RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 7 ottobre 2022 la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza emessa il 15 settembre 2021 dal Tribunale della stessa città nei confronti di Pu.Ga., ha riconosciuto la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis cod. pen. e rideterminato la pena per il reato di peculato in anni due di reclusione, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e confermando nel resto.
2. Secondo la conforme ricostruzione dei giudici di merito, Pu.Ga., quale impiegata dell'ufficio postale M5 di M, addetta allo sportello e, dunque, incaricata di pubblico servizio, si era appropriata della somma di euro 885,75, versata, per il pagamento di un modello F 24, da De.El. per conto di Se.Cr. e in favore dell'I.N.P.S. Tale pagamento era stato successivamente annullato, ma l'imputata aveva omesso di presentare la dichiarazione di eccedenza di cassa e di corrispondere l'anzidetta somma alla responsabile dell'ufficio.
3. Avverso la sentenza di appello il difensore dell'imputata ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito indicati.
3.1. Violazione dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen. e del principio di correlazione fra il contestato e il deciso, atteso che, mentre nell'imputazione si contesta all'imputata di avere effettuato l'operazione di annullamento del pagamento successivamente all'appropriazione della somma di denaro, nella sentenza si ascrive tale operazione alla direttrice dell'ufficio postale.
3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione, per essere stata disattesa la richiesta di rinnovazione istruttoria mediante l'esame di Lo.Se. e Di.Da., che avrebbe consentito di confermare le dichiarazioni rese dall'imputata in merito al dedotto errore materiale dalla medesima compiuto.
3.3. Violazione di legge con riferimento all'elemento soggettivo del contestato delitto di peculato e all'omessa valutazione dell'esistenza di un errore materiale quale fondamento della condotta, ascritta all'imputata.
3.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del fatto ai sensi dell'art. 314, comma 2, cod. pen. o dell'art. 646 cod. pen.
3.5. Violazione di legge e vizio della motivazione, per non essere stato concesso il beneficio della non menzione della condanna ex art. 175 cod. pen., pur avendo la Corte di appello disposto la sospensione condizionale della pena e ritenuto l'imputata meritevole delle attenuanti generiche.
4. Il 16 gennaio 2024 è pervenuta memoria nell'interesse della parte civile, con cui si sono dedotte la mancanza di procura per la proposizione del ricorso, rilasciata successivamente alla sentenza della Corte di appello, nonché la genericità e l'infondatezza dei motivi del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Deve essere disattesa, in via preliminare, l'eccezione della parte civile in ordine alla mancanza di una valida procura a proporre il ricorso per cassazione. Risulta dagli atti (v. ricorso, in calce), infatti, che la ricorrente, in data successiva alla sentenza di appello, ha confermato la nomina dell'avv. Giovambattista Freni per proporre il ricorso per cassazione.
2. Tanto premesso, deve rilevarsi che il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, non vi è difformità tra il fatto contestato e quello descritto nella sentenza.
Al riguardo giova ricordare che questa Corte è ferma nel ritenere che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Ne consegue che l'indagine, volta ad accertare il mancato rispetto del suddetto principio, non può esaurirsi nel pedissequo e mero confronto letterale fra la contestazione e la sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, si sia trovato nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U., n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051 - 01).
Nel caso in esame, secondo la ricorrente, nella sentenza si affermerebbe che l'operazione di annullamento del pagamento era stata compiuta dalla direttrice dell'ufficio postale e non dalla stessa imputata, come invece indicato nella contestazione.
Deve rilevarsi, innanzitutto, che il rilievo difensivo non trova puntuale riscontro nella sentenza impugnata, in cui - invero - la Corte territoriale ha affermato che l'operazione di annullamento, pur se materialmente eseguita dalla direttrice, la sola abilitata a farlo, era stata suggerita e caldeggiata dalla ricorrente, che aveva taciuto che Se.Cr. era in possesso di una ricevuta di avvenuto pagamento e aveva così indotto in errore il suo superiore circa la correttezza di questo intervento.
Anche nella sentenza, quindi, l'operazione di annullamento è stata ricondotta alla ricorrente, in modo corrispondente all'imputazione.
