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Reati tributari

Omesso versamento IVA: non sussiste il dolo se l imprenditore ha richiesto di pagare mediante rateizzazione

Omesso versamento IVA

Corte appello L'Aquila, 16/05/2018, n.1266

Va escluso il dolo se è provato che sono state adottate tutte le iniziative necessarie a provvedere alla corresponsione del tributo.

Omesso versamento IVA: in tema di competenza territoriale

Omesso versamento IVA: questione di legittimità costituzionale

Omesso versamento IVA: non punibilità per particolare tenuità del fatto

Omesso versamento IVA: imputato assolto per fallimento e dismissione cariche sociali

Omesso versamento IVA: non punibilità per particolare tenuità del fatto

Omesso versamento IVA: particolare tenuità del fatto

Omesso versamento IVA: responsabilità del liquidatore di società

Omesso versamento IVA: questioni intertemporali

Omesso versamento IVA: annullamento senza rinvio

Omesso versamento IVA: configurabilità del dolo eventuale

Omesso versamento IVA: assenza di rapporto di specialità con truffa aggravata

Omesso versamento di IVA: causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto

La sentenza integrale

FATTO E DIRITTO Con sentenza in data 7.06.17 il Tribunale di Chieti dichiarava T.A. colpevole del reato di cui all'art 10 ter d.lvo 74/00 e, concesse le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi quattro di reclusione con i doppi benefici. Rilevava il Tribunale che a seguito di un controllo sulla posizione della soc. T. s.p.a. Costruzioni Generali era accertata la presentazione di dichiarazione IVA per il 2013 da cui risultava un debito di imposta pari ad euro 20.569.000. Detta somma non risultava però versata all'erario nei termini di legge e comunque entro il 27.12.14. Tale condotta omissiva ad avviso del Tribunale integrava il reato contestato. Era ampiamente superata la soglia di punibilità e la condotta era certamente riferibile sul piano materiale e soggettivo al prevenuto, legale rappresentante della società contribuente. Non poteva accogliersi la tesi difensiva circa la carenza del dolo. Era vero che i testi avevano riferito che la società a partire del 2012 era andata incontro ad una pesante crisi di liquidità imputabile a vari fattori, quali il calo della commesse, il fallimento o l'ammissione a concordato di vari clienti, il mancato pagamento di consistenti fatture da parte di vari enti, tra cui in particolare Autostrade per l'Italia s.p.a. Erano stati altresì riferiti vari sforzi profusi dai soci e dal T.A., anche con prestiti personali ed aumenti di capitale, che però consentivano solo di far fronte agli incombenti debitori più urgenti e vitali per la società, quali pagamento principali fornitori e dipendenti, ma tutto ciò non consentiva di pagare l'IVA nei termini. Tali emergenze però secondo il Tribunale non escludevano la colpevolezza del prevenuto. In tal senso era richiamata la giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui la crisi di liquidità non esime, a meno che venga dimostrato che siano state adottare tutte le misure per provvedere al pagamento del fisco. L'IVA riscossa andrebbe accantonata e le risorse disponibili devono essere organizzate per far fronte al debito tributario. La scelta di non pagare l'IVA, peraltro per somma consistente, provava il dolo e non era ravvisabile una situazione di forza maggiore impeditiva. La scelta di mancato pagamento quale strumento di gestione della crisi di liquidità non poteva giustificare. Tanto più che la società, se pure in crisi di liquidità, non è fallita ed anzi ha attivato procedura di rateizzazione del debito tributario in corso di adempimento. Hanno proposto appello i difensori dell'imputato. Ha sostenuto che la ricostruzione del Tribunale era errata ed incompleta. Non si era invero considerato che l'Agenzia delle Entrate aveva ammesso la società alla rateizzazione già in corso prima dello spirare del tempus commissi delicti. Infatti la società già in data 25.08.14 