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Reati tributari

Omesso versamento IVA: sulla preclusione al patteggiamento per mancata estinzione del debito tributario

Omesso versamento IVA

Cassazione penale , sez. III , 12/01/2021 , n. 9083

In tema di reati tributari, la preclusione al patteggiamento posta dall' art. 13-bis, comma 2, d.lg. n. 74 del 2000 per il caso di mancata estinzione del debito tributario prima dell'apertura del dibattimento opera solo con riguardo ai più gravi reati dichiarativi di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5, richiamati dall' art. 13, comma 2 , dello stesso decreto, dal momento che, in tali ipotesi, l'integrale pagamento del debito effettuato prima del predetto termine, ma dopo la formale conoscenza, da parte dell'autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, vale solo a ridurre il disvalore penale del fatto e non esclude la punibilità, mentre non opera per i reati di omesso versamento di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, richiamati dall' art. 13, comma 1, d.lg. cit. , per i quali l'estinzione del debito determina la non punibilità e, quindi, non può valere quale condizione per accedere al patteggiamento.

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza dell'8 novembre 2019, la Corte d'appello di Firenze, decidendo il gravame proposto dall'odierno ricorrente, ha confermato la sentenza con cui, all'esito del giudizio abbreviato, egli era stato condannato alla complessiva pena di mesi dieci di reclusione in ordine ai reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater per aver omesso, quale legale rappresentante di L'Onda Società Cooperativa, il versamento delle ritenute fiscali e dell'IVA dovute in relazione a taluni anni d'imposta e per aver in un caso utilizzato in compensazione crediti IVA inesistenti. 2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo con il primo motivo l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità per non essere stato notificato all'imputato - presso il domicilio dichiarato - il decreto di citazione per il giudizio di appello, essendo stata effettuata la notificazione soltanto al difensore di fiducia, nonostante l'espressa dichiarazione resa dallo stesso difensore nell'atto di appello di non accettare le notifiche ai sensi dell'art. 157 c.p.p., comma 8-bis. 3. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione della legge penale incriminatrice e degli artt. 45 e 54 c.p., essendosi ritenuti integrati i reati nonostante l'insussistenza dell'elemento soggettivo e la ricorrenza della causa di forza maggiore o comunque dello stato di necessità, stante l'impossibilità del ricorrente di adempiere al debito d'imposta per la situazione di crisi dell'impresa a lui non imputabile. Il ricorrente adduce che l'assenza di liquidità lo aveva costretto ad omettere il pagamento delle imposte al fine di salvaguardare il posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni ai circa duecento soci della cooperativa. Si lamenta, inoltre, che la conclusione raggiunta dalla Corte territoriale poggi su una circostanza non vera, o comunque sfornita di prova, vale a dire che siano state incassate le fatture emesse dalla società nei confronti dei propri clienti. 4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione di legge per essere stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale - che in questa sede viene nuovamente proposta in via subordinata - del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13-bis, comma 2, in relazione agli artt. 3,10,24,77,101,112 e 113 Cost., per essere stata negata all'imputato la possibilità di accedere al rito alternativo ex art. 444 c.p.p. in correlazione ad un mero fatto oggettivo (il mancato pagamento del debito tributario) disancorato da valutazioni sulla condotta del medesimo. La disposizione comporta - si rileva - una irragionevole disparità di trattamento, sia tra imputati del medesimo reato, sia rispetto ad imputati di reati diversi, anche di maggior gravità ed allarme sociale, per cui la riparazione del danno non é prevista quale condizione per accedere al patteggiamento. Si rileva, inoltre, come vi sia un contrasto tra la disciplina normativa introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, che ha confermato la disposizione in parola, ed i criteri direttivi di cui alla Legge-delega n. 23 del 2014, oltre che con l'art. 10 Cost. (per violazione del principio comunitario di proporzionalità), ulteriormente con l'art. 24 Cost. (nella misura in cui si fa dipendere l'accesso al rito alternativo da valutazioni discrezionali dell'organo amministrativo rispetto all'adozione di misure conciliative) e con il principio costituzionale del giusto processo nonché con l'art. 113 Cost. (nella misura in cui induce l'imputato che voglia fruire del patteggiamento a pagare il debito e a rinunciare alla tutela giurisdizionale contro gli atti della p.a.). 