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Reati tributari

Omesso versamento IVA: se ha causato il dissesto integra il delitto di causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose

Omesso versamento IVA

Cassazione penale sez. V, 05/04/2019, n.30735

Integra il delitto di causazione del fallimento per effetto di operazioni dolose previsto dall'art. 223, comma 2, n. 2), l. fall., l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto e dei contributi previdenziali e assistenziali che abbia causato il dissesto della società, potendo il reato fallimentare concorrere con quello tributario e con quello previdenziale in ragione della diversità sia dei beni tutelati sia della struttura dei reati.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. La sentenza impugnata è stata pronunziata il 31 maggio 2018 dalla Corte di appello di Milano, che ha confermato la decisione del Tribunale della stessa città nei confronti di C.S., B.S. e L.R.D., quali membri del consiglio di amministrazione della cooperativa San Giuseppe a r.l., per bancarotta da operazioni dolose in relazione alla società predetta, dichiarata fallita dal Tribunale di Milano il 3 marzo 2010. La condotta addebitata agli imputati come foriera del fallimento è quella di avere proseguito la gestione sociale - avente ad oggetto la prestazione di servizi di assistenza infermieristica ospedaliera e domiciliare, servizi sanitari ausiliari e di medicina del lavoro -nonostante il capitale sociale fosse già perso fin dall'esercizio 2004, di avere omesso di pagare i debiti erariali ed assistenziali per la cifra complessiva di 756.911 Euro e di avere ritardato la richiesta di fallimento. 2. Avverso detta sentenza gli imputati hanno proposto distinti ricorsi a mezzo del medesimo difensore di fiducia, articolando ciascuno quattro motivi, identici tra loro. 2.1. Il primo motivo di ciascuno dei ricorsi, dopo una premessa teorica sul reato di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2), lamenta violazione di legge sostenendo che i crediti che in sentenza si assumono inesistenti, erano invece effettivi e che la società avrebbe dovuto riceverne il pagamento, sicchè il fallimento non poteva rappresentare una conseguenza prevedibile ed evitabile. Non era stata svolta alcuna indagine sulle cause e sulle circostanze dell'omesso assolvimento degli obblighi previdenziali e retributivi in quanto era stata data per scontata la consapevolezza e volontà di cagionare il dissesto. 2.2. Il secondo motivo lamenta vizio di motivazione. Alla società spettavano aumenti contrattuali ed era in attesa del pagamento di crediti (per cui erano stati emessi decreti ingiuntivi), sicchè il fallimento non poteva costituire una conseguenza in concreto prevedibile ed evitabile. L'aumento delle contrattualizzazioni era stato effettuato per l'oggettivo aumento dei costi e sulla base di conteggi sviluppati da professionisti. Da un punto di vista contabile, non era stato posto in essere alcun artificio finalizzato ad occultare il debito verso l'Erario. 2.3. Il terzo ed il quarto motivo sostengono, rispettivamente, la sussistenza di un error iuris e di una lacuna motivazionale quanto alla mancata riqualificazione della condotta nei reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter e L. 11 novembre 1983, n. 638, art. 2 ed all'omessa motivazione sul punto. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è complessivamente infondato e va, pertanto, respinto, ma la sentenza va annullata di ufficio quanto alla durata delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c.. 2. Il primo ed il secondo motivo dei ricorsi sono inammissibili. In primo luogo, al netto delle riflessioni teoriche sulla fattispecie ascritta, essi avversano specificamente solo una parte della motivazione della sentenza impugnata quella concernente i crediti verso le altre cooperative - trascurando di contrastare quegli aspetti del tessuto argomentativo che attengono alla sussistenza dei cospicui debiti verso l'Erario e verso i dipendenti, che avevano condotto la società al fallimento; nel mancato pagamento di tali debiti per più annualità, la Corte territoriale, con motivazione priva di tratti di manifesta illogicità, ha ravvisato il precipitato della volontà degli amministratori di trattenere nelle casse sociali risorse sufficienti a far fronte all'assoluta antieconomicità dei contratti di subappalto e di proseguire, nonostante detta antieconomicità, l'attività sociale, senza tuttavia prospettive di introiti aggiuntivi; sulla scorta di questa situazione, anche senza avere particolari competenze fiscali o contabili, gli amministratori avrebbero dovuto prevedere il fallimento e, avendo, ciò nonostante, proseguito l'attività di impresa, avevano accettato il rischio che esso si verificasse. Tale interpretazione - su cui, si ripete, non confluiscono specifiche critiche, se non generiche affermazioni di disaccordo - appare rispondente all'esegesi di questa Corte secondo cui le operazioni dolose di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, possono consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell'erario e degli enti previdenziali con ogni conseguenza ipotizzabile in termini di