese nei confronti delle quali le medesime erano state spiccate), lo ha condannato, in parziale accoglimento della impugnazione proposta dall'imputato, dopo che le precedenti due sentenze emesse dalla Corte di Milano, rispettivamente in data 12 settembre 2014 ed in data 12 gennaio 2018, già erano state annullate da questa Corte con sentenze n. 15458 del 2016 e n. 5884 del 2019, previa conferma della dichiarazione di penale responsabilità del C. limitatamente agli anni di imposta 2008 e 2009, alla pena di mesi 9 e giorni 10 di reclusione, confermando, altresì, nel resto la sentenza impugnata del giudice di primo grado, peraltro limitatamente alle parti di essa che già non erano state caducate con le precedenti sentenze emesse in sede di giudizio di rinvio.
Ha nuovamente interposto ricorso per cassazione il prevenuto, lamentando con un duplice motivo di impugnazione la violazione di legge, sia con riferimento agli artt. 623 e 627 c.p.p. che con riferimento all'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2, sia, in relazione alla violazione del D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13, comma 2-bis, (disposizione ora trasferita nell'art. 13-bis, comma 4, del medesimo decreto legislativo), la mancata applicazione della circostanza attenuante speciale ivi prevista.
In sostanza il ricorrente, il quale ha anche sollecitato questa Corte a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma ora indicata ove non fosse ritenuta possibile una interpretazione estensiva di essa, ha osservato che la attenuante in questione - applicabile alle ipotesi di avvenuto ristoro, tramite l'integrale pagamento delle imposte evase, comprensivo anche delle eventuali derivanti sanzioni, prima dell'inizio del giudizio di primo grado, del danno derivante, sino a quel momento, dal mancato tempestivo versamento delle imposte - sarebbe tanto più applicabile nel caso in cui, come nella presente fattispecie, siffatto danno non fosse riscontrabile stante la assenza di un'evasione di imposta, non potendosi, peraltro, gravare, come invece preteso dalla Corte territoriale nella motivazione della sentenza impugnata, lo stesso imputato della prova della inesistenza di alcuna omissione tributaria derivante dal reato a lui contestato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, con le precisazioni che saranno di seguito offerte, è infondato e, pertanto, lo stesso non può essere accolto.
Data la complessità della vicenda che costituisce lo sfondo della presente controversia, è opportuno, per la sua migliore comprensione, ripercorrerne, sia pure per sintesi, i passi salienti.
Con sentenza emessa dal Gup del Tribunale di Milano in data 13 marzo 2014, C.L. è stato condannato - in quanto ritenuto responsabile del reato di cui al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 8, comma 1, per avere emesso, in qualità di legale rappresentante della S.I.R. Srl, negli anni di imposta 2007, 2008, 2009 e 2010, una serie di fatture relative ad operazioni inesistenti in favore di altre due società, in particolare la Sir Srl e la Lubrichem Srl, da queste utilizzate per documentare (onde ridurre il reddito imponibile ai fini IVA e, pertanto, omettere il pagamento delle imposte altrimenti dovute) costi aziendali non realmente affrontati - unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e concessione della sospensione condizionale della pena, alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione, oltre alle pene accessorie ed alla confisca per equivalente della somma di Euro 86.881,00, pari all'ammontare dell'indebita detrazione IVA operata dalle società utilizzatrici delle fatture.
Avendo l'imputato gravato la predetta sentenza di appello, la Corte di Milano, in data 12 dicembre 2014, ha, in parziale accoglimento dell'impugnazione, riconosciuto la circostanza attenuante di cui al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 8, comma 3, applicabile ratione temporis alle condotte imputate al C., ed ha, pertanto, ridotto la pena a suo carico, portandola ad anni 1 di reclusione, ed ha ridotto l'importo della somma oggetto di confisca per equivalente, espungendo quella relativa all'anno di imposta 2007, essendo stata introdotta la disposizione che consente la applicazione della misura di sicurezza in questione solo con L. n. 244 del 2007, entrata in vigore in data 1 gennaio 2008, cioè dopo la commissione del reato in questione, ridimensionandola, perciò, sino alla somma di Euro 64.101,00.
