RITENUTO IN FATTO
1. Da.Al. ricorre, a mezzo dei difensori di fiducia, avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 4/12/2023 che ha confermato la condanna inflitta al ricorrente dal Tribunale di Napoli in ordine ai reati di usura aggravata.
Con cinque motivi la difesa deduce i vizi di legittimità di seguito indicati.
1.1. Violazione degli artt. 603 e 495, comma 2, cod. proc. pen. in ordine alla mancata rinnovazione parziale del dibattimento con riguardo:
- all'escussione del consulente di parte che aveva ricostruito, sulla scorta dei documenti e delle dichiarazioni delle persone offese, i rapporti professionali ed economici intercorrenti tra questa e l'imputato. Si trattava di un teste ammesso in primo grado ma non sentito poiché a seguito della mancata ed ingiustificata comparsa al processo, la difesa vi aveva rinunciato stante l'esigenza del Tribunale di chiudere celermente il processo e ritenendo comunque già acquisiti elementi di prova che avrebbero portato all'assoluzione dell'imputato;
- all'acquisizione della documentazione comprovante i precedenti annoverati da una delle persone offese (il Bo.) e sullo stato di bisogno di entrambe; all'esame di una di queste (il Me.) riguardo ad una conversazione - intervenuta con l'imputato e da questi registrata - nel corso della quale il Me., dopo il processo di primo grado - aveva chiesto al ricorrente del denaro affinché modificasse la versione dei fatti. Si trattava di acquisizioni probatorie sopravvenute ed acquisiti a seguito di investigazioni difensive.
1.2. Violazione dell'art. 644 cod. pen., in relazione agli artt. 187 e 192 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di usura ai danni del Bo. (1 episodio di cui all'imputazione).
La doglianza, sollevata sotto il profilo del mancato rispetto delle regole di valutazione della prova ad opera del giudice del merito, attiene al giudizio di attendibilità della persona offesa (il Bo.) che la difesa decisamente contesta anche con richiami giurisprudenziali, con particolare riguardo all'esistenza di un tasso usurario a fronte dei prestiti ricevuti dall'imputato e non onorati, e alla valenza degli elementi addotti dal giudice del merito a conferma della versione resa (il ritrovamento di due dei tre assegni emessi dal Bo. all'ordine dell'imputato).
Né la maggiore verosimiglianza del narrato della p.o. poteva trarsi dal fatto che non avesse mai denunziato l'imputato e si fosse limitato a chiedere l'intervento dei Carabinieri allorché il ricorrente gli aveva dato appuntamento per restituire parte delle somme, ovvero che non si fosse costituito parte civile.
Censurabile era pure la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto inverosimile che parte della somma destinata all'imputato fosse volta al pagamento di onorari in conseguenza dell'attività di commercialista svolta in suo favore (circostanza confermata anche dal Bo.) sul rilievo che fosse sproporzionata, quando invece corrispondeva ai minimi tariffari.
In conclusione, mancava un accertamento sulla natura usurarla del prestito affidata al solo dichiarato, del tutto inattendibile, della p.o. (posto che lo stesso consulente del pubblico ministero aveva escluso che dalla documentazione in atti fosse possibile ricostruire l'esistenza di un rapporto usurario), reso con l'intento di liberarsi dalle pressanti richieste dell'imputato di far fronte al pagamento dei prestiti soprattutto dopo che era andato protestato il primo assegno che il Bo. aveva rilasciato.
1.3. Violazione dell'art. 644 cod. pen., in relazione agli artt. 187 e 192 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di usura ai danni del Me. e omessa valutazione del contenuto delle presunte bollette (non ricevute).
Anche rispetto alla testimonianza resa da questa persona offesa, la difesa muove specifiche censure in ordine al giudizio di attendibilità espresso con riferimento alla genesi del narrato (aderente a quanto prospettato dagli inquirenti soprattutto con riguardo al significato da attribuirsi alla documentazione sequestrata presso lo studio dell'imputato, inopinatamente ricondotta a dimostrazione dell'esistenza di un rapporto usurario), alle incongruenze ravvisabili nel racconto dei fatti, alla natura usuraria del tasso di interessi praticato e all'assenza di rilevanza dei riscontri che il giudice del merito aveva ritenuto di individuare nella documentazione rinvenuta presso l'imputato che, lungi dal costituire delle ricevute di pagamento (non essendo nemmeno sottoscritte), era costituita da appunti relativi alla documentazione contabile afferente alle società del Me. che l'imputato, quale commercialista custodiva nel suo studio.
