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Rifiuto di atti di ufficio: consumazione del reato con inerzia omissiva e permanenza fino a cessazione dell’interesse

Rifiuto atti di ufficio

Cassazione penale sez. VI, 07/11/2022, n.49116

Il reato di rifiuto di atti di ufficio previsto dal primo comma dell'art. 328 c.p., che si realizzi in forma implicita per il protrarsi dell'inerzia omissiva, si consuma sin dal momento iniziale in cui si manifesta il ritardo non più giustificabile dell'atto dovuto ma, finché perdura l'interesse al compimento dell'atto stesso, continua la permanenza, che si interrompe solo nel momento in cui la situazione antigiuridica viene meno per fatto volontario dell'obbligato o per altra causa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto correttamente individuato il "dies a quo" del termine prescrizionale nella data dell'ultimo sollecito al deposito della relazione di consulenza inviato dal Tribunale al tecnico).

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La sentenza integrale

RITENUTO IN FATTO 1. Con il provvedimento in epigrafe indicato, la Corte d'appello di Salerno ha confermato la sentenza emessa in data 2 luglio 2020 dal Tribunale di Vallo della Lucania con cui P.A. è stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione per il reato di cui all'art. 328 c.p., perché in qualità di consulente tecnico di ufficio in un procedimento civile ometteva di consegnare la sua relazione nel termine stabilito prorogato fino al 18 ottobre 2012 e di restituire gli atti ricevuti in dipendenza dell'incarico nonostante le formali successive richieste del Tribunale, fino all'ultima sollecitazione del 23 settembre 2014. 2. Tramite il proprio difensore di fiducia, P.A. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Con il primo motivo deduce vizio della motivazione e violazione di legge per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto accertata la conoscenza da parte dell'imputato della richiesta di sollecito sebbene mai pervenuta al destinatario. In particolare gli inviti/solleciti del 11 aprile 2013, 21 novembre 2013 e 11 marzo 2014 che hanno preceduto la diffida del 23 settembre 2014, oltre a non avere la natura formale di una diffida, non sono stati neppure recapitati all'imputato, e più precisamente, quella del 11 aprile 2013 avrebbe la natura di un invito e non di una formale diffida, quella del 21 novembre 2013 non è stata notificata personalmente al P. ma alla madre, qualificata come convivente senza in realtà esserlo, quella dell'11 marzo 2014 non è mai stata ricevuta dal P., essendo la firma di sottoscrizione diversa da quella dell'imputato come si evincerebbe dal raffronto con quella relativa alla notificazione eseguita il giorno 11 aprile 2013. Con riferimento alle attestazioni di notifica si obietta, inoltre, che la loro natura di atti fidefacenti fino a querela di falso non impedisce al giudice penale di vagliarne autonomamente la veridicità, nel caso da escludersi sia con riferimento alla qualità di convivente della madre e sia per l'autenticità della firma di sottoscrizione da parte dell'imputato. 2.2. Con il secondo motivo deduce vizio della motivazione e violazione di legge in relazione alla intervenuta prescrizione del reato, dovendosi individuare il tempo di consumazione alla data dell'11 aprile 2013 dell'unica diffida firmata di pugno dall'imputato, essendo irrilevanti le successive diffide, perché non comunicate personalmente all'imputato. 2.3. Con il terzo motivo deduce vizio della motivazione in merito alla configurabilità del reato sotto il profilo della necessità di una formale diffida ad adempiere non essendo sufficiente il mero ritardo per inosservanza del termine previsto per il compimento dell'atto. 2.4. Con il quarto motivo deduce vizio della motivazione e travisamento della prova in merito alla ritenuta accertata mancata restituzione degli atti e omesso deposito della relazione, anche sotto il profilo dell'ultravalenza temporale dell'assunta condotta omissiva oltre il termine cristallizzato in contestazione e mai modificato, con conseguente nullità per diversità del fatto. 