e quindi della verifica fiscale e prima del perfezionamento del reato contestato aveva chiesto la liquidazione dell'IVA rateizzazione cui era ammessa tanto che alla data della sentenza appellata era stata già corrisposta la somma di 10.529.459 euro con il versamento delle prime due rate già prima del 27.12.14. Secondo gli appellanti con ciò mancava la stessa materialità del reato in quanto il fisco stava e sta incamerando l'importo della imposta dovuta con la conseguenza che il bene giuridico protetto non era stato offeso con il piano di rientro già attivato prima della scadenza del termine ultimo di legge. La stessa G.d.F. in sede di verifica aveva comunque accertato la sussistenza di problemi di liquidità ed andava comunque escluso il dolo. Invero una corretta valutazione della fattispecie ad avviso degli appellanti porta a ritenere, alla luce della stessa giurisprudenza richiamata dal Tribunale, che la crisi di liquidità non possa essere invocata ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far fronte alla esigenza di organizzare le risorse disponibili su base annuale in modo da soddisfare comunque l'obbligo tributario entro il termine del 27 dicembre, potendo di contro rilevare quando il soggetto attivo, nonostante la debita organizzazione delle proprie risorse nell'anno successivo a quello di riferimento abbia comunque dovuto fronteggiare la crisi di liquidità, facendo tutto quanto nelle sue possibilità. Ed era appunto quanto avvenuto nel caso di specie. Nel caso in esame era avvenuto che il prevenuto in data 25.08.14 aveva presentato il modelli IVA per il 2013 e istanza di liquidazione. Alla data del 20.10.14 corrispondeva la prima rata del piano di rientro, per cui al 27.12.14 non vi era più alcuna protezione della omissione. Dalle testimonianze acquisite era emerso che il T.A. cercò di far fronte alla situazione debitoria cercando di ottenere finanziamenti bancari che però furono negati per la mancanza di garanzie per la rilevante somma dovuta di oltre venti milioni di euro. Il mancato pagamento nei termini fiscali era stato causato dalla situazione venutasi a creare per rilevati perdite in un appalto per imprevisti sorti nella esecuzione dei lavori e si era preferito pagare il personale, i subappaltatori ed i fornitori per evitare il blocco della attività ed il fallimento. Il mancato adempimento di tali obbligazioni avrebbe impedito l'incasso per i lavori fatti che necessita, negli appalti pubblici, di dimostrare che si è in regola con la corresponsione degli emolumenti ai dipendenti, con il versamento dei contributi e la soddisfazione dei subappaltatori. Si scelse così di posticipare il pagamento dell'IVA attrezzandosi in modo di poter accedere alla rateizzazione secondo quanto consentito dalla normativa fiscale, facendosi carico delle sanzioni e degli interessi. Si era tratto di una scelta oculata, volta ed evitare il fallimento di azienda con 600 dipendenti, che aveva consentito la prosecuzione della attività e comunque il soddisfacimento del debito tributario, il cui pagamento è tutt'ora in corso. Scelta obbligata per salvare l'azienda, tenendo al contempo conto dell'obbligo tributario da soddisfare. Hanno in tale senso evidenziato gli appellanti che diversamente opinando si perverrebbe alla assurda conseguenza di rendere esente da responsabilità l'amministratore che abbia adempiuto all'obbligo tributario causando la conseguenza più nefasta, chiamandolo di contro a rispondere nel caso in cui abbia salvato l'azienda dirottando a tal fine le risorse al momento disponibili, avvalendosi delle possibilità previste dalla legge per adempiere con diversa tempistica all'obbligo del pagamento dell'IVA. L'accesso alla rateizzazione nel temine massimo consentito dimostrava che il prevenuto organizzò le proprie risorse per garantire la prosecuzione della attività e pagare al contempo l'imposta dovuta, non potendosi disconoscere che anche la rateizzazione, consentita dalla legge, realizza una corretta modalità di adempimento