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Reati tributari

Omesso versamento IVA: il contribuente deve dimostrare l'inattendibilità della compilazione del quadro VL

Omesso versamento IVA

Cassazione penale , sez. III , 29/11/2019 , n. 8784

In tema di reato di omesso versamento dell'i.v.a., nel caso in cui l'ammontare dell'imposta dichiarata e non versata sia indicata dal contribuente con la compilazione del quadro VL, spetta a questi dare dimostrazione dell'inattendibilità, per errore o per altra causa, della dichiarazione a fini i.v.a., senza che ciò costituisca un'inversione dell'onere della prova.

Omesso versamento IVA: quando la crisi di liquidità ha efficacia esimente

Omesso versamento IVA: sui doveri dell'imprenditore

Omesso versamento IVA: sul dolo del reato

Omesso versamento IVA: sulle differenze con il reato di ritenute dovute o certificate di cui all'art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74

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Omesso versamento IVA: va assolto l'imputato se prima della scadenza per il versamento è ammesso al concordato preventivo

Omesso versamento IVA: non sussiste se il pagamento dei crediti anteriori era stato vietato dal tribunale

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza 20.02.2019, la Corte d'appello di Lecce, sez. dist. Taranto, confermava la sentenza 30.01.2018 del tribunale di Taranto, appellata dalla C., che aveva dichiarato l'imputata colpevole del reato di omesso versamento IVA, con evasione d'imposta superiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge, in relazione al periodo di imposta 2010, in relazione a fatto commesso in data (OMISSIS), e con condanna della stessa alla pena condizionalmente sospesa di 4 mesi di reclusione, con il concorso delle circostanze attenuanti generiche. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputata, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all'Albo speciale previsto dall'art. 613 c.p.p., articolando quattro motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, quanto alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo del reato e correlato vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. In sintesi, premesso che la contestazione attiene all'omesso versamento IVA per una somma pari a poco più di 274 mila Euro, rileva la ricorrente che nel corso del giudizio di primo grado, il c.t.p. aveva sostenuto l'inattendibilità di tale importo, frutto di un controllo formale della dichiarazione, dichiarazione riscontrata dalle dichiarazioni di un teste del Pm relativamente alla tipologia di accertamenti effettuati in merito alla posizione della ricorrente. In sostanza, l'importo evaso sarebbe stato ricavato dalla dichiarazione che la società, tramite la contribuente-imputata, aveva indicato sulla propria dichiarazione fiscale, debito indicato dalla stessa ricorrente nel quadro VL della dichiarazione IVA, senza che fosse stato svolto alcun accertamento sulle modalità di indicazione seguite dalla compilatrice. Orbene, il giudice di merito, a fronte dell'eccezione difensiva, ha risposto che a fronte di una dichiarazione proveniente dalla stessa contribuente, l'inattendibilità della stessa, per errore o per altra causa, deve essere dimostrata da chi intende confutare tale forma di dichiarazione, senza che ciò costituisca un'inversione dell'onere della prova; secondo la difesa, diversamente, l'inattendibilità del dato sarebbe evincibile documentalmente dalla produzione effettuata dal PM nel corso delle richieste id prova, riferendosi in particolare al documento denominato "Prospetto degli acconti e dei versamenti periodici omessi o tardivi", in cui sono riportati gli importi dovuto per le mensilità marzo-luglio e dicembre 2010. Dalla sommatoria dei relativi importi, si osserva, emergerebbe un dato diverso all'ammontare indicato quale imposta evasa (ossia, complessivamente: Euro 276.019,00), dunque inattendibile. Si tratterebbe di circostanza rilevante, soprattutto perchè l'ammontare dell'imposta evasa sarebbe prossimo alla soglia di punibilità, discostandosene del 10 % circa; a ritenere diversamente si violerebbe il principio dell'onere della prova, con conseguente inversione a carico dell'imputato. 