RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Bari confermava la pronuncia di primo grado del 23 ottobre 2015 con la quale il Tribunale di Foggia aveva condannato H.B.I. in relazione ai reati di cui all'art. 61 c.p., n. 11-quinquies, art. 93 c.p., e art. 612-bis c.p., commi 1 e 2 (capo 1); artt. 582 e 585 c.p., art. 576 c.p., comma 1, n. 1 e 5.1., art. 61 c.p., n. 2, (capo 3); art. 595 c.p. e art. 61 c.p., n. 2 (capo 4); art. 61 c.p., n. 11-quinquies, artt. 93 e 572 c.p. (capo 5); art. 570 c.p. (capo 7).
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato, con atto sottoscritto dal suo difensore, il quale ha dedotto due motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 127 e 611 c.p., D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, per avere la Corte territoriale disatteso la richiesta di rinvio della trattazione del giudizio ad altra udienza, benché il Procuratore generale presso quella Corte avesse depositato le proprie conclusioni per iscritto senza il rispetto del termine di legge.
2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 612-bis e 572 c.p., per avere la Corte distrettuale confermato la pronuncia di condanna di primo grado, senza tenere conto che il reato del capo 1) ben poteva considerarsi assorbito nel delitto contestato nel capo 5), tenuto conto che i maltrattamenti in famiglia possono configurarsi anche dopo la cessazione del rapporto di convivenza.
3. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui al D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, commi 8 e 9, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati dal D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7, convertito dalla L. 16 settembre 2021, n. 126.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di H.B.I. vada rigettato.
2. Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di esaminare la questione posta dal ricorrente e con recenti pronunce - dalle cui conclusioni questo Collegio non ha ragione di discostarsi - ha chiarito che, nel vigore della disciplina emergenziale relativa alla pandemia da Covid-19, il mancato rispetto dei termini per il deposito delle conclusioni del Procuratore generale, di cui all'art. 23, comma 8, n. 137 del 2020, non integri un'ipotesi di nullità generale ai sensi dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b) e c), salvo che ciò abbia comportato per le altre parti la impossibilità di concludere (Sez. 6, n. 28032 del 30/04/2021, Simbari, Rv. 281694; Sez. 5, n. 6207 del 17/11/2020, dep. 2021, P., Rv. 280412).
Alla luce di tale criterio ermeneutico deve escludersi che nel caso di specie sia configurabile alcuna violazione del diritto di difesa, tenuto conto che, nonostante il ritardato deposito delle conclusioni scritte da parte del Procuratore generale presso la Corte di appello, le stesse, il 16 febbraio 2021 alle ore 14,10, vennero portate a conoscenza - con pec della cancelleria - all'avv. Angelo Marano, che in quel momento, risultava essere il difensore dell'imputato; situazione rispetto alla quale è irrilevante che il prevenuto avesse poi provveduto a nominare l'avv. Antonio Gabrieli come proprio patrocinatore in sostituzione dell'avv. Marano, dato che il relativo atto di nomina venne portato a conoscenza della Corte di appello solo alle ore 19,44 di quel (OMISSIS), con pec inviata dal professionista nominato. Quest'ultimo, a sua volta, ha avuto modo di formulare le proprie conclusioni scritte; né a lui spettavà alcun termine a difesa, che non è previsto affatto dalla disciplina emergenziale di cui al citato il D.L. n. 137 del 2020, art. 23.