2.5. Con il quinto motivo deduce violazione di legge in merito alla sospensione della prescrizione per astensione del difensore senza considerare l'assenza dei testi. 2.6. Con l'ultimo motivo si censura il diniego del beneficio di cui all'art. 131-bis c.p. tenuto conto del ritardo con cui il Giudice civile non ha provveduto a sostituire il C.T.U. revocandogli l'incarico. 3. Si deve dare atto che il ricorso è stato trattato, ai sensi dell'art. 23, commi 8 e 9, D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, senza l'intervento delle parti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso va rigettato perché nel suo complesso infondato. Innanzitutto deve rilevarsi la manifesta infondatezza dei primi tre motivi perché muovono dalla errata assimilazione delle due distinte ipotesi di reato previste dall'art. 328 c.p., al primo e comma 2, attribuendo rilevanza al carattere formale delle diffide quale condizione per la integrazione del reato, sebbene sia evidente che la condotta contestata si riferisca alla ipotesi di reato prevista dal comma 1 dell'art. 328 c.p.. I due commi del citato articolo descrivono, infatti, due distinte ipotesi di reato. Il comma 1 punisce la condotta del pubblico ufficiale che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica di ordine pubblico o di igiene e sanità deve essere compiuto senza ritardo. Il comma 2 punisce il pubblico ufficiale che, fuori dei casi precedenti, entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo. Nella prima ipotesi, in ragione dell'incidenza degli atti su materie specifiche (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene o sanità), il mancato sollecito compimento dell'atto entro il più breve tempo possibile (ovvero "senza ritardo") poiché incide su beni di valore primario, integra di per sé il reato, la cui consumazione coincide con la omissione del provvedimento dovuto in assenza di giustificazioni. Nella seconda ipotesi, oltre a prevedersi un ambito operativo residuale rispetto al comma 1 ("Fuori dei casi previsti dal comma 1"), ai fini della integrazione della fattispecie, è necessario il concorso di due condotte omissive costituite dalla mancata adozione dell'atto entro trenta giorni dalla richiesta scritta della parte interessata e la mancata risposta sulle ragioni del ritardo. Si tratta pertanto di due ipotesi autonome e del tutto distinte tra loro, sicché è evidente che nei casi di cui al comma 1 non assume rilevanza la richiesta della parte interessata al compimento dell'atto, atteso che anche la semplice inerzia rispetto ad una attività che per legge deve essere compiuta senza ritardo, può integrare l'indebito rifiuto che è pacificamente configurabile anche in caso di inerzia omissiva che, ritardando il compimento dell'atto oltre i termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito, non essendo necessaria una manifestazione di volontà solenne o formale (vedi, Sez. 6, n. 10051 del 20/11/2012, Nole', Rv. 255717). 2. Appare, quindi, evidente la conseguente inammissibilità delle censure non devolute davanti alla Corte di appello, in merito alla ritualità delle notificazioni degli inviti/solleciti del 11 aprile 2013, 21 novembre 2013 e 11 marzo 2014 che hanno preceduto l'ultima diffida del 23 settembre 2014, di cui non sarebbe stata accertata la ricezione della stessa da parte del destinatario. Era, infatti, preciso onere dell'appellante devolverne la verifica nel giudizio di merito, assumendo ciascuno di tali solleciti rilevanza probatoria non già quale presupposto formale per la integrazione della fattispecie contestata, ma unicamente per dimostrare l'assenza del dolo da parte del pubblico ufficiale rimasto inerte, e quindi per escludere che l'inerzia equivalesse ad un indebito volontario rifiuto di compiere l'atto dovuto, costituito, nel caso in esame, dal deposito della consulenza e dalla restituzione degli atti processuali presi in carico per l'espletamento dell'incarico ricevuto dal Giudice e non adempiuto. Al contrario l'appellante ha attribuito rilevanza decisiva alla verificata insussistenza di una sola delle diffide, ed in particolare a quella del 23 settembre 2014, ritenuta l'unica ad avere il contenuto di una formale diffida, disposta per posta