1.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza delle aggravanti contestate. Eccezione di prescrizione del reato.
Si censura la validità e la pertinenza degli elementi indicati dal giudice di merito a sostegno dell'esistenza dello stato di bisogno in capo alle persone offese.
1.5. Violazione di legge e carenza di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. La Corte di merito aveva disatteso gli indici positivi costituiti non solo dall'incensuratezza dell'imputato, ma anche dal fatto che le vicende erano sorte su iniziativa delle presunte persone offese e nate nel contesto di una non professionalità e nell'ambito di rapporti personali professionali dovuti all'attività di commercialista svolta dall'imputato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è inammissibile.
2. I motivi dedotti in ordine all'attendibilità delle persone offese si risolvono nella reiterazione di censure già svolte con l'atto di appello e disattese dalla Corte di merito con motivazione congrua e scevra da vizi di legittimità.
In particolare, dalla lettura della sentenza impugnata risulta che la Corte territoriale non si è limitata a porre a fondamento dell'affermazione di responsabilità il dichiarato delle persone offese (Bo. e Me.), ma ne ha saggiato il contenuto alla luce degli altri elementi di prova acquisiti.
Quanto alla vicenda Di Bo., si è anzitutto richiamato, quale elemento dimostrativo della spontaneità, la circostanza che l'indagine non trovi il suo antecedente in una denuncia, bensì in una richiesta di intervento rivolta dalla p.o. ai Carabinieri per il timore di subire violenze da parte dell'imputato a seguito di reiterate richiesta di restituzione del denaro. Si tratta di un argomento non affatto privo di rilievo in quanto è stato letto in continuità con l'esito del monitoraggio svolto dai Carabinieri che ha consentito di riscontrare la consegna del denaro tra la p.o. e l'imputato, avvenuta presso un hotel di P (ove la p.o. svolgeva l'attività di guardiano delle macchine). Si è, infatti, sottolineato come la causale illecita della dazione rinvenga anche una conferma nelle modalità in cui è avvenuta, del tutto inadeguate per la riscossione di un credito lecito derivante da asserite prestazioni professionali rese dall'imputato in favore dell'offeso.
A ciò si è aggiunto il dato, particolarmente significativo, dell'esito della perquisizione eseguita presso l'abitazione dell'imputato che ha consentito di rinvenire, in una cassaforte collocata nell'armadio della camera da letto e, dunque in un ambiente finalisticamente estraneo a quello deputato allo svolgimento dell'attività professionale, una somma considerevole di denaro contante e numerosi assegni privi di intestatario per un importo assai notevole, nonché un quaderno riportante appunti e ricevute. Anche in questo caso, l'aver attribuito il giudice del merito a detto elemento valenza di conferma del narrato non sconta alcuna illogicità, in relazione al loci ove il denaro e gli assegni sono stati rinvenuti e in ragione dell'assenza di un'allegazione che riconducesse dette somme a causali differenti.
Peraltro, decisivo appare anche il richiamo al rinvenimento di due assegni riferibili alla persona offesa, in coincidenza con quanto da questa dichiarato che ha riferito i titoli (ben tre, di cui uno non rinvenuto perché con scadenza anteriore e già mezzo all'incasso) al pagamento del debito usurario.
Inoltre, si è anche esclusa qualsiasi interferenza derivante da un asserito, ma indimostrato, tenore di vita della p.o. che sarebbe stato incompatibile con il ricorso al prestito, financo usurario, sottolineandosi, al contrario, come la modesta attività lavorativa svolta (guardiano di macchine presso un hotel), i problemi di salute e l'intervenuto decesso del padre, fossero condizioni idonee a determinare il sorgere di una situazione di difficoltà economica tale da costringerlo a ricorrere al prestito a tassi usurari, non essendo in grado di onorare gli assegni rilasciati all'imputato.
Infine, motivatamente si è disattesa la tesi difensiva, volta a ricondurre le dazioni ad atti continuativi di liberalità, non solo perché priva di idoneo riscontro documentale (v. pagg. 6 e 7), ma anche perché in certi tratti inverosimile alla luce dei rapporti poi venutisi ad instaurare tra le parti a seguito dell'arresto dell'imputato.