Avendo l'imputato impugnato la sentenza della Corte di merito di fronte alla Corte di cassazione, questa, con sentenza n. 15458 del 2016, ha annullato la sentenza della Corte meneghina, senza rinvio, relativamente all'affermazione della responsabilità dell'imputato quanto all'anno di imposta 2007, per essere il reato estinto per prescrizione, e con rinvio ad altra Sezione della medesima Corte, in relazione alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio ed alla disposta confisca.
Quanto alla pena la Corte di legittimità aveva, infatti, riscontrato che la Corte di merito, nell'applicare il regime della continuazione fra i vari reati in contestazione, ciascuno riferito ad una annualità di imposta, aveva conteggiato anche l'anno di imposta 2010, nel corso del quale non erano state emesse fatture.
Mentre la pronunzia di annullamento riguardante la confisca era stata determinata dal rilevo che, secondo la giurisprudenza della Corte di legittimità, "la confisca per equivalente del profitto del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti non può essere disposta sui beni dell'emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall'utilizzatore delle fatture medesime, poichè il regime derogatorio previsto dal D.Lgs.n.74 del 2000, art. 9 - escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale - impedisce l'applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo".
Investita, pertanto, del giudizio di rinvio la Corte di Milano, con sentenza del 12 gennaio 2018, ha rideterminato la pena a carico del C. in anni 1, mesi 1 e giorni 10 di reclusione ed ha revocato in toto la disposta confisca.
Avendo nuovamente interposto ricorso per cassazione la difesa dell'imputato, questa Corte di legittimità, con sentenza n. 5884 del 2019, ha nuovamente annullato la decisione assunta dalla Corte di appello di Milano, osservando, in primo luogo che, la Corte di appello non aveva pronunziato sulla applicabilità al caso di specie del D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13, pur avendo la questione formato oggetto di motivo di gravame, e rilevando, in secondo luogo che il criterio seguito nella determinazione della pena a carico del C. era stato errato, posto che, in attuazione della precedente sentenza della Corte di cassazione, la Corte territoriale avrebbe dovuto, cosa da essa non fatta, ridurre la pena a carico del medesimo, stante la eliminazione delle sanzioni riguardanti gli anni di imposta 2007 e 2010.
Nuovamente investita in sede di rinvio la Corte di Milano ha emesso la sentenza ora impugnata.
Con essa detta Corte ha ritenuto, per un verso, di dovere rideterminare la pena a carico del C. nella misura di mesi 9 e giorni 10 di reclusione, mentre, per altro verso, ha escluso che alla fattispecie potesse essere applicata la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13, comma 2-bis, nel testo vigente al momento del fatto - per effetto del quale le pene previste per i delitti di cui al citato decreto erano diminuite sino alla metà nè si applicavano le pene accessorie previste dall'art. 12 del medesimo decreto legislativo, nel caso in cui, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi del delitto in contestazione, comprensivi di eventuali sanzioni, fossero stati estinti mediante pagamento, anche a seguito di procedura di conciliazione o di adesione all'accertamento - sulla base di una pluralità di argomenti.
Il primo di essi, secondo la Corte territoriale, è fornito dalla circostanza che il ricorrente non ha offerto nè una prova nè un principio di prova in merito alla circostanza che in capo alla società che aveva emesso le fatture relative alle operazioni inesistenti non vi era alcun debito tributario, anche in relazione ad eventuali sanzioni amministrative, tenuto conto anche del fatto che, ai sensi della L. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, l'imposta Iva è dovuta dall'emittente per intero anche in caso di emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti.