5. Con l'ultimo motivo di ricorso si lamenta l'erronea applicazione degli artt. 133,62 bis, 63 e 99 c.p., per la mancata riduzione dell'eccessiva pena inflitta ed il mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti (comuni e generiche) sulla recidiva, peraltro erroneamente riconosciuta nella forma reiterata. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso é inammissibile per manifesta infondatezza. L'accesso agli atti - imposto dalla natura processuale della doglianza - ha consentito al Collegio di verificare che la notifica all'imputato del decreto di citazione a giudizio in appello, emesso il 22 luglio 2019, sebbene, in un primo momento, sia stata erroneamente effettuata a mezzo pec presso il difensore, é stata poi effettuata all'interessato, a mezzo del servizio postale, all'indirizzo presso cui il medesimo aveva eletto domicilio ((OMISSIS)), con ritiro del plico presso l'ufficio postale il giorno 1 agosto 2019. 2. Il secondo motivo di ricorso é inammissibile per genericità e manifesta infondatezza. Ad avviso del Collegio, la sentenza impugnata richiama e correttamente applica i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, essendo pacifico che il reato di omesso versamento delle ritenute fiscali e dell'IVA é integrato, siccome é a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, sicché non rileva, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, la circostanza che l'imprenditore attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti (Sez. 3, n. 3705 del 19/12/2013, dep. 2014, Casella, Rv. 258056), anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai lavoratori dipendenti. Ed invero, l'ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l'adempimento prioritario dei debiti da lavoro dipendente (art. 2777 c.c.) rispetto a quelli erariali (art. 2778 c.c.) vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della "par condicio creditorum", al fine di escludere l'elemento soggettivo del reato (Sez. 3, n. 52971 del 06/07/2018, Moffa, Rv. 274319). 2.1. A proposito della ritenuta necessità di assicurare ai dipendenti e alle loro famiglie il sostentamento, poi, é del tutto generica - e ictu oculi manifestamente infondata - la doglianza circa il mancato riconoscimento della causa di giustificazione dello stato di necessità, poiché nella specie difettano i necessari requisiti della costrizione e del pericolo di un danno grave alla persona, senza che il ricorrente effettui, sul punto, alcun tipo di specifica allegazione (cfr. Sez. 1, n. 12619 del 24/01/2019, Chidokwe Simon, Rv. 276173-02). Sotto altro angolo visuale, occorre ribadire che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono riconducibili neanche al concetto di forza maggiore, che, postulando la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione o ad un'omissione cosciente e volontaria (Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880). Questo principio trova applicazione anche con riferimento ai reati omissivi in materia di versamento di imposte, posto che, in tali casi, l'inadempimento della obbligazione può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128). 2.2 Quanto alla dedotta insussistenza del dolo, va premesso che é pacifico orientamento quello secondo cui il reato di omesso versamento, da parte del sostituto d'imposta, delle ritenute operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti si consuma alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale, in quanto é solo con il maturare di tale termine che si verifica l'evento dannoso per l'erario, previsto dalla fattispecie penale, ed é punibile a titolo di dolo generico, richiedendo la mera consapevolezza della condotta omissiva (Sez. 3, n. 25875 del 26/05/2010, Olivieri, Rv. 248151; l'orientamento ha trovato autorevole conferma nella decisione Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013, Favellato). Consapevolezza che il ricorrente non ha mai messo in dubbio. Posto che egli, sia nel gravame sia nel ricorso per cassazione, adduce a sostegno della mancanza di dolo la sostanziale inesigibilità della condotta, una volta esclusa la sussistenza di tale ultima fattispecie viene a cadere anche la prospettazione circa l'assenza di elemento soggettivo. 