Ad ogni modo, quanto evidenziato dalla ricorrente attiene a profili marginali del fatto, non rilevanti al fine del rispetto dell'art. 521 cod. proc. pen., come precisato da questa Corte (Sez. 2, n. 17565 del 15/03/2017, Beretti, Rv. 269569 - 01), secondo cui, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, la non corrispondenza tra il fatto contestato e quello che emerge dalla sentenza rileva solo allorché si verifichi una trasformazione o sostituzione delle condizioni che rappresentano gli elementi costitutivi dell'addebito e non già quando il mutamento riguardi profili marginali, non essenziali per l'integrazione del reato e sui quali l'imputato abbia avuto modo di difendersi nel corso del processo.
Sia nella sentenza che nell'imputazione coincide il nucleo essenziale dell'antigiuridicità, da individuarsi nell'indebita appropriazione da parte della ricorrente di una res altrui, ossia la somma di denaro versata da De.El. per conto di Se.Cr. e in favore dell'I.N.P.S.
A fronte di tale nucleo è irrilevante chi materialmente avesse annullato l'operazione di pagamento, essendo la somma di denaro confluita nella persona della ricorrente e ciò per effetto di una sua condotta consapevole e voluta.
Ne consegue che non può dirsi sussistente alcuna difformità tra accusa e sentenza.
3. Il secondo motivo è infondato.
La ricorrente ha censurato il rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria mediante l'esame di Lo.Se. e Di.Da., che avrebbe consentito di confermare le sue dichiarazioni in ordine all'errore materiale, che ella avrebbe compiuto nell'effettuare l'operazione di sportello.
La Corte di appello ha ritenuto superfluo rinnovare l'istruttoria, atteso che le anzidette dichiarazioni erano state già acquisite al dibattimento.
Siffatta motivazione si rivela incensurabile, tenuto conto della delibata congruità degli elementi acquisiti e dei connotati di eccezionalità che caratterizzano il richiamato istituto. Può qui, infatti, ripetersi che la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale, subordinata a una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente all'insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti, che impone l'assunzione di ulteriori mezzi istruttori, pur se le parti non abbiano provveduto a presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall'art. 468 cod. proc. pen. (v. Sez. U., n. 12602 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 266820 - 01).
4. Il terzo motivo è inammissibile.
La ricorrente ha contestato l'affermazione della sua responsabilità, deducendo, in particolare, che la Corte territoriale non avrebbe considerato che la condotta contestatale è stata determinata da un errore involontario.
Sulla base delle inequivoche risultanze offerte dal materiale probatorio, di fonte orale e documentale, compiutamente illustrate in motivazione, la Corte del merito, conformemente al giudice di primo grado, ha puntualmente ricostruito l'intera vicenda storico-fattuale, oggetto della regiudicanda, evidenziando che la tesi dell'errore materiale, propugnata dall'imputata, era inverosimile e smentita da alcuni dati - quali il fatto che i soldi erano stati portati a casa da quest'ultima e la richiesta inusuale del numero di telefono, effettuata dalla stessa imputata a De.El.
La decisione impugnata, in disparte i rilievi che seguiranno sull'operata qualificazione giuridica dei fatti, ha offerto una congrua e ragionevole giustificazione della sussistenza del fatto in tutte le sue componenti e, quindi, del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti della ricorrente.
Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa sede da tempo tracciata, che l'esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una "mirata rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell'autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perché illustrati come maggiormente plausibili, o perché assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 5465 del 4/11/2020, F., Rv. 280601 - 01; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 - 01; Sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007, Servidei, Rv. 237652 - 01; Sez. 2, n. 23419 del 23/05/2007, P.G. in proc. Vignaroli, Rv. 236893; Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148).
Nel caso di specie, l'adeguatezza delle ragioni giustificative, illustrate nella sentenza impugnata, non è stata validamente censurata dalla ricorrente, limitatasi a riproporre, per lo più, obiezioni già esaustivamente disattese dalla Corte distrettuale, la cui motivazione non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorietà o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento elaborato da questa Corte, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui alla lett. e) dell'art. 606, comma 1, cod. proc. pen. (anche nella sua nuova formulazione).