La circostanza, poi, che la persona offesa sia gravata di precedenti penali non determina alcuno status di ontologica inattendibilità del dichiarato, sia perché non risulta che tali precedenti condanne attengono a delitti contro l'amministrazione della giustizia sia perché il codice di rito non ne stabilisce alcuna incompatibilità con l'ufficio di testimone, salvo che i precedenti siano connesso con il reato.
Ad analoghe conclusioni può pervenirsi con riferimento al propalato dell'altro teste di accusa, laddove il riferimento alla causale usuraria dei prestiti ottenuti -che si avvale sia della convergenza del narrato dell'altro teste stante il medesimo contesto fattuale della vicenda, nonché delle dichiarazioni degli altri testimoni che si sono comunque rivolti all'imputato per ottenere prestiti (v. pag. 17 sentenza di primo grado) - è stato anche avvalorato dall'esito dal rinvenimento, nel corso della perquisizione subita dall'imputato di cui si è detto, di documentazione a cui, in ragione del contenuto e delle spiegazioni rese dalla stessa p.o. (v. pag. 7-8), è stata riconosciuta la valenza di ricevute delle illecite negoziazioni. Anche in tal caso, la sentenza impugnata ha motivatamente escluso la verosimiglianza della tesi difensiva dell'imputato, osservandosi che la documentazione mal si presta -anche in ragione delle modalità di confezionamento, ad essere ricondotta all'attività di fiscalista che l'imputato svolgeva a favore della ditta della p.o. (v. pag. 8), per come anche avvalorato dal loci del rinvenimento.
La convergenza del narrato delle propalazioni accusatorie, non disgiunte dagli ulteriori elementi di contorno pur declinati dal primo giudice che avvalorano l'esistenza di un contesto del tutto incompatibile con una tesi difensiva che vuole ricondurre le erogazioni a ragioni altruistiche ovvero professionali, esclude che incorra in vizi di legittimità il diniego opposto dalla Corte di merito alla rinnovazione dell'esame del Me.. Peraltro, dalla lettura del relativo motivo di appello che contiene l'istanza di rinnovazione, non affatto illogica risulta la motivazione resa dalla Corte di merito che ha fondato il rigetto sul fatto che non ne sarebbe dato cogliere la rilevanza ai fini della decisione. Invero, nel motivo si fa riferimento ad alcune controverse telefonate effettuate dal Me. all'imputato e da quest'ultimo registrate successivamente all'emissione della sentenza di primo grado, ma nulla si specifica quanto al contenuto.
Né può colmarsi la genericità del motivo di appello con l'odierno motivo di ricorso per cassazione, ove è stata specificato l'oggetto delle interlocuzioni tra i due. È, infatti, inammissibile, ai sensi dell'art. 606, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione che deduca una questione che non ha costituito oggetto dei motivi di appello, tale dovendosi intendere anche la generica prospettazione nei motivi di gravame di una censura solo successivamente illustrata in termini specifici con la proposizione del ricorso in cassazione (Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, RV. 280306 -01).
Le sentenze di merito risultano, pertanto, avere fatto corretta applicazione del principio affermato dalla Corte di legittimità secondo cui in tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 2, n. 21135 del 26/03/2019, S., RV. 275312 - 01).
Del resto, in tema di valutazione della prova va rimarcato che l'attendibilità della persona offesa dal reato è una questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo "id quod plerumque accidit", ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (Sez. 4, n. 10153 dell'11/02/2020, C., RV. 278609 - 01). Altrimenti trasformandosi il giudizio di legittimità in una prosecuzione di quello di merito, mediante una rilettura non consentita delle emergenze processuali.
3. Parimenti congrua motivazione si rinviene nella sentenza impugnata a proposito della natura usuraria del tasso di interesse applicato, essendosi al proposito valorizzato sia il dichiarato delle persone offese, sia l'esito della consulenza tecnica svolta dal pubblico ministero i cui esiti - confacenti al tema di accusa - risultano illustrati a pag. 17 della sentenza di primo grado.