dissesto dell'impresa a seguito delle iniziative del creditore pubblico tese alla riscossione di quanto non versato, degli interessi e delle sanzioni (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, De Mattia e altri, Rv. 273337 - 01; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046 - 01; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina e altri, Rv. 265510 - 01, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, Rv. 261684 - 01; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Belleri, Rv. 260492 - 01; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013, dep. 2014, Beretta e altri, Rv. 259997 - 01). Nella sentenza Prandini, richiamata dalla Lubrina, in particolare, la Corte ha sostenuto come non escluda la configurabilità della fattispecie incriminatrice in esame l'"autofinanziamento" operato attraverso il mancato pagamento delle contribuzioni, posto che tale espressione descrive gli effetti di breve periodo - e, in ultima analisi, la ragione pratica del comportamento, senza per questo menomare il fondamento degli effetti di medio periodo, in ragione della crescita esponenziale del debito. Quanto alla questione dei crediti nei confronti dei clienti, i ricorsi si risolvono in una contestazione in fatto circa la loro effettività che si contrappone all'enunciato della Corte di appello a proposito della loro assoluta infondatezza, ponendo il Collegio dinanzi alla impossibilità - dati i limiti del giudizio di legittimità - di verificare la rispondenza all'istruttoria dibattimentale dell'una o dell'altra conclusione in fatto. 3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso - che sostengono, rispettivamente, la sussistenza di un error iuris e di una lacuna motivazionale quanto alla mancata riqualificazione della condotta nei reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter e L. 11 novembre 1983, n. 638, art. 2 - sono infondati. 3.1. Effettivamente, quanto alla carenza motivazionale, nella sentenza impugnata non c'è riscontro alla richiesta di riqualificazione avanzata ai giudici di appello, ma la lacuna non inficia la tenuta della motivazione dal momento che il motivo di appello non solo era generico, ma era altresì infondato. Deve pertanto ritenersi che la mancanza di una risposta specifica non conduca all'annullamento della sentenza, perchè il ricorrente è privo di interesse a dolersi di una lacuna motivazionale che, in caso di annullamento, non sortirebbe alcun esito positivo nel giudizio di rinvio (Sez. 6, n. 47722 del 06/10/2015, Arcone e altri, Rv. 265878; Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014, dep. 2015, Bianchetti, Rv. 263157). 3.2. Circa le ragioni che conducono il Collegio ad escludere la praticabilità della richiesta di riqualificazione, sia come posta alla Corte di appello che come coltivata nel ricorso per cassazione - in entrambi i casi in termini particolarmente fumosi occorre svolgere alcune riflessioni. In primo luogo, la vaghezza della richiesta di riqualificazione, benchè non impedisca la devoluzione a questa Corte del tema della definizione giuridica del fatto, impone di interrogarsi su quest'ultimo in termini generali, senza potersi confrontare con eventuali prospettazioni della parte. In secondo luogo, la richiesta di riqualificazione della bancarotta da operazioni dolose nel reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter riguarda - evidentemente solo le omissioni tributarie concernenti l'imposta sul valore aggiunto, il che lascia fuori dall'ambito su cui ragionare l'omesso pagamento delle imposte dirette; peraltro la mozione trascura altresì di considerare che, secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, il passivo fallimentare non era costituito dal solo debito verso l'Erario, ma anche da quello nei confronti dei dipendenti, il che depotenzia ulteriormente la tesi che vi possa essere una riqualificazione omnibus, che consenta di ricondurre tutte le condotte ascritte all'imputato quali operazioni dolose al reato tributario e/o a quello previdenziale. Al di là di queste precisazioni, va poi osservato che la tesi del ricorrente circa la possibilità di una riqualificazione della condotta sussunta nel reato di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2), nelle fattispecie di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter e L. 11 novembre 1983, n. 638, art. 2 è errata in diritto, trattandosi di reati diversamente strutturati e caratterizzati. La bancarotta da operazioni dolose è reato di evento a forma libera, che punisce colui che compie qualsiasi atto o complesso di atti implicanti un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa; l'autore del fatto agisce con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla qualità rivestita ed accetta il rischio che la propria condotta - il che costituisce l'evento del reato possa determinare o aggravare il dissesto e quindi condurre la società al fallimento. Quanto al coefficiente soggettivo, in particolare, la fattispecie in esame si caratterizza come una "eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale" in relazione alla quale "esaurisce l'onere probatorio dell'accusa la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura "dolosa" dell'azione, costitutiva dell'operazione", a cui segue il dissesto, in una con l'astratta prevedibilità dell'evento scaturito per effetto dell'azione antidoverosa" (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247313 - 4 - 5). E' evidente, dunque, che se il fuoco dell'imputazione di bancarotta da operazioni dolose è la causazione del dissesto che determina poi le condizioni per la dichiarazione di fallimento, ci troviamo al cospetto di una fattispecie strutturalmente diversa sia da quella tributaria che da quella contributiva, che sono invece reati di mera condotta, che si perfezionano con la sola omissione del versamento delle somme dovute e nei quali manca il collegamento eziologico con il dissesto fallimentare dell'impresa cui l'omissione si riferisce. Non solo. Le fattispecie poste a confronto divergono anche sotto il profilo della ratio dell'incriminazione che, per quanto concerne la bancarotta, è quella di preservare gli interessi del ceto creditorio rispetto a condotte nocive per la salute della società, cui si contrappone, nel caso dei reati tributari e contributivi, la necessità di tutelare, rispettivamente, gli interessi dell'amministratore tributaria e di quella previdenziale, il che costituisce altro profilo di non sovrapponibilità tra le due fattispecie. Considerazioni non dissimili si rinvengono in un precedente di questa Corte (Sez. 5, n. 40009 del 23/04/2014, Conti e altri, Rv. 262212 - 01) in tema di rapporti tra bancarotta da operazioni dolose e utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, laddove si è ritenuto che difettasse la sovrapponibilità tra le due fattispecie, che non operasse neppure il criterio di specialità (dal momento che la legislazione fiscale e quella fallimentare sono entrambe speciali) e che i due corpi normativi tutelassero interessi diversi (la pretesa fiscale ed il buon esito delle procedure di riscossione, da una parte, e la tutela dei creditori, pubblici e privati, in ambito concorsuale, dall'altra). Un ragionamento analogo, ancorchè con riferimento a fattispecie diverse e della legge fallimentare e del testo unico tributario, è stato svolto da Sez. 5, n. 1843 del 10/11/2011, dep. 2012, Mazzieri, Rv. 253479 - 01, circa i rapporti tra bancarotta fraudolenta per distrazione ed il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 11. 4. Come già anticipato, la sentenza va annullata, di ufficio, per quanto concerne il profilo della durata delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., applicate per la durata fissa di dieci anni. 4.1. La necessità dell'annullamento con rinvio in punto di pene accessorie deriva dalla recente evoluzione sia della giurisprudenza costituzionale che di quella di legittimità. Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 216, u.c., L. Fall., nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei fatti di bancarotta fraudolenta importa l'applicazione delle anzidette pene accessorie per la durata fissa di dieci anni, anzichè fino a dieci anni. Il testo della norma, risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, si applica con efficacia ex tunc anche nel presente processo in corso, secondo il disposto dell'art. 136 Cost., comma 1 e Legge Costituzionale 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3. Ne consegue che oggi, a prescindere dall'assenza di uno specifico motivo di ricorso, si impone la necessità di operare una rimodulazione della durata delle pene accessorie in discorso che tenga conto del venir meno della rigidità della disposizione dichiarata incostituzionale, rigidità che rende illegale, in parte qua, il trattamento sanzionatorio. 4.2. Quanto al concreto epilogo - annullamento con o senza rinvio - del processo di adeguamento al quadro normativo ridisegnato dalla Consulta, soccorre una recentissima decisione (28 febbraio 2019) delle Sezioni Unite di questa Corte, della quale, al momento della redazione della presente decisione, non si conoscono le motivazioni. Con la citata pronunzia, al quesito "se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dall'art. 216 L. Fall., come riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, debbano essere commisurate, ai sensi dell'art. 37 c.p., alla pena principale applicata, ovvero debbano essere determinate dal giudice, nell'ambito dei limiti edittali risultanti dalla nuova formulazione, in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.", le Sezioni Unite hanno risposto che "Le pene accessorie previste dall'art. 216 L. Fall., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte Costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.". Sulla scorta di tale autorevole indicazione nomofilattica e considerato che la determinazione della durata del trattamento sanzionatorio ai sensi dell'art. 133 c.p. implica valutazioni di merito che esulano dai limiti cognitivi della Corte di cassazione, essa va rimessa al Giudice di merito. P.Q.M. annulla la sentenza impugnata, limitatamente alle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Milano; rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma, il 5 aprile 2019. Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019
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