2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 10-ter citato, quanto alla mancata sussistenza dell'elemento soggettivo del reato conseguente all'inesigibilità della condotta, e correlato vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Premessa la giurisprudenza di legittimità in tema di irrilevanza della crisi di impresa e di liquidità, la ricorrente sostiene che nel caso in esame la situazione manifestatasi sarebbe stata particolare, in quanto la società di cui l'imputata era amministratore, sarebbe incorsa in una situazione di forza maggiore ex art. 45 c.p.. Richiamato quanto affermato dal c.t.p. nel proprio elaborato, ricorda la ricorrente che la società, dapprima, il 26.07.2013 aveva cessato la propria attività ed era stata posta in liquidazione, e che, successivamente, in data 9.04.2014 era stata dichiarata fallita. Di fatto, dunque, la crisi finanziaria che aveva colpito la società negli anni precedenti, dovuta al mancato incasso di diversi crediti verso clienti, avrebbe determinato con il passare degli anni, prima la cessazione dell'attività e poi il fallimento societario. Nel ricorso, poi, viene riportato uno specchietto curato dal c.t.p. riguardante la riclassificazione del bilancio della società alla data del 31.12.2010, da cui emergerebbe un netto peggioramento della situazione imprenditoriale protrattasi negli anni 2012 e 2013. In sostanza, secondo le considerazioni del c.t.p., la società avrebbe subito non una crisi temporanea di liquidità, ma uno stato di insolvenza latente, illustrato e documentato dal c.t.p., trovandosi nell'impossibilità di adempiere alle obbligazioni tributarie. La decisione impugnata, pertanto, non sarebbe solo errata in diritto, ma anche viziata nella motivazione, contenendo una generica dissertazione sulla forza maggiore, non aderente al caso di specie, non affrontando la specifica doglianza articolata con l'atto di appello. 2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 131-bis c.p., quanto alla mancata applicazione della causa di non punibilità del fatto di particolare tenuità e correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto. Premesso il contenuto dell'atto di appello sul punto, la difesa richiama la motivazione di rigetto del giudice, fondata sulla sistematicità della violazione posta in essere, affermazione censurabile giuridicamente e sotto il profilo motivazionale, avendo erroneamente valorizzato il giudice la circostanza che fossero stati omessi più versamenti mensili, omettendo nel contempo di apprezzare l'ammontare complessivo omesso e prossimo alla soglia di rilevanza penale, che si discostava del 10% circa. Sarebbe stato invece necessario tener conto delle modalità della condotta, sostanziatasi nel dover adempiere alle obbligazioni tributarie in costanza di uno stato di insolvenza latente della società, nonchè dello stato di incensuratezza della ricorrente, non ricorrendo elementi ostativi di sorta al riconoscimento dell'art. 131-bis c.p.. 2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 175 c.p., quanto alla mancata concessione del beneficio della non menzione, e correlato vizio di mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto. In sintesi, la ricorrente si duole per aver i giudici di appello respinto la richiesta di riconoscimento del beneficio in esame per l'assenza di elementi attestanti un principio di ravvedimento da parte dell'imputata, non essendo rilevante il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale. Si tratterebbe di motivazione censurabile perchè non avrebbe tenuto conto di quanto argomentato in sede di appello, ossia il minimo disvalore penale del fatto, tenuto conto dell'individuazione della pena base nel minimo edittale e del riconoscimento dell'art. 62 bis c.p.. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza. 4. E' anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di appello (che, vengono, per così dire "replicate" in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849). 5. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che la Corte d'appello ha, con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di impugnazione. 6. Ed invero, quanto al primo ed al secondo motivo - che, attesa l'intima connessione dei profili di doglianza, meritano congiunto esame - i giudici di appello rispondono in maniera puntuale ed adeguata alle identiche questioni già analizzate dal primo giudice, e replicate senza alcun elemento di novità critica davanti alla Corte d'appello e da ultimo davanti a questa Corte. 6.1. Dopo aver richiamato copiosa giurisprudenza di legittimità che ha sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante, la Corte territoriale giunge ad escludere correttamente l'applicabilità tanto dell'art. 45 quanto dell'art. 43 c.p. sulla base dei seguenti rilievi: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di una provvista necessaria all'adempimento dell'obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta politica/imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l'inadempimento penalmente rilevante sanzionato sia stato concausato dal mancato pagamento alle singole scadenze mensili e, dunque, da una situazione di illegittimità; d) l'inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a causa di forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico. 