RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'Appello di Brescia, ha confermato la sentenza emessa dal GUP del Tribunale di Bergamo in data 17.2.2021 con cui Za.Ni. è stato condannato, all'esito di rito abbreviato, alla pena di mesi dieci di reclusione per il reato di stalking aggravato nonché di diffamazione, commessi ai danni della ex moglie Ro.Pa.
Nei confronti dell'imputato, invece, è stata dichiarata l'estinzione per remissione di querela di un altro reato di diffamazione (il capo e dell'imputazione), commesso nei riguardi del comandante dei carabinieri della stazione di Za.Ni.ca, ove in più occasioni la sua ex coniuge si era recata per denunciarne i comportamenti.
È stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinata alla partecipazione, per un periodo pari alla sua durata, ad uno specifico percorso di recupero presso l'associazione "(Omissis)" di Brescia, con termine per l'inizio, al più tardi, entro due mesi dal passaggio in giudicato della sentenza d'appello.
L'imputato, infatti, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, ha attuato una campagna persecutoria contro l'ex coniuge - in conseguenza della separazione e dell'affidamento della figlia minorenne alla madre - molestandola, minacciandola e diffamandola gravemente (con riferimenti pesanti alla sfera sessuale della donna e feroci attacchi alla sua reputazione), attraverso il social network "facebook" e la posta elettronica, indirizzando i messaggi a lei stessa oppure a suoi conoscenti o parenti oppure ancora a soggetti terzi, utilizzando anche profili "social" creati appositamente.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato, mediante il difensore di fiducia, deducendo un unico motivo.
Il ricorrente si duole soltanto della statuizione relativa alla subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena alla partecipazione al corso di recupero per gli autori di reati di cui all'art. 612-bis cod. pen., obbligatoria ai sensi dell'art. 165, quinto comma, cod. pen. soltanto a partire dalle modifiche peggiorative introdotte alla citata disposizione dall'art. 6, comma 1, legge n. 69 del 2019 e, dunque, inapplicabile in via retroattiva - stante la natura penale sostanziale della norma del codice penale - ai fatti di reato commessi antecedentemente alla sua entrata in vigore, come è quello di specie, cristallizzato dall'imputazione nel periodo di tempo dal 15.6.2016 al 18.9.2017.
Il difensore evidenzia di non aver dedotto la violazione di legge con l'atto di appello ma invoca i poteri della Corte di cassazione di agire d'ufficio, ai sensi dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., per rimediare a statuizioni che si risolvono in una pena illegale, come - afferma la difesa - nel caso di specie.
3. Il Sostituto Procuratore Generale della Corte di cassazione ha chiesto l'inammissibilità del ricorso con requisitoria scritta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
2. La questione che pone il ricorrente è collegata alla novità normativa introdotta dall'art. 6, comma 1, legge n. 69 del 2019, disposizione che ha aggiunto un quinto comma all'art. 165 cod. pen., con cui si prevede che, nei casi di condanna per il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. (uno dei molti contemplati dalla norma, in un catalogo di delitti rapportabili al fenomeno della cd. violenza di genere, catalogo ulteriormente incrementato con la legge 27 settembre 2021, n. 134), la sospensione condizionale della pena venga obbligatoriamente subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati.
La norma in esame è stata definita dal ricorso come contenente una disposizione di carattere penale sostanziale, poiché gli obblighi in essa stabiliti incidono negativamente sull'afflittività della sanzione, aggravandola, sicchè essa, per il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (art. 25, comma 2, Cost. e art. 2 cod. pen.), non poteva essere applicata al caso, come quello di specie, di chi abbia commesso il reato prima della sua entrata in vigore.
Dall'art. 25, secondo comma, Cost., discende, infatti, tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato. Tale interpretazione, siglata da molte pronunce della Corte costituzionale (per tutte, si richiamano le sentenze n. 223 del 2018 e n. 364 del 1988), è funzionale sia a garantire la ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui il destinatario della norma si esporrà trasgredendo il precetto penale, sia a consentirgli - nell'ipotesi in cui venga instaurato un procedimento penale a suo carico - di compiere scelte difensive, con l'assistenza del proprio avvocato, sulla base di ragionevoli ipotesi circa i concreti scenari sanzionatori a cui potrebbe andare incontro in caso di condanna.