dell'onere fiscale. Evidente era quindi che non vi era volontà di venir meno all'adempimento fiscale. Hanno quindi concluso per l'assoluzione peraltro riproponendo questione di legittimità costituzionale in relazione all'art 13 d.lvo 74/00. In particolare di dubita della legittimità costituzionale della norma che, introducendo la causa di non punibilità rappresentata dall'integrale pagamento del debito tributario prima della apertura del dibattimento, nel caso di pagamento rateale prevede la possibilità di sospensione del giudizio per tre mesi, prorogabile per altri tre mesi. Previsione che sarebbe irragionevole ed in contrasto con gli artt 3 e 24 della Costituzione. La impossibilità di ottenere, in casi di pagamento rateale, un termine corrispondente al tempo necessario per adempiere integralmente al piano di dilazione renderebbe impossibile la applicabilità della causa di non punibilità, e ciò per una causa indipendente dalla volontà dell'imputato. La mancata coincidenza tra i tempi della dilazione e quelli previsti dalla norma in questione porta a conseguenze palesemente irragionevoli, stante la esclusione dal beneficio per chi abbia ottenuto la dilazione tardivamente o debba corrispondere somma rilevante che meccanicamente necessita di più ampia rateizzazione che può non rientrare nel semestre massimo di sospensione del giudizio. OSSERVA LA CORTE L'appello è fondato. Il Tribunale nel negare che la situazione di crisi di liquidità sostenuta dalla difesa del prevenuto sia rilevante e possa escludere il dolo ha richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui tale condizione potrebbe essere positivamente apprezzata solo quando venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative necessarie a provvedere alla corresponsione del tributo, ma di tale assunto non ha fatto buon governo, non valutando adeguatamente quanto emerso dalla istruttoria dibattimentale. In primo luogo va detto che la difesa ha provato tramite introduzione di testi e produzioni documentali che effettivamente nell'anno di riferimento la società amministrata dal T.A. venne colpita da crisi di liquidità dovuta a cause non prevedibili, anche nella loro contemporaneità, e comunque non ascrivibili a colpa del predetto nelle sua scelte imprenditoriali. I testi avevano infatti riferito che la società a partire del 2012 era andata incontro ad una pesante crisi di liquidità imputabile a vari fattori, quali il calo della commesse, il fallimento o l'ammissione a concordato di vari clienti che quindi non avevano pagato consistenti fatture, il mancato pagamento da parte di Autostrade Italia spa. Era poi accaduto che vi era stata contrazione del credito bancario ed erano sopravvenuti imprevisti nella esecuzione dei lavori di scavo per la realizzazione del raddoppio autostradale Bologna-Firenze, con l'aggravio di ingenti costi non prevedibili. Costi che la società fu costretta a sopportare per non compromettere la prosecuzione della commessa pubblica di cospicuo valore, che la stazione appaltante al momento non riconosceva e cominciò a corrispondere solo nel corso del 2016. Vi altresì prova che in tale particolare congiuntura negativa vari sforzi furono profusi dai soci e dal T.A., anche con prestiti personali ed aumenti di capitale, che però consentivano solo di far fronte agli incombenti debitori più urgenti e vitali per la società, quali pagamento principali fornitori e dipendenti, e non di pagare l'IVA nei termini, dato il rilevantissimo importo. A tal fine il T.A. tentò di accedere a finanziamento bancario, ma senza esito, data la mancanza di garanzie personali sufficienti a coprire l'ingente somma dovuta. La direzione aziendale e quindi il T.A. fecero quanto nella loro possibilità e fu fatta la scelta di indirizzare tali sforzi prima di tutto per far fronte ai pagamenti indilazionabili al fine della prosecuzione della attività. Pagamenti dei dipendenti, dei contributi, dei subappaltarori, dei costi di cui si è detto per proseguire nella importantissima