6.2. Alla stregua dei predetti principi, enucleati dalle decisioni di questa Corte richiamate in sentenza, i giudici di appello sono pervenuti ad escludere la forza maggiore, anche considerato che: a) era la stessa appellante ad escludere la ricorrenza di una crisi di liquidità, asserendo una sorta di progressiva e strisciante insolvenza; b) non risulta che l'appellante, invocando l'assenza del dolo, e in particolare l'esistenza di una causa di forza maggiore, avesse dato prova di quanto richiesto dalla giurisprudenza di legittimità. A ciò, prosegue la Corte di appello, deve essere aggiunta anche la considerazione che la politica della sistematica perpetrazione dell'illecito amministrativo-tributario, quale strumento di gestione della crisi aziendale, non può giustificare la forza maggiore che s'invoca al momento della scadenza del c.d. termine lungo, posto che la scelta affonda le sue radici in una situazione di persistente illegittimità voluta dallo stesso contribuente. 6.3. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze della ricorrente si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel "dissenso" sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la sentenza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realtà, si propone una doglianza non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte. Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 - dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745). Non può certo ritenersi che la sentenza si esponga a vizi motivazionali, avendo dato spiegazione dell'irrilevanza della crisi di liquidità (o, per dirla con la ricorrente, l'insolvenza latente) ed imprenditoriale. Nè, peraltro, può essere consentita davanti a questa Corte la sottoposizione di apprezzamenti fattuali, quali quelli originati dalle risultanze della c.t.p., che comunque non avrebbero alcuna rilevanza al fine di qualificare in termini di forza maggiore l'omesso versamento, ciò valendo anche nel caso in cui si accerti il successivo stato di insolvenza dell'imprenditore (Sez. 3, n. 26712 del 14/04/2015 - dep. 25/06/2015, Vismara, Rv. 264306). 6.4. Peraltro, questa stessa Sezione ha affermato che, in tema di reato di omesso versamento dell'IVA, la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l'omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell'IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l'emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019 - dep. 29/05/2019, Minardi, Rv. 275967). Infine, è costante la giurisprudenza di questa Corte nell'affermare che, in materia tributaria, la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità intervenuta al momento della scadenza del termine per il versamento (27 dicembre del successivo periodo di imposta), a meno che l'imputato non dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (v., ad esempio, in tema di violazione del D.Lgs. n. 4 del 2000, art. 10-bis: Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013 - dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055). 6.5. Palese, nella fattispecie in esame, è il mancato assolvimento di qualsiasi onere di allegazione in tal senso, ossia, da un lato l'indicazione dei motivi che hanno determinato l'emissione delle fatture antecedentemente alla ricezione del corrispettivo e, dall'altro, l'impossibilità di fronteggiare altrimenti la crisi di liquidità con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale. 6.6. Quanto, poi, alla tesi difensiva secondo cui vi sarebbe stata un'inversione dell'onere della prova nella misura in cui il reato è stato ritenuto integrato sulla base di quanto direttamente attestato nella dichiarazione IVA da parte della stessa imputata con la compilazione del quadro VL della dichiarazione IVA relativa al periodo di imposta 2010, non può che convenirsi con la corretta soluzione offerta dai giudici di merito sul punto, ossia che, a fronte di una dichiarazione proveniente dalla stessa contribuente, l'inattendibilità della stessa, per errore o per altra causa, deve essere dimostrata da chi intende confutare tale forma di dichiarazione, senza che ciò costituisca un'inversione dell'onere della prova. Del resto, si osservi, l'ammontare dell'IVA dichiarata e non versata alla scadenza del periodo di imposta successivo consegue all'indicazione dei dati relativi da parte del medesimo soggetto IVA, rispetto al quale l'A.F. non ha potere di correzione nè di verifica sostanziale, salvo ovviamente il diritto-dovere di procedere ad accertamento fiscale ove rilevi, come nel caso di specie, l'omesso versamento. Nè, peraltro, la contribuente ha mostrato di aver posto rimedio a tale presunto errore compilativo, come era pure suo diritto-dovere, mediante l'istituto del ravvedimento operoso. 