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Reati tributari

Omesso versamento IVA: la somma da versare in caso di mancato versamento IVA è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente

Omesso versamento IVA

Cassazione penale sez. III, 17/11/2017, n.14595

Ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell'IVA di cui all'art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l'entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili.

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Omesso versamento IVA: il dolo è integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità

La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Il sig. S.A. ricorre per l'annullamento della sentenza del 27/03/2017 della Code di appello di Milano che, in parziale riforma di quella del 03/03/2014 del Tribunale di quello stesso capoluogo, lo ha assolto dal reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis, commesso il (OMISSIS), perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, e ha ridotto la pena (principale) nella misura di otto mesi di reclusione (oltre pene accessorie) per il residuo reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, a lui ascritto perchè, quale liquidatore della società "Ital Momet System S.r.l.", aveva omesso di versare, entro il 27/12/2010, l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa all'anno di imposta precedente, per un ammontare pari a 254.345,00 Euro. 1.1.Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, e vizio di motivazione contraddittoria o mancante in ordine alla sussistenza del reato. Lamenta, in particolare, che la Corte di appello ha omesso di esaminare la tabella riepilogativa del fatturato 2009, redatta dal curatore del fallimento, che dimostra che l'IVA non versata era pari a 248.551,60, un importo inferiore alla nuova soglia di punibilità introdotta nelle more del giudizio di secondo grado dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 8. La sentenza liquida la produzione documentale come non meglio precisati "dati forniti dalla società" e cita a sostegno della ribadita affermazione di responsabilità i diversi importi rilevati dal Tribunale dalla dichiarazione annuale, che indicano una somma da versare pari a 218.876,00 Euro, comunque inferiore alla nuova soglia di punibilità. Il che sarebbe stato sufficiente anche ad escludere il dolo del reato visto che nel 2009 non era il legale rappresentante della società e non gli sono attribuibili, nè materialmente, nè psicologicamente, gli omessi accantonamenti mensili. 1.2.Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione dell'art. 131-bis c.p., e vizio di motivazione contraddittoria o mancante in ordine alla sussistenza dell'invocata causa di non punibilità, esclusa a causa dei suoi precedenti penali, ritenuti sussistenti in base ad un evidente errore di fatto. Le precedenti tre condanne, infatti, sono relative a omessi versamenti di somme per importi ormai "sotto soglia"; tali reati sono stati dichiarati estinti in sede esecutiva. Residua pertanto una sola condanna, non ostativa alla applicazione della speciale causa di non punibilità. Con motivo aggiunto ha dedotto che anche tale condanna è stata revocata in sede esecutiva. 1.3.Con il terzo motivo, deducendo l'errata lettura del certificato del casellario giudiziale, eccepisce l'eccessiva severità del trattamento sanzionatorio, la mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche e dei doppi benefici ed eccepisce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione della legge penale in ordine al trattamento sanzionatorio e vizio di mancanza motivazione sul punto. Diritto CONSIDERATO IN DIRITTO 2. Il ricorso è infondato. 3. Il primo motivo è infondato. 3.1. Ai fini della integrazione del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, è necessario e sufficiente che l'imposta sul valore aggiunto non versata sia quella "dovuta in base alla dichiarazione annuale". Il dato testuale è chiaro; il debito erariale non deve risultare dai registri delle fatture emesse o dalle fatture o dalla contabilità di impresa o, ancora, dal bilancio: il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto è solo quello oggetto della dichiarazione annuale. La presentazione della dichiarazione, infatti, costituisce un presupposto necessario ai fini della consumazione del reato (in questo senso, espressamente, Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, in motivazione; nonchè Sez. 3, n. 6293 del 14/01/2010, n.m.), tant'è che l'autore del reato deve necessariamente rappresentarsi che l'oggetto della condotta omissiva è esattamente (ed esclusivamente) il debito dichiarato, non quello risultante aliunde (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, secondo cui la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine previsto). Questa Corte ne ha tratto la conseguenza che poichè il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, presuppone che il debito IVA risulti dalla dichiarazione del contribuente, esso non è integrato qualora nella stessa dichiarazione sia esposto un credito tributario (Sez. 3, n. 38487 del 21/04/2016, Reale, Rv. 268012; Sez. 3, n. 40361 del 19/09/2012, Facecchia, Rv. 253680). Il tema della non corrispondenza del debito dichiarato (superiore alla cd. "soglia") con quello che risulta dalla contabilità dell'impresa (in ipotesi ad essa inferiore) non ha perciò alcuna rilevanza posto che, come già detto, la fattispecie, per chiara scelta legislativa, non è strutturata intorno al debito effettivo, ma solo a quello dichiarato. Le discrasie tra il debito erariale dichiarato e quello effettivo hanno il proprio terreno elettivo nei reati in materia di dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2,3 e 4, i quali ben possono concorrere con quello di cui all'art. 10-ter. 3.2. Nel caso di specie risulta, dal testo della motivazione della sentenza impugnata, che il debito erariale dichiarato era complessivamente pari a 254.345,00 Euro, che tale ammontare, così come dichiarato, non era (e non è) mai stato oggetto di contestazione, che il pagamento dell'acconto pari a 35,469,00 Euro in essa riportato non corrispondeva al vero (affermazione non contestata nemmeno con l'odierno ricorso), che autore della dichiarazione è l'odierno imputato. La circostanza che l'imputato non fosse il legale rappresentante della società nell'anno di imposta oggetto della dichiarazione annuale non ha alcuna rilevanza posto che, come già detto, quel che rileva, ai fini della sussistenza del dolo (generico), è la consapevole omissione del versamento dell'imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale che, nel caso di specie, era stata da lui stesso presentata l'anno prima. 