Ha, peraltro, aggiunto la Corte di merito che, ove dovesse risultare che dalla commissione del reato attribuito al C. non fosse derivata l'insorgenza di alcun debito tributario, dovrebbe ritenersi che detto reato è escluso dal novero di quelli per i quali possa applicarsi la circostanza attenuante speciale invocata dal ricorrente.
Il quale, osserva in conclusione la Corte di Milano, mai prima della apertura del dibattimento ha manifestato la volontà di pagare il debito tributario e le modalità per compiere tale adempimento.
Sulla base di tali argomenti la Corte territoriale ha rigettato la impugnazione del ricorrente avente ad oggetto la applicabilità alla fattispecie della citata circostanza attenuante speciale.
Come accennato nella parte narrativa della presente sentenza, nell'impugnare la sentenza emessa in sede di rinvio il ricorrente ha lamentato la violazione dell'art. 623 c.p.p. e art. 627 c.p.p., comma 3, nonchè dell'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 2, sostenendo che il giudice del rinvio avrebbe violato il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione allorchè aveva annullato, per la secondo volta, la sentenza della Corte di Milano, in quanto in tale occasione questa Corte non aveva incaricato il giudice territoriale di verificare se esistessero o meno debiti tributari, ma aveva disposto nel senso che la Corte di merito dovesse accertare se "la posizione di colui che non aveva fatto sorgere alcun debito tributario (...) fosse effettivamente da equiparare o meno al caso dell'imputato che avesse pagato, prima della apertura del dibattimento, i debiti tributari".
Il motivo di impugnazione non ha pregio.
Infatti, osserva il Collegio, la sentenza n. 5884 del 2019, con la quale la Corte di cassazione ha rinviato alla Corte di appello di Milano il giudizio a carico dell'odierno ricorrente, ha onerato la predetta Corte territoriale di porre rimedio ad un vizio di omessa motivazione che, invece, caratterizzava la sentenza oggetto del giudizio definito con la citata pronunzia della Corte di legittimità, riguardante la applicabilità al caso in esame il D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13, nel testo vigente il momento in cui i fatti si sono verificati.
La Corte, proprio per la natura del vizio denunziato (si trattava di un'omessa motivazione "pura" e non di un vizio di motivazione o di errata applicazione di una norma di legge), non ha fornito al giudice del rinvio alcun criterio cui doversi uniformare in sede decisoria, essendo, pertanto, questo libero di decidere secondo scienza e coscienza sul motivo di impugnazione anteriormente pretermesso; la Corte ha semplicemente delineato gli ambiti decisori entro i quali il giudice del rinvio sarebbe dovuto intervenire, salvo ed impregiudicato il contenuto della sua decisione, precisando che essa avrebbe dovuto in primo luogo concernere l'applicabilità alla fattispecie in esame del ricordato, D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13, comma 2-bis, e, una volta positivamente verificato tale logico presupposto, la Corte di rinvio avrebbe dovuto rideterminare la pena da infliggere al C., computata tenendo conto della attenuante in questione.
Rilevato quanto sopra, non può affatto dirsi che la Corte di Milano, avendo escluso che alla fattispecie sottoposta al suo esame potesse applicarsi la disposizione legislativa ultima citata, abbia tracimato rispetto ai confini decisori, invero piuttosto ampi, che le erano stati segnati dalla Corte di cassazione con la citata sentenza n. 5884 del 2019.
Da ciò la infondatezza del motivo di ricorso ora scrutinato.
Passando ad esaminare il secondo motivo di impugnazione, relativo alla erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui in essa si è ritenuto che dovesse gravare sul ricorrente la prova della insussistenza di alcun debito tributario derivante dalla commissione del reato a lui ascritto, si rileva che il motivo di impugnazione appare non correttamente formulato.
Infatti, osserva la Corte, non è corretta l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale l'impugnazione del C. avverso la sentenza del Tribunale di Milano del 13 marzo 2014, avente ad oggetto la applicabilità o meno a suo favore della circostanza attenuante di cui al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13, comma 2-bis, dovesse essere rigettata in quanto l'appellante non aveva dimostrato la inesistenza di debiti tributari in capo alla società emittente le fatture per operazioni inesistenti.