6.7. Quanto, poi, al calcolo contabile operato dal c.t.p. che avrebbe determinato l'inattendibilità dell'ammontare dell'omesso versamento IVA contestato, è sufficiente rilevare come proprio la sommatoria delle singole voci riportata alle pagg. 3 e 4 del ricorso (documento denominato "Prospetto degli acconti e dei versamenti periodici omessi o tardivi", in cui sono riportati gli importi dovuti per le mensilità marzo-luglio e dicembre 2010), condurrebbe ad un dato addirittura superiore all'ammontare indicato quale imposta evasa (ossia, complessivamente: Euro 276.019,00), dunque priva di pregio è l'eccezione secondo cui l'errore avrebbe avuto riflessi in ordine al raggiungimento della soglia di punibilità, fissata ratione temporis in 250.000Euro, laddove la contestazione oggetto dell'imputazione è di poco superiore ai 274 mila Euro. 6.8. In definitiva, dunque, le doglianze difensive esposte nel primo e nel secondo motivo, più che prospettare reali vizi della sentenza, costituiscono il tentativo della ricorrente di trascinare sul terreno "del fatto" questa Corte di legittimità, dimenticando tuttavia che il controllo di legittimità sulla correttezza della motivazione non consente alla Corte di cassazione di sostituire la propria valutazione a quella dei giudici di merito in ordine alla ricostruzione storica delle vicenda ed all'attendibilità delle fonti di prova, e tanto meno di accedere agli atti, non specificamente indicati nei motivi di ricorso secondo quanto previsto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) come novellato dalla L. n. 46 del 2006, al fine di verificare la carenza o la illogicità della motivazione (Sez. 1, n. 20038 del 09/05/2006 - dep. 13/06/2006, P.M. in proc. Matera, Rv. 233783). 7. Quanto al terzo motivo, riguardante il mancato riconoscimento dell'art. 131-bis c.p. è ben vero che la Corte d'appello motiva il diniego richiamando la sistematicità della violazione posta in essere "seppure condensata nella mancanza del versamento unico", ma è altrettanto vero che le motivazioni poste a fondamento della richiesta ed esposte nell'atto di appello apparivano poco conducenti (l'aver il giudice determinato la p.b. nel minimo edittale; l'aver riconosciuto le attenuanti generiche; l'essere l‘imputata incensurata; l'aver ottenuto il beneficio di cui all'art. 163 c.p.). Ed invero, le predette circostanze, osserva il Collegio, sono idonee a denotare, alla luce dei criteri direttivi indicati dall'art. 133 c.p., la non particolare gravità del fatto o la attenuata capacità a delinquere del reo, ma non sono di per sè sufficienti per ritenere provata la particolare tenuità del fatto, che, nell'ottica del legislatore che ha introdotto la speciale causa di non punibilità, seppur non coincidente con l'inoffensività in concreto dello stesso, deve rivestire un grado di aggressione al bene protetto così ridotta da giustificare la non punibilità del fatto. Questa Corte ha già chiarito, infatti, da un lato che l'art. 131 bis c.p. ed il principio di inoffensività in concreto operano su piani distinti, presupponendo, il primo, un reato perfezionato in tutti i suoi elementi, compresa l'offensività, benchè di consistenza talmente minima da ritenersi "irrilevante" ai fini della punibilità, ed attenendo, il secondo, al caso in cui l'offesa manchi del tutto, escludendo la tipicità normativa e la stessa sussistenza del reato (Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015 - dep. 09/02/2016, Pezzato e altro, Rv. 265642). Dall'altro, che non rilevano elementi quali quelli valorizzati dalla difesa della ricorrente, essendosi infatti precisato che il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la rilevata presenza di numerosi precedenti penali non possono costituire "implicita" motivazione del mancato accoglimento della richiesta dell'imputato di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, atteso che i parametri di valutazione previsti dall'art. 131-bis c.p., comma 1 hanno natura e struttura oggettiva (pena edittale, modalità e particolare tenuità della condotta, esiguità del danno), mentre quelli da valutare ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche sono prevalentemente collegati ai profili soggettivi del reo (Fattispecie in cui il giudice di appello aveva comunque inflitto il minimo edittale della pena: Sez. 5, n. 45533 del 22/07/2016 - dep. 28/10/2016, Bianchini, Rv. 268307). 