5. È fondato il quarto motivo del ricorso, con cui la ricorrente ha posto in discussione la qualificazione dei fatti ai sensi dell'art. 314 cod. pen., contestando di avere assunto la veste di incaricata di pubblico servizio.
5.1. Prima di affrontare i profili controversi, vanno richiamati i principi che costituiscono la necessaria premessa per affrontare il caso in esame e che è sufficiente enunciare, non essendo in discussione.
L'art. 314 cit. delinea una fattispecie di reato proprio del "pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio".
Come è oramai noto, con la riformulazione, operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, degli artt. 357 e 358 cod. pen., contenenti la definizione delle anzidette nozioni, è stato definitivamente positivizzato il superamento della concezione soggettiva, che faceva leva sul rapporto di dipendenza dallo Stato o da altro ente pubblico, ed è stata adottata una prospettiva funzionale-oggettiva.
Secondo l'attuale formulazione dell'art. 357 cod. pen., infatti, «agli effetti della legge penale» è pubblico ufficiale colui il quale esercita una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, dovendosi ritenere amministrativa, ai sensi del secondo comma dell'art. 357 cod. pen., introdotto dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181, la funzione «disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi». Come emerge dall'impiego nel testo della norma della disgiuntiva «o», in luogo della congiunzione «e», i suddetti criteri normativi di identificazione della pubblica funzione non sono tra loro cumulativi, ma alternativi. È stato, inoltre, precisato che nel concetto di poteri «autoritativi» rientrano non soltanto quelli coercitivi, ma tutte le attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un piano non paritetico - di diritto privato - rispetto all'autorità, che tale potere esercita. Rientrano, invece, nel concetto di «poteri certificativi» tutte le attività di documentazione a cui l'ordinamento assegna efficacia probatoria ai sensi dell'art. 2699 cod. civ., quale che ne sia il grado (in questi termini Sez. U., n. 7958 del 27/03/1992, Delogu, Rv. 191172 - 01).
Secondo la definizione contenuta nell'art. 358 cod. pen., riveste, invece, la qualità di incaricato di pubblico servizio il soggetto che svolge un'attività di carattere intellettivo, caratterizzata, da un lato, dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione (Sez. U., n. 7958/1992, Delogu, cit.) e, dall'altro lato, da una precisa correlazione funzionale al soddisfacimento di uno specifico interesse pubblico (Sez. 6, n. 11240 del 24/10/1995, Ronchi, Rv. 203178 - 01).
L'art. 358 cit., come modificato dalla L. n. 86/90, esclude, invece, dall'attività di pubblico servizio lo «svolgimento di semplici mansioni di ordine» e la «prestazione di opera meramente materiale».
Con siffatta innovazione legislativa si è voluto espressamente restringere le qualifiche pubblicistiche rilevanti nei reati propri contro la pubblica amministrazione. La formulazione lessicale, impiegata dal legislatore, con l'utilizzo dei termini «semplici» e «meramente», indica, infatti, in modo univoco, la presenza di una voluntas legis finalizzata a collocare nel perimetro della nozione di incaricato di pubblico servizio qualunque mansione che richieda un bagaglio di nozioni tecniche e di esperienza e che comporti un livello di responsabilità superiore a quello richiesto per lo svolgimento di incombenti esclusivamente materiali o di ordine.
5.2. È d'uopo rimarcare che anche con riguardo all'incaricato di pubblico servizio il legislatore del 1990 ha privilegiato il criterio oggettivo - funzionale, utilizzando la locuzione «a qualunque titolo» ed eliminando ogni riferimento, contenuto nel vecchio testo dell'art. 358 cod. pen., al rapporto di impiego con lo Stato o altro ente pubblico (Sez. 6, n. 53578 del 21/10/2014, Cofano, Rv. 261835 - 01).