L'erroneità della affermazione - peraltro in contraddizione logica con la concorrente ratio decidendi esposta dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata secondo la quale ove fosse derivata la insussistenza di qualsivoglia debito tributario derivante dal reato oggetto del giudizio, ciò avrebbe significato che il reato in questione è escluso dall'ambito applicativo della attenuante in questione, conclusione che avrebbe reso comunque inconcludente l'eventuale soddisfazione dell'onere probatorio richiesto al ricorrente - è duplice, in quanto la stessa è tale sia in fatto che in diritto.
E' errata in fatto atteso che la insussistenza di qualsivoglia debito di imposta derivante dalla condotta posta in essere dal C. è circostanza che appare documentata dal fatto che, con la sentenza n. 15458 del 2016 questa stessa Corte di legittimità annullò la prima sentenza emessa dalla Corte di Milano in relazione alla disposta confisca delle imposte non versate, osservando che si trattava di somme riferibili al mancato versamento delle imposte evase per effetto dell'utilizzazione delle fatture riferite ad operazioni fittizie e non derivanti da un omesso versamento di imposte connesso alla emissione delle fatture riguardanti operazioni inesistenti.
La circostanza che, in sede di rinvio, la Corte di appello abbia in toto revocato la confisca fornisce un elemento assai solido onde affermare che dalla condotta del C. non è immediatamente derivato alcun debito di imposta non soddisfatto.
E', peraltro, errata in diritto posto che, non risultando contestata al C. con il capo di imputazione elevato nei suoi confronti, alcuna evasione di imposta, non si comprende per quale motivo l'imputato doveva essere onerato di fornire la prova di un elemento, peraltro negativo e, pertanto, di ardua dimostrazione, quale la insussistenza di un debito tributario derivante dalla sua condotta (sul generale principio per effetto del quale in capo all'imputato non vi è l'onere di provare un fatto negativo, cfr., sia pure in un ambito non pienamente coincidente con quello ora in esame: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 30 giugno 2014, n. 28156; idem Sezione II penale, 17 febbraio 2014, n. 7484; idem Sezione VI penale, 12 dicembre 2011, n. 45984), la cui sussistenza neppure era mai stata prospettata.
Vi è, tuttavia, da rilevare che, come è stato dianzi accennato, la Corte di appello ha fondato la propria decisione di escludere la possibilità di riconoscere in favore del ricorrente la citata circostanza attenuante anche su di un altro profilo, non coincidente (anzi in realtà divergente) con il precedente, costituito dalla astratta inapplicabilità della circostanza in questione ogniqualvolta non sia prospettabile un debito tributario suscettibile di essere adempiuto anteriormente alla apertura del dibattimento penale.
Tale argomento appare, a questo Collegio condivisibile, posto che il tenore letterale della disposizione in questione, in relazione alla quale appare opportuno segnalarne la sostanziale continuità normativa con il D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13-bis, comma 1, come introdotto a seguito della entrata in vigore del D.Lgs.n. 158 del 2015, appare inequivocamente declinato nel senso di consentire la applicazione della attenuante ad effetto speciale solamente nella ipotesi in cui al delitto contestato sia conseguita la sussistenza di un debito tributario ed esso sia stato saldato, anche tramite procedure conciliative o adesive, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento penale in primo grado.
Deve, infatti, rilevarsi che fra i reati previsti e sanzionati dal D.Lgs.n.74 del 2000 ve ne sono alcuni, fra i quali quello appunto disciplinato dall'art. 8 ma al medesimo genere appartengono anche i reati di cui agli artt. 10 e 11, la cui integrazione non è condizionata dall'esistenza di un'omissione tributaria o comunque di un danno patrimoniale a carico dell'Erario.