Con la conseguenza che correttamente si è ritenuto superfluo procedere all'escussione del c.t. della difesa, a cui si era rinunziato nel corso del processo di primo grado. Al riguardo, oltre alla genericità del contenuto dell'istanza - avendo rilevato la sentenza impugnata che "nulla è specificato dall'appellante in ordine al contenuto della deposizione del consulente di parte per apprezzarne l'indispensabilità ex art. 603, comma 1, cod. pro. Pen. (e non potendosi ravvisare la decisività nella mera indicazione del tema oggetto dell'indagine di parte, dovendosi, invece, in sede di impugnazione, precisare gli specifici argomenti che avrebbero inficiato le circostanze già acquisite) - assume decisivo rilievo quanto affermato in materia di usura dalla Corte di legittimità:
- la testimonianza della persona offesa in ordine alla natura esorbitante degli interessi praticati sui prestiti può costituire, di per sé, la prova dell'integrazione dell'elemento oggettivo del reato, senza che sia necessaria, nella motivazione della sentenza, l'indicazione degli elementi di dettaglio del prestito usurario. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna basata sulle dichiarazioni della persona offesa, che aveva sostenuto di aver corrisposto, a fronte dei prestiti ricevuti, interessi in misura del 10% mensile, senza che risultasse precisato qual era, al momento, il tasso soglia dell'usura e quali erano i tempi concordati per la restituzione del prestito).(Sez. 2, n. 10191 del 15/12/2023, dep. 2024, Cimmino, RV. 286053 - 01).
- per la configurabilità del reato di usura è necessario che sussistano gli estremi della esorbitanza del tasso di interesse praticato, dello stato di bisogno della persona offesa e della conoscenza di tale stato da parte dell'agente. La prova di tali elementi può ritenersi raggiunta anche in base alla sola misura degli interessi, qualora siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto in stato di bisogno possa contrarre il prestito alle predette condizioni (Sez. 2, n. 1207 del 17/06/1986, dep. 1987, Sarachella, RV. 174967 -01).
4. Anche il profilo circostanziale del reato si sottrae ai vizi di legittimità denunziati.
È principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che lo stato di bisogno della parte lesa del delitto di usura può essere provato anche con la sola misura degli interessi, nel caso in cui siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che solo un soggetto in tale stato possa contrarre il prestito a condizioni tanto inique e onerose (sez. 2, n. 51670 del 23/11/2023, Spada, RV. 285670 - 01; Sez. 2, n. 21993 del 3/03/2017, Surgo, RV. 270064 - 01
Nel caso in esame, il giudice del merito, oltre ad avere richiamato l'entità elevata del tasso di interesse preteso da entrambe le persone offese, ha fatto altresì riferimento alle condizioni gravose dei prestiti stante anche lo stretto arco temporale per la restituzione, nonché alle difficoltà di tipo economico in cui versavano sia il Bo. che il Me. (v. pag. 9).
In tema di usura - e di tale principio risulta avere fatto corretta applicazione la sentenza impugnata - lo stato di bisogno va inteso non come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito a condizioni usurarie, non assumendo alcuna rilevanza né la causa di esso, né l'utilizzazione del prestito usurario (ex multis, Sez. 2, n. 43713 dell'11/11/2010, Galante, RV. 248974 - 01).
Quanto, poi, all'ulteriore aggravante di cui al n. 4) del comma 5 dell'art. 644 cod. pen., la circostanza è stata correttamente ricavata dal contesto di fatto in cui è maturato il prestito usurario, tenuto conto dell'attività imprenditoriale svolta dal Me. e della crisi di liquidità in cui si trovava la sua impresa.
5. Manifestamente infondato è anche il motivo sul diniego delle attenuanti generiche, in quanto reiterativo di quello di appello. L'assenza di elementi decisivi di carattere positivo distinti dall'assenza di precedenti penali soddisfa l'onere di motivazione, alla luce del principio affermato dalla Corte di legittimità secondo cui il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, RV. 270986).
Peraltro, la Corte di merito a sostegno del diniego ha anche richiama elementi di gravità e disvalore del fatto.
6. Manifestamente infondata è, infine, l'eccezione di prescrizione del reato, stante la presenza delle due circostanze aggravanti di cui ai numeri 3) e 4) del quinto comma dell'art. 644 cod. pen. che portano la durata del termine massimo di prescrizione ad anni diciotto e mesi nove (fatti sono al 30/04/2011), non ancora decorsi alla data della presente sentenza.
7. In conclusione, va dichiarata l'inammissibilità del ricorso, con condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa per le ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 23 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2024.