Quale diretta conseguenza del criterio oggettivo-funzionale, la qualifica pubblicistica dell'attività prescinde, dunque, dalla natura dell'ente, in cui è inserito il soggetto, e dalla natura pubblica dell'impiego. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che anche i soggetti inseriti nella struttura organizzativa di una società per azioni possono essere qualificati come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l'attività della società sia disciplinata da norme di diritto pubblico e persegua delle finalità pubbliche, sia pure con strumenti privatistici (cfr.: Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv. 273781 - 01; Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257384 - 01, relativa a fattispecie nella quale si è riconosciuta la qualifica di incaricato di pubblico servizio all'amministratore di una società per azioni, operante secondo le regole privatistiche, ma partecipata da un consorzio di enti pubblici e avente ad oggetto la gestione della raccolta o lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani). Si è altresì riconosciuto che riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio il legale rappresentante di una società in relazione all'attività svolta per la manutenzione del verde pubblico e dell'arredo urbano (Sez. 6, n. 49759 del 27/11/2012, Zabatta, Rv. 254201 - 01; Sez. 6, n. 1327 del 7/07/2015, dep.2016, Caianiello, Rv. 266265 - 01) o per la riscossione di tributi comunali (Sez. 6, n. 46235 del 21/09/2016, Froio, Rv. 268127 -01).
Emerge evidente dal breve excursus effettuato che ciò che rileva è l'attività dell'ente e, posto che questa abbia caratteri pubblicistici, l'attività in concreto compiuta dal soggetto.
5.3. Focalizzando l'attenzione sul caso in esame, deve ricordarsi che con deliberazione CIPE del 18.12.1997, attuativa della L. n. 71/94, l'Ente Poste Italiane (ente pubblico economico) è stato trasformato in società per azioni.
Alla luce del processo di trasformazione, intervenuto nel corso del tempo e soprattutto a seguito della recente cessione di ingenti quote societarie mediante la quotazione nella borsa valori, Poste Italiane Spa ha perduto la sua natura di organismo di diritto pubblico, come affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte nell'ordinanza n. 8511 del 29/05/2012 (Rv. 622718 - 01). In tale pronuncia si è esclusa la natura di organismo di diritto pubblico, mancando il requisito del soddisfacimento di esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale (art. 3, comma 26, D.Lgs. n. 163 del 2006) e trattandosi di un'impresa che, seppure per un settore definito, opera in regime di concorrenza ed è quindi esposta al funzionamento naturale del mercato.
Giova rilevare che ad oggi la quasi totalità dei servizi forniti e delle attività svolte da Poste Italiane Spa e dalle sue società controllate è esercitata in regime di libero mercato in concorrenza con altri operatori privati e che anche il servizio di raccolta e spedizione cosiddetto universale, sebbene in regime di affidamento fino all'anno 2026, viene già ampiamente esercitato da operatori privati abilitati in regime di concorrenza.
Siffatta natura privatistica di Poste Italiane, tuttavia, per quanto prima detto, non osta all'eventuale riconoscimento della qualifica pubblica in capo ai soggetti inseriti nella sua struttura organizzativa.
Si può produrre, pertanto, una dicotomia tra la natura societaria dell'ente, da ritenersi del tutto privata, e coloro che amministrano tali società o che operano per le stesse, i quali possono assumere la qualità di incaricati di pubblico servizio e talora pubblici ufficiali, ai sensi degli artt. 357 e 358 cod. pen. quando l'attività della società medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche.
5.4. La giurisprudenza di legittimità - oramai da anni - ha affrontato il problema della qualifica soggettiva del dipendente di Poste Italiane Spa e ciò con particolare riferimento allo svolgimento di attività di «bancoposta».
Sul tema, avente incidenza sul caso in esame, concernente per l'appunto una dipendente dell'anzidetta società, deve ricordarsi che a fronte di alcune pronunce che qualificavano gli addetti ai servizi postali come incaricati di pubblico servizio (cfr. Sez. 6, n. 20118 dell'8/03/2001, Di Bartolo, Rv. 218903 - 01; Sez. 5, n. 31660 del 13/02/2015, Barone, Rv. 265290 - 01) e di altre contrarie, secondo cui l'attività di «bancoposta» costituisce attività privata, non dissimile da quella svolta dalle banche (cfr. Sez. 6, n. 10124 del 21/10/2014, dep. 2015, De Vito, Rv. 262746 - 01), sono intervenute sentenze che hanno adottato un approccio differente, avendo ritenuto necessario operare un'analisi specifica di ciascuna delle attività di bancoposta, elencate nel D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, all'art. 2, comma 1 (Regolamento recante norme sui servizi di bancoposta) e successive modifiche (cfr. Sez. 5, n. 32406 del 18/03/2015, Li Vigni, Rv. 265294 - 01; Sez. 6, n. 10875 del 23/11/2016, Carloni, Rv. 272079 -01).