Il divieto di applicazione retroattiva di pene non previste al momento del fatto, o anche solo più gravi di quelle allora previste, opera come uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico che stanno al cuore stesso del concetto di "stato di diritto", che evoca immediatamente la soggezione dello stesso potere a una "legge" pensata per regolare casi futuri, e destinata a fornire a tutti un trasparente avvertimento sulle conseguenze che la sua trasgressione potrà comportare (così la sentenza n. 32 del 2020 Corte cost).
2.1. Ciononostante, l'erronea applicazione di tale disposizione, che implica un trattamento sanzionatorio complessivamente deteriore rispetto a quello che era in vigore al momento della commissione del reato, non determina l'illegalità della pena inflitta in concreto e, pertanto, se non eccepita nei motivi di appello, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità.
Recentemente, infatti, la giurisprudenza della Cassazione, nella sua massima espressione nomofilattica a sezioni unite, si è occupata della definizione del concetto di illegalità della pena con riguardo alla violazione dell'art. 165, quinto comma, cod. pen., avuto riguardo alla sua incidenza in tema di patteggiamento, ambito in cui il concetto di illegalità della pena è essenziale, al fine di stabilire se si è in presenza o meno di una delle ipotesi di ammissibilità del ricorso tassativamente previste dal legislatore (ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen.).
Le Sezioni Unite hanno affermato, invero, che la sentenza di patteggiamento con cui sia stata concessa la sospensione condizionale della pena non subordinata, come concordato tra le parti, agli obblighi di cui all'art. 165, quinto comma, cod. pen., necessariamente previsti in relazione ai reati ivi contemplati, non è ricorribile per cassazione, non determinando tale omissione un'ipotesi di illegalità della pena (Sez. U, n. 5352 del 28/9/2023, dep. 2024, P., Rv. 285851).
La sentenza, disegnando il perimetro della nozione di "pena illegale" secondo gli approdi già più volte al centro del dibattito ermeneutico delle stesse Sezioni Unite, ha espunto da essa le questioni che attengono alla sospensione condizionale di essa.
Pena illegale - afferma la sentenza - è quella che si colloca al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, perché diversa per genere, per specie o per quantità da quella positivamente prevista (tale definizione è dichiaratamente mutuata da altre recenti sentenze sul tema, in particolare Sez. U. n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886 e Sez. U, n. 38809 del 31/3/2022, Miraglia, Rv. 283689, ma anche Sez. U, n. 47182 del 31/3/2022, Savini, Rv. 283818).
Una volta definita la nozione di illegalità della pena, la Corte pone la sua attenzione sull'istituto della sospensione condizionale della pena (tale ricostruzione egualmente si ispira ad una recente sentenza che si è occupata approfonditamente dell'istituto della sospensione condizionale della pena: Sez. U, n. 37503 del 23/6/2022, Liguori, Rv. 283577), la quale, nonostante le varie modifiche subite nel tempo, con un progressivo ampliamento degli obblighi (anche di carattere afflittivo) al cui adempimento può o deve essere subordinata, si ritiene che conservi tuttora la sua natura e funzione di: "misura, in senso lato, alternativa alla detenzione, rispondente alla ratio di sottrarre alla privazione della libertà e alla restrizione in carcere chi non avesse ancora conosciuto l'esperienza detentiva, orientata a ridurre il fenomeno della detenzione breve (o brevissima)". Pur risultando uno strumento alternativo al carcere, la sospensione condizionale conserva una sua positiva portata sanzionatoria chiarendone la portata e la natura.
Tuttavia, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 5352 del 2024, escludono che la sospensione condizionale della pena possa essere ricondotta alla nozione di "pena" rilevante ai fini della verifica della sua "legalità", in quanto essa implica la già avvenuta determinazione della sanzione mediante una sentenza di condanna e cioè la traduzione della pretesa punitiva, della punibilità astratta, in concreta; essa si configura, quindi, come una "astensione a tempo" dall'esecuzione della pena, che non implica alcuna limitazione della libertà personale del condannato (si richiamano le sentenze della Corte costituzionale nn. 295 del 1986 e 296 del 2005).
Anche l'apposizione normativa via via sedimentatasi di obblighi che affiancano, in talune ipotesi, la sospensione condizionale non ne ha mutato il carattere "esterno" alla pena appena ricordato, che presuppone la già avvenuta e completa determinazione della pena con la sentenza di condanna (così la sentenza al par. 9 del Considerato in diritto).