2.3. Del tutto logicamente, peraltro, la sentenza impugnata osserva come l'imputato - recidivo, reiterato ed infraquinquennale con riferimento a tutti i reati a lui contestati, ripetutamente commessi in ben quattro anni d'imposta (dal 2010 al 2013) - fosse avvezzo al compimento di illeciti tributari, ben prima del momento in cui fu poi accertata l'insolvenza della società. Quanto al rilievo che gli omessi versamenti attenevano a denaro che la società del ricorrente aveva comunque incassato, é del tutto generica la doglianza secondo cui nel caso di specie non vi sarebbe invece prova dell'incasso delle fatture. In ogni caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'omesso versamento dell'IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, atteso che l'obbligo del predetto versamento prescinde dall'effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore é riconducibile all'ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi (Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Rv. 278909) e che nel caso in cui l'omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell'IVA per altrui inadempimento debbono comunque essere provati i motivi che hanno determinato l'emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019, Minardi, Rv. 275967). Con riguardo all'obbligazione del versamento delle ritenute, poi, questa Corte ha già chiarito che essa non può essere giustificata, ai sensi dell'art. 45 c.p., dalla insolvenza dei debitori, essendo di pertinenza del sostituto d'imposta la decisione di distrarre a scopi diversi le somme di denaro dovute all'erario (Sez. 3, n. 3647 del 12/07/2017, dep. 2018, Botter, Rv. 272073). 3. La questione di legittimità costituzionale devoluta con il terzo motivo di ricorso non é nella specie rilevante ed é comunque manifestamente infondata in quanto poggiante su un errato presupposto interpretativo, sconfessato da un univoco orientamento giurisprudenziale di questa Corte di cui il ricorrente non tiene conto. Ed invero, anche in forza della clausola di salvezza contenuta nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13-bis, comma 2, con riguardo a tutti i reati contestati al ricorrente, l'estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento, effettuata prima dell'apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità del patteggiamento, in quanto il precedente art. 13, comma 1, configura detto comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili (Sez. 3, n. 38684 del 12/04/2018, Incerti, Rv. 273607; Sez. 3, n. 48029 del 22/10/2019, Vitali, Rv. 277466). La stessa conclusione é stata talvolta affermata anche in relazione ai reati tributari dichiarativi richiamati dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, comma 2, (Sez. 3, n. 10800 del 23/11/2018, dep. 2019, Bianconi, Rv. 277418, relativa al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5). Per questi ultimi - inizialmente soltanto i delitti di cui agli artt. 4 e 5, a seguito dell'interpolazione della norma da parte del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, conv., con modiff., dalla L. 19 dicembre 2019, n. 157, anche quelli di cui agli artt. 2 e 3 - l'orientamento di questa Corte non é tuttavia univoco e la più recente giurisprudenza ha affermato che la richiesta di applicazione della pena é in tal caso ammissibile solo quando vi sia stato l'integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell'autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali (Sez. 3, n. 47287 del 02/10/2019, Cetin Mehmet Emin Rv. 277897; Sez. 3, n. 26529 del 24/06/2002, Zaniboni, non ancora massimata). Secondo queste più recenti pronunce - v., in particolare, i rilievi contenuti nella decisione Cetin - con riguardo ai reati dichiarativi richiamati dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, comma 2, la questione dei rapporti tra adempimento del debito tributario (comprese sanzioni amministrative ed interessi) e possibilità di definire il processo con il rito dell'applicazione pena su richiesta si pone in termini diversi rispetto a quanto accade per i reati tributari di omesso versamento contemplati dal comma 1 di tale disposizione. Per i primi, infatti, la causa di non punibilità conseguente all'adempimento del debito tributario, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, opera "sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali" (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13, comma 2). Per tali gravi reati, soltanto a queste condizioni l'adempimento del debito integra gli estremi di una spontanea condotta resipiscente che può giustificare la rinuncia alla punibilità. Laddove queste condizioni non si perfezionino - e nei confronti del contribuente sia esercitata l'azione penale - una successiva condotta riparatoria che si concretizzi nell'adempimento del debito tributario, delle sanzioni e degli interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, varrà invece a ridurre il disvalore penale del fatto, consentendo di fruire della circostanza attenuante di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13 bis, comma 1 e di accedere al rito del patteggiamento, ed ai correlativi benefici premiali, a norma del successivo comma 2. Stante la diversa disciplina prevista per reati di omesso versamento puniti ai sensi degli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater, le disposizioni di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13 bis, primi due commi, sono