Si è sottolineato che tra le attività di bancoposta, ivi menzionate alla lettera b), vi è anche quella di «raccolta del risparmio postale», che presenta caratteristiche distinte dalle altre, a tal punto da rendere necessaria l'applicazione alla stessa della disciplina pubblicistica. Pertanto, mentre le altre attività di bancoposta sono state equiparate ai servizi bancari o finanziari e, come tali, assoggettate sia al Testo Unico Bancario che al Testo Unico Finanza, al contrario la raccolta del risparmio postale trova la propria differente disciplina proprio nel sopracitato D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144, che all'art. 2, comma 6, dichiara l'applicabilità a tale attività della disciplina previgente ovvero il D.L. 1 dicembre 1993, n. 487 (convertito con modificazioni dalla L. 29 gennaio 1994, n. 71), relativo alla trasformazione dell'Amministrazione delle Poste e delle Telecomunicazioni in ente pubblico economico e alla riorganizzazione del Ministero, ed il D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 284, avente ad oggetto il riordino della Cassa Depositi e Prestiti. Si è affermato, quindi, che il Collegio territoriale aveva fatto corretta applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 314 cod. pen. laddove aveva ritenuto che integrassero il delitto di peculato le condotte, contestate al ricorrente nella sua qualità di direttore di un ufficio postale con riferimento al denaro, di cui egli aveva la disponibilità e il possesso ex qualitate, afferente a raccolta di risparmio postale.
Questi ultimi approdi sono stati criticati, in particolare, nella sentenza (Sez. 6, n. 18457 del 30/10/2014, dep. 2015, Romano, Rv. 263359 - 01) in cui, attraverso un analitico esame degli argomenti posti a fondamento della tesi secondo cui l'attività di bancoposta è svolgimento di un pubblico servizio, si è ribadito che l'attività di bancoposta rientra nell'ambito delle comuni attività bancarie sia perché nulla la differenzia e sia perché come tale è espressamente disciplinata (vedi D.P.R. 14 marzo 2001, n. 144).
Del contenuto di tale regolamento si è posto in evidenza che: - l'art. 2 definisce l'attività di bancoposta elencando una serie di attività di tipo bancario senza segnalarne alcuna specificità che possa valere, in termini impliciti, a far ritenere che venga esercitato un pubblico servizio; - vi è anzi una specifica parificazione di Poste Italiane Spa alle banche ai fini della applicazione del T.U.B. e del T.U.F.; - si prevede la piena separazione contabile dell'attività di bancoposta rispetto alle altre attività di Poste Italiane Spa; - i rapporti con la clientela del conto corrente postale sono disciplinati secondo le leggi civili.
Non vi è, quindi, alcuna disposizione che preveda che Poste Italiane Spa abbia condizioni di esercizio diverse da quelle ordinarie delle banche nello svolgimento di attività di tipo bancario e che preveda, quindi, che i suoi dipendenti siano incaricati di pubblico servizio. È, anzi, accuratamente disciplinato il profilo del pieno distacco contabile tra le attività bancarie e le altre (non solo postali), così limitandosi qualsiasi commistione nella gestione delle provviste dell'una e dell'altra attività.
La pronuncia richiamata ha anche confutato gli argomenti posti a base del riconoscimento della qualifica di incaricato di pubblico servizio nel caso di svolgimento di attività di raccolta del risparmio, facendo leva sul fatto che tale tesi sarebbe fondata su un evidente errore laddove si è ritenuto che le Poste agiscano «in nome» della Cassa depositi e prestiti. Si è pervenuti, quindi, alla conclusione che mancano le condizioni oggettive del pubblico servizio; non vi è alcuna previsione espressa (come invece avviene per gli addetti al servizio postale) e, ultimo argomento ma non certo minore, vi è l'assoluta mancanza di ragioni per differenziare sul piano della attività nonché sul piano della «qualità» dei fondi maneggiati, l'addetto a servizi bancari di una banca dall'addetto a servizi bancari delle Poste Spa, punendo diversamente condotte oggettivamente e soggettivamente identiche.
6. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche deve rilevarsi che, nel caso in esame, la Corte di appello ha affermato - in modo invero assertivo - che «alcun dubbio può porsi circa la sussistenza in capo all'impiegato postale, che effettua un'operazione di pagamento di tributi su incarico del cliente, della qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio: ragione per cui sussiste il reato proprio di cui si discute».
Deve rilevarsi, invece, che coglie nel segno la doglianza della ricorrente secondo cui le attività, a cui ella era adibita, non possono essere ricondotte nell'ambito di applicazione dell'art. 358 cod. pen.
La ricorrente, infatti, nell'occasione, non ha compiuto un'attività di raccolta del risparmio postale e tale circostanza non consente di considerarla come incaricata di pubblico servizio, ove pure si aderisse alla tesi - come già detto non unanimemente riconosciuta - che ravvisa in capo agli addetti a questo settore la qualifica pubblica.
Come accertato da entrambe le sentenze del merito e non contestato dalla medesima imputata, ella, nell'occasione, quale addetta allo sportello di cassa, ha effettuato un'operazione relativa al pagamento di un modello F 24.
Deve allora rilevarsi che, se è vero che la ricezione delle somme da corrispondere al fisco per il tramite dell'istituto postale è attività connessa a un interesse pubblico ed è disciplinata da norme di diritto pubblico, preordinate al soddisfacimento della finalità pubblicistica (cfr. D.Lgs. n. 241 del 1997), è altresì vero, per le argomentazioni innanzi svolte, che l'attribuibilità a un soggetto della qualifica pubblica è correlata al tipo dell'attività in concreto svolta nell'ambito della struttura organizzativa in cui è inserito.
Nel caso della ricorrente si trattava all'evidenza di mansioni meramente esecutive, per la cui concreta individuazione deve necessariamente considerarsi l'odierna e generale diffusione degli strumenti telematici, che consente l'inserimento in essi dei dati relativi all'operazione contabile del contribuente e non richiede il possesso di specifiche competenze informatiche, ma una normale attitudine al relativo impiego.
Come innanzi detto, l'elemento di discrimine tra mansioni di concetto, inerenti alla qualità di incaricato di pubblico servizio, e mansioni puramente applicative o esecutive, incompatibili con la stessa, è rappresentato dal mantenimento in capo al dipendente di una certa autonomia e discrezionalità tipiche delle prime: evenienza, questa, che, per quanto sopra osservato, non ricorre nel caso di specie.
Tale conclusione si pone sulla scia di quanto già affermato da questa Corte, laddove ha negato la sussistenza della qualifica di incaricato di pubblico servizio nel caso di un dipendente di Poste Italiane addetto ad attività di smistamento della corrispondenza, in quanto meramente materiali (v. Sez. 6, n. 46245 del 20/11/2012, D'Arnia, Rv. 253505 - 01 e Sez. 6, n. 5064 del 19/11/2013, Guarneri ed altri, Rv. 258768 - 01).
Del resto, lo stesso principio è stato affermato anche con riferimento ad attività svolte non per Poste Italiane Spa ma per un Comune, essendosi giunti alla conclusione che non riveste la qualifica di incaricato di un pubblico servizio il dipendente comunale preposto ad inserire, nel sito internet dell'ente territoriale, le pratiche edilizie già esaminate ed istruite dai funzionari addetti al settore, trattandosi dell'esercizio di un'attività meramente esecutiva, che non richiede specifiche competenze ed è priva del carattere dell'autonomia e della discrezionalità tipiche delle mansioni di concetto (Sez. 6, n. 33845 del 22/05/2014, Artuso e altri, Rv. 260174 - 01). E ancora, da ultimo, si è affermato, proprio in considerazione dello svolgimento di mansioni esecutive e compiti meramente materiali, che non riveste la qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio il dipendente di una società privata, addetto alla conduzione degli automezzi per la movimentazione dei rifiuti solidi urbani, operante alle dipendenze di una società concessionaria dei servizi comunali di ecologia, raccolta e trasporto rifiuti, appropriatosi di ingenti quantitativi di carburante (Sez. 6, n. 1957 dell'11/01/2023, D'Addetta, Rv. 284109 - 01).