elettronica e che sarebbe stata l'ultima delle sollecitazioni inviate al consulente di ufficio. Essendo l'inerzia un dato già sufficiente ad integrare la condotta omissiva punita dal comma 1 dell'art. 328 c.p., a prescindere dall'invio di una formale diffida, era onere della difesa fornire la prova sotto il profilo del dolo che tutte le sollecitazioni rimaste senza risposta e non solo l'ultima non fossero pervenute a conoscenza dell'imputato. Quindi le doglianze con cui il ricorrente mette ora in discussione, in questa sede di legittimità, per la prima volta la natura fidefacente delle notificazioni che attestano la regolare ricezione delle sollecitazioni da parte dell'imputato, assumendo di non avere avuto interesse a dolersene nei motivi di appello, sono palesemente inammissibili, poiché in realtà investono un tema di prova che andava introdotto nel corso del giudizio di merito di primo grado e che non può essere dedotto per la prima volta in sede di ricorso per cassazione. Non può ritersi un tema di prova nuovo quello che investe profili fattuali che andavano vagliati nel corso del giudizio di merito, essendo onere della difesa, a fronte del mancato deposito della consulenza nei termini di legge e delle regolari notifiche dei conseguenti solleciti, fornire una giustificazione di tale condotta omissiva, non limitandosi a contestare l'assenza della prova della ricezione di un atto formale avente i caratteri della diffida, disinteressandosi delle altre plurime richieste di sollecito inviate al consulente. L'invio o meno di un formale atto di diffida costituisce un dato fattuale irrilevante per l'integrazione del reato contestato che fa riferimento al reato previsto dall'art. 328, comma 1, c.p.p., per il mancato deposito della relazione di consulenza entro il termine già prorogato del 18 ottobre 2012, e quindi ad un comportamento omissivo protrattosi dopo i successivi solleciti, tra cui l'ultimo quello del 23 settembre 2014, e che è proseguito ben oltre, anche nel corso del giudizio penale, non avendo l'imputato, fino alla data della sentenza di appello (22 aprile 2022), fornito alcuna giustificazione al mancato adempimento dell'ordine di restituire gli atti, oltre a non avere mai depositato la relazione di consulenza. Va ricordato con riferimento all'ipotesi di cui all'art. 328, comma 1, c.p., che il dovere di compiere l'atto qualificato senza ritardo sorge non per effetto di una richiesta, ma in forza dell'avveramento di una situazione corrispondente a quella astrattamente prevista dalla specifica norma giuridica: è la legge che, in funzione della natura dell'interesse da soddisfare, impone di adottare l'atto senza ritardo, perché già il mero mancato tempestivo compimento determina un'offesa allo specifico interesse protetto (vedi, Sez. 6, n. 7766 del 09/12/2002, Masi, Rv. 223958). 3. Altro discorso va fatto con riguardo alla determinazione del momento consumativo del reato, ai fini della verifica della decorrenza del termine di prescrizione del reato. Sotto tale profilo, una volta ritenute inammissibili le censure sulla effettiva ricezione delle richieste di sollecito, delle stesse deve necessariamente tenersi conto ai fini della della prescrizione del reato, in quanto rilevanti ai fini della individuazione del tempo di consumazione, nei termini e per le ragioni di seguito illustrate. Il tema che viene qui in esame è quello della struttura del reato di rifiuto di atti d'ufficio di cui all'art. 328, comma 1, c.p.. La giurisprudenza ne ha sempre affermato la natura di reato a consumazione istantanea (Sez. 6, n. 43903 del 13/07/2018, Mango, Rv. 274574; Sez. 6, n. 27044 del 19/02/2008, Mascia, Rv. 240979; Sez. 6, n. 35837 del 26/04/2007, Civisca, Rv. 237706; Sez. 6, n. 12238 del 27/01/2004, PG in proc. Bruno ed altri, Rv. 228277). Si è detto che il reato di rifiuto di atti di ufficio consiste nel mancato adempimento di un'attività doverosa, per il compimento della quale è fissato un termine unico finale e non soltanto iniziale, essendo il soggetto obbligato all'adempimento appena possibile, sicché la consumazione del reato si verifica nel momento stesso in cui si è verificata l'omissione o è stato opposto il