commessa pubblica del raddoppio autostradale, il cui mancato adempimento avrebbe impedito l'altro impedito l'accesso a commesse pubbliche. Vi fu quindi la scelta di organizzare e destinare le risorse disponibili, implementate anche con iniziative personali a proprio rischio il patrimonio, in modo da salvare l'azienda, e quindi ben 600 posti di lavoro, dal fallimento, senza però alcuna intenzione di disattendere le ragioni del fisco. Infatti, come visto, tempestivamente, e prima della scadenza del termine ultimo del 27 dicembre 2014, il T.A. si attivò con la richiesta di liquidazione dell'IVA e di accesso al pagamento rateale nel termine massimo consentito. Ciò ottenne e l'azienda iniziò regolarmente a corrispondere le consistenti rate mensili, anche in questo caso già prima del termine ultimo integrante il reato, tanto che ad oggi quasi più dell'importo dovuto risulta corrisposto ed in tal senso la difesa in udienza ha prodotto documenti che provano il pagamento ad oggi di ulteriori rate. Una iniziativa che, se l'importo fosse stato minore e la rate si fossero esaurite in minore tempo, avrebbe consentito di chiedere ed ottenere la sospensione del processo ai sensi dell'art 13 d.lvo 74/00. Sospensione appunto non concedibile se non per un termine complessivamente non superiore a sei mesi, con meccanismo che la difesa, non senza ragioni, ha indubbiato di incostituzionalità data l'impossibilità per il prevenuto di accedervi per cause indipendenti dalla sua volontà. Orbene, a prescindere da tale ultimo profilo, appare indubbio che quel che emerge è una scelta imprenditoriale accorta e condivisibile, che ha di fatto contemperato le diverse esigenza di far fronte alla crisi evitando il fallimento e di pagare comunque il fisco, che è con tutta evidenza incompatibile con il dolo integrante il reato, ovvero con la volontà di non pagare. D'altronde è indubbio che l'accesso alla rateizzazione è legittima modalità di pagamento, prevista dalla normativa di settore e non è quindi esatto dire che vi fu scelta di mancato pagamento quale strumento di gestione della crisi di liquidità, dato l'accesso alla rateizzazione che sta consentendo al fisco l'integrale soddisfacimento del credito tributario. E' del tutto illogico piegare contro il prevenuto il fatto che la società, se pure in crisi di liquidità, non sia fallita ed anzi sia stata attivato procedura di rateizzazione del debito tributario in corso di adempimento, come se quella che è stata una positiva iniziativa che ha salvato l'azienda possa essere apprezzata quale ragione di addebito e di prova del dolo, come fa il Tribunale. Affermare che se l'impresa non riesce a sopravvivere se non facendo ricorso a quanto incassa per l'IVA vuol dire che non è in grado di operare sul mercato e quindi, evidentemente, deve essere eliminata da esso, come taluno sostiene e come in sostanza dice il Tribunale, è affermazione che non tiene conto dell'interesse sociale e generale alla sopravvivenza dell'impresa a tutele di molteplici intessi individuali e collettivi. Interesse di rango costituzionale che va protetto al pari di quello finanziario dello Stato, che l'imprenditore giustamente persegue con tutti i tentatavi possibili se ci si muove in una prospettiva di salvataggio e ripresa delle normali dinamiche aziendali e quindi nella convinzione di poter successivamente adempiere ai propri obblighi di legge. Anzi, come visto, nel caso di specie non si è agito solo nella speranza di poter poi adempiere al debito tributario, ma ci è attivati nel contesto della complessiva strategia di organizzazione e gestione delle risorse disponibili per il suo pagamento. Alla luce di tali considerazioni va pronunciata sentenza di assoluzione. P.Q.M. Visto l'art 605 cpp, in riforma della sentenza in data 7.06.17 del Tribunale di Chieti, appellata dall'imputato T.A., assolve il medesimo dalla imputazione contestata perchè il fatto non costituisce reato. L'Aquila 11 maggio 2018
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