invece agli stessi inapplicabili, poiché l'adempimento tributario, con le sanzioni amministrative e gli interessi, intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento determina senz'altro la non punibilità e, quindi, non può valere quale condizione per accedere al patteggiamento. Non essendo pertanto ragionevole ritenere che tale categoria di reati sia radicalmente esclusa dal rito semplificato - ciò che in effetti, anche per le ragioni addotte dal ricorrente, determinerebbe un ben fondato dubbio di legittimità costituzionale della disciplina normativa così interpretata - deve pertanto concludersi che la disposizione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 13 bis, comma 2, pur di non felice formulazione, sia ad essi inapplicabile, in tal senso dovendo interpretarsi la clausola finale della stessa laddove "fa salve" le ipotesi di cui all'art. 13, comma 1. La diversa conclusione che le più recenti pronunce di questa Corte hanno invece tratto con riguardo ai delitti richiamati nel comma 2 di tale disposizione si giustifica per la già segnalata diversità della disciplina e - come bene messo in evidenza nella citata decisione Cetin - anche per la maggior gravità di tali reati. Deve inoltre considerarsi che nel caso di delitti di omesso versamento, il contribuente ha presentato una dichiarazione fedele e non si pongono questioni di accertamento dell'entità del debito contributivo, che potrà essere recuperato attraverso le ordinarie azioni di responsabilità erariale, agevolmente esperibili almeno con riguardo alla non contestata sussistenza del debito nell'an e nel quantum. In relazione ai più gravi delitti dichiarativi, non é invece irragionevole e, comunqué , rientra nella discrezionalità legislativa - subordinare l'accesso al patteggiamento ad un ravvedimento operoso che, pur indotto dalla "scoperta" del reato (e perciò ovviamente non bastevole ad escludere la punibilità), valga almeno ad escludere la prosecuzione del contenzioso fiscale. La legittimità della richiesta di applicazione pena avanzata dall'imputato con riguardo ai reati di omesso versamento ed indebita compensazione al medesimo addebitati non poteva pertanto essere esclusa in ragione della mancata estinzione del debito e, a fronte dell'ingiustificato dissenso del pubblico ministero, egli ben avrebbe potuto affrontare il dibattimento onde ottenere, al termine, l'applicazione della pena ai sensi dell'art. 448 c.p.p., comma 1, ult. parte. Avendo invece optato per la richiesta del giudizio abbreviato, poi fruendo della riduzione di un terzo della pena connessa alla scelta di tale rito, l'imputato ha liberamente scelto una diversa strategia difensiva che gli ha pertanto impedito di coltivare quella prospettiva, ciò che peraltro non determina problemi di legittimità costituzionale (cfr. Corte Cost., ord. n. 225 del 4-24 giugno 2003). 4. L'ultimo motivo di ricorso é del pari inammissibile per genericità e manifesta infondatezza, risolvendosi, in larga misura, anche in una non consentita richiesta di rivalutazione, nel merito, della decisione impugnata. 4.1. In particolare, quanto alla contestazione circa l'insussistenza della recidiva reiterata specifica, basti osservare come la Corte territoriale abbia valutato che l'imputato era già recidivo reiterato rispetto ad ogni reato di cui all'imputazione e la doglianza proposta sul punto é priva della necessaria specificità, non allegando il ricorrente quali fossero le condanne precedentemente riportate e per quali ragioni le stesse non consentissero di ritenere la recidiva reiterata. 4.2. Il giudizio circa il fatto che - valutati il tipo di devianza e la contenuta distanza temporale - i reati sub iudice fossero sintomo effettivo di elevata capacità a delinquere, sì da non consentire l'esclusione della recidiva reiterata, non viene parimenti contestato in ricorso, sicché la previsione di cui all'art. 69 c.p.p., comma 4, osta a che le concesse circostanze attenuanti generiche possano essere ritenute con giudizio di prevalenza. 4.3. Avendo i giudici di merito valutato le particolarità del fatto e la crisi del settore ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, la pena base fissata, peraltro prossima al minimo edittale, ed il contenuto aumento per la continuazione sono stati ritenuti equi anche in relazione all'evidenziata capacità a delinquere. La doglianza al proposito mossa é dunque inammissibile posto che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicché può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell'obbligo di motivazione, per assolvere il quale, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, é sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197). 5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2021. Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2021
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