rifiuto. L'agente è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun rilievo l'ininterrotta protrazione dell'inattività individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia giuridica a detta persistenza e nemmeno all'eventuale desistenza (in tal senso, Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, Fusco, Rv. 211569). Quindi, essendo il termine considerato non solo iniziale ma anche finale (Sez. 6, n. 7766 del 09/12/2002, Masi, Rv. 223955) si è precisato, che, proprio per tale natura, l'omissione può essere "di breve o di lunga durata" senza che ciò incida sulla configurabilità e sussistenza del reato, potendo tale profilo essere solo "funzionale piuttosto ad apprezzare, ai fini del trattamento sanzionatorio, la condotta post delictum dell'agente". Questo principio è stato poi ribadito con riguardo al caso di inerzia protrattasi anche oltre il termine di scadenza previsto per il compimento dell'atto dovuto (Sez. 6 n. 1657 del 12/11/2019, Villani, Rv. 277587), essendosi affermato che, ove la violazione del dovere si protragga in relazione a più obblighi giuridici svolgentisi nel tempo, si concretizzeranno più ipotesi dello stesso reato, eventualmente riunite ex art. 81 c.p. quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui ad esplicare i suoi effetti negativi e l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare. Va osservato che la qualificazione come reato continuato comporterebbe la necessità, ai sensi dell'art. 158, comma 1, c.p., di dichiarare la prescrizione in relazione alle condotte omissive manifestatesi prima del mese di aprile 2013, dovendosi tenere conto delle date di consumazione dei singoli reati in coincidenza delle date dei diversi solleciti, considerato che ad ogni sollecito corrisponderebbe un distinto reato. A tale riguardo va anche osservato, per inciso, che nel caso in esame tale problematica sarebbe solo teorica e priva di interesse, essendo stata irrogata una pena unitaria nel minimo di legge (mesi quattro di reclusione) senza alcun rilievo alla continuazione sul piano sanzionatorio. 4. Ritiene il Collegio di doversi comunque discostare da tale orientamento per dare seguito alle regole generali in tema di consumazione del reato omissivo, la cui configurabilità come reato istantaneo con effetti permanenti o piuttosto come reato eventualmente permanente dipende proprio dalla persistenza dell'interesse al compimento dell'atto dovuto, seppure tardivo. Non si ritiene condivisibile, infatti, l'affermazione secondo cui l'art. 328, comma 1, c.p. fisserebbe un termine non solo iniziale ma anche finale per l'adempimento, essendo anzi vero il contrario, poiché la norma fa solo riferimento ad un atto che "deve essere compiuto senza ritardo", il che non significa affatto che la protrazione del ritardo costituisca un post factum rilevante solo ai fini della valutazione della gravità del fatto sul piano del trattamento sanzionatorio. Al contrario, va osservato che nel caso in cui permanga l'offesa del bene protetto anche dopo la scadenza del termine per l'adempimento, la protrazione del ritardo anche oltre detta scadenza assume rilevanza come condotta omissiva fino all'adozione dell'atto dovuto, e quindi il reato si configura come reato omissivo eventualmente permanente, perché già consumato dal momento in cui l'inerzia ha assunto la valenza dell'indebito rifiuto. Fermo restando che è il connotato di indifferibilità dell'atto che qualifica la nozione di rifiuto penalmente rilevante, l'inerzia omissiva del pubblico ufficiale assume intrinsecamente valenza di rifiuto e integra quindi la condotta punita dall'art. 328, comma 1, c.p. non soltanto quando ricorra una sollecitazione soggettiva, ma anche quando si verifichi comunque una emergenza di natura oggettiva, che imponga l'adozione dell'atto, senza ulteriore temporeggiamento. L'indifferibilità dell'atto va, poi, valutata in relazione al caso concreto ma tale connotazione non equivale ad inutilità del compimento tardivo dell'atto, atteso che ciò che rileva è la situazione di pericolo concreto che si determina per effetto dell'omissione, configurandosi il reato di rifiuto di atti di ufficio come reato di pericolo e non