In essi, infatti, sebbene sia previsto che l'atteggiamento dell'agente sia caratterizzato dal dolo specifico, difatti quanto al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 8 l'illecito deve essere commesso "al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto", mentre la condotta di occultamento o distruzione delle scritture contabili, punita ai sensi del successivo art. 10, deve essere realizzata " al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi" ed, infine, la ipotesi di fraudolenta sottrazione al pagamento delle imposte contiene nella stessa denominazione del reato il fine specifico per il quale è disposta la simulata alienazione (o atti similari) del patrimonio dell'agente, non è tuttavia necessario che il fine divisato dall'agente sia raggiunto, costituendo siffatte ipotesi di reato, come si verifica allorchè la sanzione penale è posta quale ostacolo alla realizzazione di ulteriori più gravi condotte, dei reati di pericolo, la cui integrazione non necessita del verificarsi di un evento naturalistico, nel caso la evasione di imposta, essendo sufficiente che si realizzi il pericolo che questo si verifichi (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 ottobre 2018, n. 46049; idem Sezione III penale, 26 marzo 2008, n. 12719).
Per tali ipotesi, cioè laddove il reato sussista pur in assenza di un'evasione di imposta, osserva la Corte, deve ritenersi che la circostanza attenuante speciale di cui, ora, al D.Lgs.n.74 del 2000, art. 13-bis, comma 1, (ed allora di cui all'art. 13, comma 2-bis del medesimo decreto legislativo) non sia, in astratto, praticabile, ò non potendo ricorrere gli elementi fattuali per la sua applicazione.
Nè una tale soluzione - che appare necessitata alla luce del contenuto della norma il quale richiama i concetti di debiti tributari e di loro estinzione, che indubbiamente presuppongono la esistenza di un pregresso carico tributario non tempestivamente adempiuto derivante direttamente dalla commissione di uno dei delitti disciplinati dal D.Lgs.n.74 del 2000 - si presenta tale da apparire così manifestamente irragionevole ovvero in contrasto col principio della uguaglianza da impingere con taluno dei principi sanciti dall'art. 3 della Costituzione repubblicana.
Infatti ritiene il Collegio, in tal modo replicando all'invito rivoltogli dal ricorrente nel senso di sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma in questione, invito che, invece, si reputa di dover disattendere stante la manifesta infondatezza della questione prospettata che il legislatore abbia in tal modo, per un verso, inteso premiare con un trattamento sanzionatorio più blando il soggetto che, attraverso il pagamento delle imposte fino a quel momento evase, ha in tal modo dimostrato concretamente una forma di avvenuta resipiscenza rispetto al suo precedente atteggiamento antigiuridico (nè la circostanza che un siffatto atteggiamento non possa essere negli stessi termini dimostrato da chi non avendo evaso alcuna imposta non sia in condizione di pagarla prima dell'inizio del dibattimento costituisce fattore tale da determinare un trattamento irragionevolmente deteriore di tale seconda categoria di soggetti, una volta che gli stessi siano condannati, atteso che la descritta circostanza, cioè la mancata sussistenza di un danno materiale a carico dell'Erario quale conseguenza dell'agire di costoro, potrà essere ragionevolmente oggetto di valutazione da parte del giudicante nell'ambito della discrezionale quantificazione della pena entro la forcella edittale prevista per il singolo reato perpetrato), mentre ha, per altro verso, così inteso incentivare - facendo uso della ampia discrezionalità che è concessa al legislatore in materia di misure ampliative o comunque attributive di benefici attraverso la previsione premiale della circostanza attenuante in questione, attesi gli evidenti vantaggi di carattere generale che da ciò possono derivare al complessivo sistema fiscale, il, sia pure differito, integrale adempimento degli obblighi tributari da parte di chi si sia, sino a quel momento, sottratto ad essi.
Il ricorso proposto deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente, visto l'art. 616 c.p.p., va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2020