4.Sono infondati anche il secondo motivo di ricorso ed il correlato motivo aggiunto. 4.1. Il Collegio intende ribadire e dare continuità al principio secondo il quale, in tema omesso versamento di IVA, la causa di non punibilità della "particolare tenuità del fatto", prevista dall'art. 131-bis c.p., è applicabile soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, fissata a 250.000 Euro dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015, dep. 2016, Reggiani Viani, Rv. 266570; Sez. 3, n. 40774 del 05/05/2015, Falconieri, Rv. 265079). Perchè l'offesa possa essere ritenuta di particolare tenuità occorre che il danno sia esiguo e, dunque, secondo il significato letterale del termine, scarso, trascurabile, quasi insignificante. Lo scostamento di 4.345,00 Euro rispetto alla soglia di punibilità non può affatto definirsi "esiguo", come invece sostiene il ricorrente (sia pure ai fini della contestazione del trattamento sanzionatorio). Si tratta di considerazione che assorbe le questioni proposte dall'imputato circa la non abitualità della condotta, ancorchè correlate alle ragioni del diniego opposto dalla Corte di appello. 5.Anche l'ultimo motivo è infondato. 5.1.Nel rideterminare il trattamento sanzionatorio (otto mesi di reclusione) la Corte di appello ha valutato, a favore dell'imputato, il modesto superamento della soglia di punibilità e, a suo sfavore, i precedenti penali specifici (quattro condanne di cui due per il reato di omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali, due per il reato di omesso versamento). Anche per questa ragione ha negato la applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la concessione dei doppi benefici. 5.2. Il ricorrente propone, quale unico argomento difensivo, la errata valutazione a suo danno dei precedenti penali per reati tutti "medio tempore" depenalizzati; le relative condanne - deduce - sono state revocate, sicchè, conclude, esse non sono (e non erano) ostative alla applicazione delle circostanze attenuanti generiche e dei doppi benefici. 5.3. Il rilievo è infondato. 5.4.Le circostanze attenuanti generiche non sono oggetto di un diritto con il cui mancato riconoscimento il giudice di merito si deve misurare poichè, non diversamente da quelle "tipizzate", la loro attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti. Sicchè il loro diniego può essere legittimamente giustificato con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell'art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini, Rv. 260610; Sez. 1, n. 3529 del 22/09/2013, Stelitano, Rv. 195339). Certamente in sede di appello è necessario che il giudice dell'impugnazione si confronti anche con gli argomenti devoluti a sostegno del più mite trattamento sanzionatorio rivendicato dall'imputato purchè tali argomenti siano connotati dal requisito della specificità (Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694; Sez. 1, n. 707 del 13/11/1997, Ingardia, Rv. 209443; Sez. 1, n. 8677 del 06/12/2000, Gasparro, Rv. 218140; Sez. 4, n. 110 del 05/12/1989, Buccilli, Rv. 182965). 5.5.Della specificità di tali argomenti e della loro effettiva devoluzione al giudice dell'appello è necessario che l'imputato dia prova e specifico conto nel ricorso per cassazione con il quale si duole del malgoverno dell'art. 62-bis c.p. e del relativo vizio di motivazione, non essendo in alcun modo sufficiente il generico richiamo alla "pluralità di fattori emersi dall'istruttoria dibattimentale (...) oltre al concreto comportamento processuale". Nè questa Corte può sostituirsi all'imputato nella ricerca, tra le pieghe dell'appello, delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno della richiesta di attenuazione della pena della cui esistenza nemmeno la Corte di appello dà conto. 5.6. A non diversi rilievi si espongono le critiche alla mancata concessione dei doppi benefici, negati in sede di merito a causa dei plurimi precedenti ritenuti ostativi ad un giudizio prognostico favorevole. Ai fini di tale giudizio, infatti, occorre aver riguardo "alle circostanze indicate nell'art. 133" (art. 164 c.p.) e, dunque, anche alla capacità a delinquere come desumibile da tutti gli elementi di cui al secondo comma, non solo i precedenti penali e giudiziari, ma anche dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato. Il fatto che l'imputato abbia reiteratamente posto in essere condotte analoghe a quella per la quale si procede rende non manifestamente illogica la prognosi negativa di futura astensione dal reato, a prescindere dalla sopravvenuta penale irrilevanza di tali condotte (in questo senso Sez. 5, n. 34682 del 11/02/2005, Marisca, Rv. 232312; Sez. 3, n. 17660 del 03/03/2004, Cani, Rv. 229115; Sez. 6, n. 35176 del 05/07/2001, Magrini, Rv. 220106; Sez. 2, n. 3377 del 03/02/1997, Bonetta, Rv. 207552). 5.7. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. PQM P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 17 novembre 2017. Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2018
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