di danno (Sez. 6, n. 8870 del 15/12/2021, Mineo, Rv. 283378; Sez. 6, n. 13519 del 29/01/2009, Gardali, Rv. 243684). Come è stato già efficacemente detto " per dare concretezza e specificità alla formula utilizzata dal legislatore ("... deve essere compiuto senza ritardo"), è sufficiente verificare se il tardivo compimento dell'atto doveroso determini un effettivo pericolo per lo specifico interesse tutelato che, nella specie, è il bene "giustizia": l'espressione "senza ritardo" va intesa come sinonimo di "immediatezza", la quale si materializza come dovere incombente sul p.u. in relazione a tutte le circostanze del caso concreto " (Sez. 6, n. 7766 del 09/12/2002, Masi, Rv. 223958). Quindi è la valutazione della rilevanza della tempestività del compimento dell'atto che attribuisce rilievo penale al ritardo, atteso che il rifiuto assorbe in sé il ritardo quando questo si traduca in una situazione di concreto pericolo per la tutela del bene implicato, che nel caso di specie è dato dal corretto andamento della funzione giudiziaria e specificamente dall'interesse alla celere definizione del procedimento civile in cui assumeva rilievo il tempestivo deposito della relazione di consulenza tecnica di ufficio. Ciò ovviamente non significa che il reato si consumi automaticamente sin dalla scadenza del termine entro il quale l'atto deve essere compiuto, atteso che la norma non punisce il mero ritardo, inteso come inosservanza di un termine anche se perentorio, ma il ritardo che si manifesti in forma di rifiuto indebito dell'atto e quindi solo quando l'inerzia silente del pubblico ufficiale si prolunghi in modo non più tollerabile oltre la scadenza di detto termine, il che accade quando l'entità del ritardo, valutato alla stregua di tutte le circostanze del caso e dell'ordinamento di riferimento, generi una situazione di concreto pericolo per l'interesse tutelato. 5. Tale orientamento è stato seguito nella giurisprudenza di questa Corte di Cassazione in una recente decisione al fine di individuare il dies a quo del termine di prescrizione per il reato di cui all'art. 328, comma 1, c.p.p. (vedi, Sez. 6, n. 16483 del 15/03/2022, Marcelli, Rv. 283151). E' stato in particolare affermato che il momento consumativo coincide con l'adozione dell'atto dovuto nel caso in cui "l'inerzia silente del pubblico ufficiale che, senza alcuna giustificazione, protragga il compimento dell'atto oltre i termini prescritti dalla legge (...), in particolare, quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale, ma rimaste senza esito, la condotta omissiva in essere continui ad esplicare i propri effetti negativi e solo l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare". Ritiene il Collegio di ribadire il principio che il reato di rifiuto di atti d'ufficio, nel caso di inerzia omissiva, si consuma sin dal momento iniziale in cui si manifesta il ritardo non più giustificabile dell'atto dovuto e che, finché perduri l'interesse al suo compimento, la permanenza del reato prosegua e si interrompa solo nel momento in cui la situazione antigiuridica viene meno per fatto volontario dell'obbligato o per altra causa. 6. Nel caso in esame, quindi, le sollecitazioni inviate al consulente tecnico di ufficio non assumono rilevanza come plurime ipotesi di reato in continuazione, ma come manifestazione della persistenza dell'interesse al compimento dell'atto sia pure tardivo, con la conseguente permanenza del reato finché perduri la situazione di pericolo per l'interesse tutelato, quindi ben oltre la scadenza del termine ultimo di proroga entro il quale il consulente avrebbe dovuto depositare la propria relazione (18 ottobre 2012). Le date dei ripetuti atti di sollecito, compresa anche l'ultima del 23 settembre 2014, oltre a definire unitamente a tutte le variabili del caso concreto il momento a decorrere dal quale il mero ritardo assume la valenza di rifiuto penalmente rilevante, assumono rilievo anche al fine di verificare la permanenza del reato che prosegue finché persiste l'interesse dell'Autorità Giudiziaria al deposito anche tardivo della relazione di consulenza, essendo evidentemente maggiore l'offesa ove il ritardo si prolunghi in modo del