7.1. Nè rileva, peraltro, la circostanza che il superamento della soglia di punibilità, nel caso in esame, sia stato "di poco" superiore, nell'ottica difensiva, a quello stabilito per legge. Ed invero, questa stessa Sezione ha certamente ritenuto applicabile la speciale causa di non punibilità anche al delitto di omesso versamento IVA, ma riconoscendone l'applicabilità solo in quei casi in cui si tratti di un superamento realmente modesto, di poco superiore alla soglia di offensività penale prevista dal legislatore (ad esempio, riconoscendo l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. stante l'omissione eccedente la soglia di punibilità per un ammontare inferiore ad Euro 10.000 e pari al 4% circa dell'importo della soglia stessa, laddove, diversamente, nel caso qui esaminato l'ammontare è superiore ad oltre 20.000 Euro, pari al 10% circa dell'importo della soglia stessa: cfr. Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018 -dep. 25/03/2019, Canella, Rv. 276546). 8. Quanto al quarto ed ultimo motivo, relativo al mancato riconoscimento del beneficio di cui all'art. 175 c.p., i giudici ne negano il riconoscimento escludendo la ricorrenza di elementi attestanti un principio di ravvedimento da parte dell'imputata, non ritenendo rilevante il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale. Si tratta di motivazione non censurabile in diritto nè viziata sotto il profilo logico - argomentativo. Da un lato, infatti, è la stessa ricorrente a riconoscere la correttezza del ragionamento laddove giustifica il diniego ritenendo non rilevante la concessione del beneficio della sospensione condizionale, stante la diversa finalità degli istituti richiamati (da ultimo: Sez. 3, n. 51580 del 18/09/2018 - dep. 15/11/2018, M., Rv. 274106). Dall'altro, gli elementi valorizzati dalla ricorrente al fine di sostenere la ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento (modesta gravità del fatto; pena base determinata nel minimo edittale; riconoscimento delle attenuanti generiche), non sono di per sè risolutivi, atteso che per giurisprudenza pacifica la concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice sulla base di una valutazione delle circostanze di cui all'art. 133 c.p., senza che sia necessaria una specifica e dettagliata esposizione delle ragioni della decisione (Sez. 2, n. 1 del 15/11/2016 - dep. 02/01/2017, Cattaneo, Rv. 268971). 8.1. I giudici di appello, richiamando proprio l'assenza di elementi attestanti un principio di ravvedimento da parte dell'imputata, mostrano, diversamente, di valorizzare soprattutto in chiave negativa il parametro di giudizio costituito dall'art. 133 c.p., comma 2, n. 3, ossia mostrano di tenere conto della capacità a delinquere del reo desunta "dalla condotta contemporanea o susseguente al reato", non essendo pertanto sindacabile da parte di questa Corte il giudizio espresso sul punto. 9. Il ricorso dev'essere complessivamente dichiarato inammissibile. A tale proposito è il caso di precisare che manifestamente infondata, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3, non è soltanto la questione palesemente pretestuosa o artificiosa oppure quella apparente, tale cioè da presentarsi ictu oculi come inconsistente e priva di ogni ragionevolezza, o quella caratterizzata da evidenti errori di diritto nella interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastate da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l'opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell'ordinamento (da ultimo, ex multis, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep.2016, Ricci, in motiv.), situazioni processuali che non esigono perciò un particolare sforzo motivazionale per essere confutate. Manifestamente infondata è, invece, anche la questione che - pur dando luogo, sul piano logico, all'impostazione di un sillogismo - rende assolutamente vana, sul piano giuridico, la prospettazione dell'ipotesi strutturata con il motivo di ricorso, per l'assoluta inconsistenza della premessa che muove dall'interpretazione della norma o del principio giuridico invocati. Ne consegue che, ai fini della valutazione del carattere manifesto, o meno, dell'infondatezza, occorre delibare sulla solidità delle ragioni poste a fondamento della doglianza, non potendo l'ampiezza della motivazione giudiziale o la complessità e la diffusività delle argomentazioni spese dal ricorrente con il motivo di impugnazione essere ritenute logicamente incompatibili con un procedimento ermeneutico che sfoci in un'affermazione di manifesta infondatezza del ricorso per cassazione. Infatti, proprio la carenza di fondamento dell'ipotesi prospettata con il motivo di gravame può richiedere la produzione di un particolare sforzo argomentativo per sostenerla, così da esigere parallelamente un'articolata motivazione per confutarla. E ciò è quanto avvenuto nel caso in esame. 10. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stata presentata senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, nella sede della Suprema Corte di Cassazione, il 29 novembre 2019. Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2020
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