6.1. Né - sempre con riguardo alla fattispecie in disamina - il rilascio al contribuente della ricevuta di pagamento del modello F 24 può valere al fine di riconoscere alla ricorrente la qualifica pubblica.
La normativa di settore prevede in particolare che il modello di versamento "F24" è predisposto in tre esemplari: i primi due sono trattenuti dalla banca concessionaria ed il terzo è rilasciato al contribuente. La banca delegata, all'atto del versamento, rilascia al contribuente il terzo esemplare del modello riportante «l'attestazione di avvenuto pagamento» o, in caso di saldo finale uguale a zero, l'attestazione di avvenuta presentazione del modello (cfr. D.Lgs. n. 241 del 1997, artt. 2 e 19; D.M. Finanze del 30 marzo 1998).
Si tratta, invero, di documenti che, rilasciati dalla banca o dalle poste concessionarie, comprovano la ricezione dell'ordine di pagare l'imposta e il versamento delle somme da corrispondere al fisco per il tramite dell'istituto bancario o postale.
Al riguardo deve rilevarsi che non si ignora che, secondo il consolidato e compatto orientamento di legittimità, gli attestati di versamento, rilasciati al cliente dalle banche delegate per la riscossione delle imposte (i così detti modelli F24), costituiscono atti pubblici, tanto che la loro falsificazione integra il reato di falsità materiale in atto pubblico di cui agli artt. 476 e 482 cod. pen. (tra le tante, Sez. 5, n. 2569 del 24/11/2003, dep. 26/01/2004, Canese, Rv. 227779 -01; Sez. 5, n. 11804 del 22/10/2003, dep. 11/03/2004, Virgulti, Rv. 228740 -01; Sez. 5, n. 5584 del 10/11/1999, dep. 12/05/2000, Cerretti, Rv. 216110 -01; Sez. 5, n. 6401 del 14/03/1990, Bordoni, Rv. 184227 - 01).
È dirimente osservare, però, ai fini che interessano in questa sede, che la ricevuta, predisposta oramai dagli strumenti telematici, è riconducibile direttamente a Poste Italiane Spa nella sua soggettività giuridica e non al singolo operatore di sportello quale soggetto che attesta per conto della società.
Significativa in tal senso è la mancanza di una firma su tali moduli da parte dell'operatore di sportello, fermi restando, da un lato, l'efficacia probatoria assicurata al contribuente circa l'intervenuto pagamento e, dall'altro lato, l'obbligo della società intermediaria (nel caso di specie: Poste Italiane Spa) dì adempiere ai suoi obblighi nei confronti dell'Ente impositore.
7. Dalla sentenza gravata, dunque, non emerge che l'imputata svolgesse compiti di natura diversa da quelli semplicemente esecutivi, né, tanto meno, che esercitasse poteri certificativi o altrimenti discrezionali, che gestisse direttamente protocolli, registri o altra documentazione finalizzata alla registrazione o alla tracciatura della posta, ovvero che a lei fossero stati assegnati compiti di collaborazione direttamente riferibili a funzioni superiori.
Dalle superiori premesse discende l'impossibilità di qualificare la condotta della ricorrente nei termini ritenuti dalla Corte siciliana.
8. Esclusa, dunque, la veste di incaricato di pubblico servizio, la condotta posta in essere dalla ricorrente, come accertata dai giudici del merito, deve essere diversamente qualificata nel meno grave reato di appropriazione indebita, senza che ciò comporti una violazione del principio del contraddittorio, avendo la stessa ricorrente contestato la qualificazione pubblicistica della sua attività e prospettato la sussumibilità dei fatti nell'alveo dell'art. 646 cod. pen.