tutto ingiustificato anche dopo che sia già insorta una situazione di pericolo concreto per lo specifico interesse tutelato, tenuto conto di tutte le circostanze del caso. Trattandosi di elementi utili a perimetrare la durata nel tempo della permanenza del reato, quali indici della persistenza dell'interesse al compimento tardivo dell'atto da parte dell'Autorità Giudiziaria, la loro rilevanza può prescindere dalla notificazione all'imputato allorché sia oramai certa la consumazione del reato per effetto dell'accertato indebito rifiuto di compiere l'atto dovuto ed il ritardo abbia assunto - come nel caso in esame in cui nessuna giustificazione è stata offerta neppure a distanza di anni dalla scadenza del termine concesso - una dimensione tale da rendere superflui ogni ulteriore sollecito o richiesta dell'atto dovuto. Corretta, pertanto, deve ritenersi l'indicazione del tempus commissi delicti sì come contestato nell'imputazione fino alla data del 23 settembre 2014, con il logico corollario che alla data della sentenza impugnata (22 aprile 2022) il correlativo termine prescrizionale di anni sette e mesi sei (cui deve altresì aggiungersi l'ulteriore periodo di un anno e cinque mesi di sospensione del processo dal 3 maggio 2018 al 3 ottobre 2019) non era affatto spirato. 7. Risulta, per quanto osservato, manifestamente infondata anche la doglianza relativa alla mancata correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che l'imputazione è rimasta anche formalmente inalterata e le specifiche occasioni prese in considerazione dalla Corte di merito per valutare la sussistenza dell'omissione penalmente rilevante erano tutte a conoscenza dell'imputato fin dalla fase successiva all'articolazione formale dell'accusa e da cui ha potuto ampiamente difendersi. Peraltro, va ribadito che la data rilevante per la integrazione del reato è quella che coincide con i primi solleciti adottati a distanza di un anno dalla scadenza del termine prorogato per il deposito della relazione di consulenza che segnano l'inizio della condotta omissiva rilevante, mentre le date dei successi, solleciti servono, come sopra chiarito, solo ai fini della perimetrazione temporale della durata della permanenza del reato che alla data del 23 settembre 2014 non poteva ancora ritenersi cessata, non essendo a quell'epoca ancora intervenuta la revoca dell'incarico e la nomina di altro consulente. 8. Manifestamente infondati sono gli ultimi due motivi di ricorso. Con riferimento alla sospensione della prescrizione per astensione del difensore, non è stato affatto dimostrato che le udienze siano state rinviate per assenza dei testimoni, risultando l'astensione dei difensori l'unica causa di rinvio dell'udienza, né essendo stato precisato se alle udienze fossero presenti testimoni da assumere, né all'opposto se la loro eventuale assenza sia dipesa dalla mancata citazione in ragione della comunicata adesione da parte del difensore all'astensione. Quanto al diniego del beneficio di cui all'art. 131-bis c.p. il carattere reiterativo delle doglianze del ricorrente volte a rimettere in discussione il dolo e la consapevolezza da parte dell'imputato dei solleciti per il deposito della consulenza, rendono evidente l'inammissibilità del motivo, essendo peraltro del tutto privo di rilievo anche il segnalato ritardo del Giudice civile per la revoca dell'incarico, quasi che la responsabilità per l'inadempimento dell'incarico peritale fosse da imputare al Giudice per non averlo revocato piuttosto che al consulente. Correttamente i presupposti per configurare la invocata causa di esclusione della punibilità sono stati ritenuti inesistenti dai Giudici di merito per un fatto di reato le cui forme di realizzazione presentano evidenti tratti di gravità intrinseca, specie in considerazione del rilevante grado di offensività prodotto dalla prolungata inerzia omissiva che ne ha caratterizzato le modalità di estrinsecazione. 9. In conclusione, sulla base delle considerazioni or ora esposte, il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 7 novembre 2022. Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2022
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