La mera afflittività dei contenuti degli obblighi non consente di inserirli nel catalogo normativo tassativo delle pene previsto dall'art. 17 cod. pen.: essi sono non sanzioni, ma comportamenti imposti al condannato in funzione special-preventiva, strumentali al conseguimento dell'effetto estintivo verso cui è proiettato l'istituto.
Le Sezioni Unite confermano, pertanto, l'estraneità della sospensione condizionale alla nozione di pena, pur se subordinata agli obblighi previsti dal quinto comma dell'art. 165 cod. pen. e sottolineano come, per far valere i vizi relativi alla sospensione condizionale della pena prevista da tale norma (nel caso trattato, per l'omessa disposizione dell'obbligatoria condizione di subordinazione alla partecipazione ai corsi di recupero), dovranno essere rispettate le regole generali di impugnazione (cfr. pag. 19 della sentenza).
2.2. Da tale ricostruzione ermeneutica discende che l'eccezione di illegalità della pena formulata dal ricorrente non è fondata.
Nel caso di specie, la statuizione illegittima è stata disposta dal giudice di primo grado ed il ricorrente, per ammissione dello stesso ricorso, non ha eccepito con l'atto di appello il vizio di violazione di legge al riguardo, come pure avrebbe potuto e dovuto, alla luce delle coordinate ermeneutiche già individuate.
Pertanto, versandosi in un'ipotesi di vizio di violazione di legge che attiene al trattamento sanzionatorio ma non determina illegalità della pena, tale vizio andava dedotto in appello, secondo le ordinarie regole devolutive, per poter eventualmente essere nuovamente agitato in sede di legittimità, qualora vi fosse stata risposta negativa alle richieste difensive.
Viceversa, non è possibile dedurre per la prima volta, in sede di legittimità, la questione relativa all'erronea applicazione dell'art. 165, comma quinto, cod. pen. a fatti commessi prima della sua entrata in vigore ed il ricorso, per tale ragione, deve essere rigettato.
Del resto, è lo stesso mancato esercizio del potere-dovere di applicazione del beneficio in esame, in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, che non può essere dedotto con ricorso per cassazione dall'imputato in caso di sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di appello (Sez.U , n. 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Salerno, Rv. 275376; Sez. 4, n. 29538 del 28/5/2019, Calcinoni, Rv. 276596).
3. Deve essere chiarito, a chiusura dell'analisi sin qui svolta, che la soluzione adottata, così come derivante dall'interpretazione delle Sezioni Unite, non confligge con le indicazioni della Corte costituzionale, contenute nella sentenza n. 32 del 2020, che, pur riferite ad un ambito certamente diverso da quello oggi in esame, potrebbero avere comunque rilievo poiché attinenti alle vicende della pena successive alla sua determinazione.
Con tale pronuncia, il giudice delle leggi ha esteso il divieto di retroattività della legge penale sfavorevole previsto dall'art. 25, comma secondo, Cost. per le norme incriminatrici anche a quelle norme disciplinanti le modalità di esecuzione della pena che determinano una trasformazione radicale della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato.
In particolare, si è dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 25, comma secondo, Cost., l'art. 1, comma 6, lett. b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 cod. pen. e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dall'art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen.
Pur condividendo ed avallando le ragioni "assai solide a fondamento della soluzione, consacrata dal diritto vivente, secondo la quale le pene devono essere eseguite, di regola, in base alla legge in vigore al momento dell'esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato", la Corte costituzionale ha stabilito che tale regola deve soffrire un'eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato, tale da mutarne il volto, a renderla "altro" rispetto a quella stabilita al momento del fatto. In tal caso si deve dare piena operatività delle rationes che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato.
Il caso sottoposto alla Corte era quello, limite e paradigmatico, riferito a quando al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita "fuori" dal carcere, la quale - per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma "dentro" il carcere. In tal caso, afferma la Consulta, tra il "fuori" e il "dentro" la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa.
Orbene, evidentemente molto differente è l'ipotesi sottoposta all'esame oggi del Collegio, in cui non viene in risalto una macroscopica ridefinizione in peius del volto della pena inflitta in concreto ma, piuttosto, un diverso atteggiarsi di un beneficio, la sospensione condizionale, cui vengono apposti sì obblighi comportamentali, ma dai quali non deriva un'alternativa tra "dentro" e "fuori" dal carcere con incidenza massima sulla libertà personale, bensì promana una funzione eminentemente rieducativa perseguita dal legislatore con percorsi di recupero improntati ad ideali di partecipazione individuale in contesti di impegno sociale.
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
4.1. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 19 settembre 2024.
Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2024.