Al riguardo giova rimarcare che la ricorrente, quale incaricata dell'incasso, disponeva delle somme di denaro per ragione del proprio ufficio o servizio e, nel caso in esame, se ne è appropriata. La sottrazione della res alla disponibilità dell'ente pubblico si è protratta per un lasso temporale ragionevolmente apprezzabile ed era comunque tale da denotare inequivocabilmente l'interversione del possesso (Sez. 6, n. 38339 del 29/09/2022, De Marco, Rv. 283940 - 01, richiamata in sentenza; di recente, nello stesso senso, Sez. 6, n. 33468 del 14/06/2023, Viola, Rv. 285092 - 01) con la volontà della medesima ricorrente di comportarsi sulla cosa "come se ne fosse la proprietaria", non rilevando la successiva restituzione, intervenuta dopo il perfezionamento del reato.
9. Deve aggiungersi che ricorre nella specie l'aggravante dell'essere il fatto stato commesso con abuso di relazione d'ufficio, ciò che - all'epoca dei fatti - rendeva il delitto procedibile d'ufficio (art. 646 cod. pen., ultimo comma, con riferimento all'art. 61 n. 11 cod. pen.).
Tale delitto è divenuto, assieme ad altri, procedibile a querela per effetto del D.Lgs. n. 36 del 10 aprile 2018, entrato in vigore il 9 maggio successivo.
Al riguardo le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. U., n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273551 - 01, in motiv.) hanno affermato che, analogamente a quanto disposto con gli interventi operati nella medesima direzione con l'art. 99 della L. n. 689/91 e, successivamente, con l'art. 19 della L. n. 205/99, è stata predisposta una disciplina transitoria (art. 12) per regolare le modalità con le quali, in relazione ai reati per i quali è mutato regime di procedibilità, la persona offesa viene messa nelle condizioni di valutare l'opportunità di esercitare nei termini il diritto di formulare l'atto propulsivo. Tale disciplina transitoria, operativa anche in riferimento ai procedimenti pendenti in cassazione, deve essere interpretata sulla scia di quanto già indicato da Sez. U., n. 5540 del 17/04/1982, Corapi, Rv. 154076 in relazione alla corrispondente norma, formulata in termini sovrapponibili, nel contesto della legge 24 novembre 1981, n. 689 (art. 99), secondo cui, per i reati commessi prima del giorno di entrata in vigore dell'anzidetta legge e divenuti perseguibili a querela, il termine di proponibilità della querela decorre, ove il procedimento non sia pendente, da detto giorno allorché la persona offesa abbia avuto in precedenza notizia del fatto mentre, in caso di pendenza del procedimento, dal giorno in cui quella persona sia stata informata dall'autorità giudiziaria, ancorché abbia già avuto notizia del fatto costituente reato. Il correttivo del secondo comma dell'art. 99 alla regola posta nel primo comma della stessa norma è da spiegare con l'intento di impedire che i procedimenti promossi per reati originariamente perseguibili di ufficio possano chiudersi con una sentenza di proscioglimento per mancanza di querela sulla base della fictio legis e non già a seguito di una formale informativa rivolta dal giudice alla persona offesa in ordine alla facoltà di esercizio della privata doglianza.
Deve però ricordarsi che nella stessa innanzi ricordata pronuncia le Sezioni unite, richiamando precedenti arresti (Sez. 5, n. 29205 del 16/02/2016, Rahul Jetrenda, Rv. 267619 - 01; Sez. 2, n. 19077 del 3/05/2011, Maglia, Rv. 250318 - 01; Sez. 5, n. 43478 del 19/10/2001, Cosenza, Rv. 220259 - 01) hanno affermato che la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione; ne consegue che tale volontà può essere riconosciuta anche nell'intervenuta costituzione di parte civile nonché nella persistenza di tale costituzione nei successivi gradi di giudizio.
Nel caso in esame, pertanto, essendovi stata costituzione di parte civile, non può pronunciarsi una sentenza di improcedibilità per difetto di querela.
10. Considerata la pena prevista per il reato di cui all'art. 646 cod. pen. e il termine di prescrizione di cui agli artt. 157,160 e 161 cod. pen. nonché i periodi di sospensione, deve invece dichiararsi il reato estinto per prescrizione.
Per tale ragione la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, ferme rimanendo le statuizioni civili.
11. L'esito del ricorso preclude l'esame del quinto motivo.
P.Q.M.
Riqualificato il fatto nel reato di cui all'art. 646 cod. pen., annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il suddetto reato è estinto per intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2024.
Depositata in Cancelleria il 3 giugno 2024.