3. Il secondo motivo ricorso è infondato.
Nella giurisprudenza di legittimità si è sostenuto che il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità è configurabile anche in assenza di convivenza di fatto, laddove la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale e si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l'aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione (in questo senso, tra le molte, Sez. 6, n. 37077 del 03/11/2020, M., Rv. 280431; Sez. 6, Sentenza n. 37628 del 25/06/2019, C., Rv. 276697; Sez. 6, n. 43701 del 12/06/2019, C., Rv. 277987). Orientamento - basato sulla valorizzazione della genitorialità condivisa e del vincolo solidaristico tra gli interessati, fattori idonei a fondare, si è detto, una "famiglia" anche in assenza di una attuale relazione di convivenza ovvero di uno stabile rapporto affettivo - che, se accreditato, dovrebbe portare coerentemente ad escludere la possibilità di riconoscere, anche in caso di cessazione di un pregresso rapporto di convivenza, la configurabilità del reato di atti persecutori aggravati: in quanto, in ragione dell'impiego della clausola di riserva "Salvo che il fatto costituisca più grave reato", contenuto nell'inciso iniziale dell'art. 612-bis c.p., le relative condotte lesive, poste in essere in danno di persona che è o è stata legata da relazione affettiva all'agente, resterebbero assorbite nell'addebito mosso ai sensi dell'art. 572 c.p..
Questo Collegio reputa, invece, di dover privilegiare la contraria opzione interpretativa che ha inteso valorizzare l'espresso riferimento, contenuto nell'art. 572 c.p. (nella sua versione modificata dalla L. 1 ottobre 2012, n. 172, art. 4), alla figura del convivente, parificandola a quella del familiare, come persona offesa di tale delitto. Indirizzo - cui ha aderito la sentenza della Corte di appello oggi in esame - in base al quale si è affermato che, nel caso di convivenza more uxorio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile soltanto per le condotte tenute fino a quando la convivenza non sia cessata, mentre le azioni violente o persecutorie compiute in epoca successiva possono integrare il delitto di atti persecutori (così Sez. 2, n. 10222 del 23/01/2019, C., Rv. 275617; conf., più di recente, Sez. 6, n. 39532 del 06/09/2021, B., non mass.).
Partendo dall'esegesi letterale della norma incriminatrice dettata dall'art. 572 c.p., bisogna prendere atto come con la formula "maltratta una persona della famiglia, o comunque convivente", il legislatore abbia inteso far riferimento a condotte che vedano come persona offesa il componente di una famiglia intesa come comunità qualificata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale, ovvero il soggetto che ad essa sia parificabile in ragione di una accertata relazione di "convivenza", che, lungi dall'essere riconoscibile nella presenza non continuativa di una persona nell'abitazione di un'altra, è solo quella che si crea quando la coabitazione della coppia sia caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo.
Ed allora, non si tratta di "sconfessare" la tendenziale propensione della giurisprudenza di questa Corte a riconoscere pari tutela, anche sotto l'aspetto penalistico, ai componenti della famiglia di fatto rispetto a quelli della famiglia legittima: in quanto, in presenza di una "comunità familiare" contrassegnata da una stabile convivenza, da una duratura comunanza di affetti e da una consapevole responsabilità nella cura e nell'educazione dei figli, non vi è ragione alcuna per non garantire alla vittima di condotte abusanti uno statuto di protezione analoga a quello previsto per i membri della famiglia legittima.
Ne' vi è contrasto con il risultato di altro recente arresto giurisprudenziale con il quale si è ritenuto di interpretare il sintagma "prossimo congiunto", contenuto nell'art. 384 c.p. in materia di cause di non punibilità nei reati contro l'amministrazione della giustizia, estendendone l'applicazione anche alla figura del convivente "more uxorio" (v. Sez. U, n. 10381 del 26/11/2020, dep. 2021, Fialoca, Rv. 280574), in quanto è pacifico come una siffatta operazione ermeneutica sia consentita in materia penale solo laddove si traduca nell'adozione di soluzioni esegetiche più favorevoli per l'imputato.
Il problema, dunque, è quello di rispettare la lettera della legge incriminatrice sostanziale e non modificarne la portata operativa in termini tali da formulare opzioni applicative fondate su soluzioni che rispondono ad una logica di interpretazione analogica in malam partem, non consentita in materia penale.
In tale contesto è significativa la presa di posizione della Corte costituzionale che, nell'esaminare una specifica questione processuale avente ad oggetto l'art. 521 c.p.p. riguardante la riqualificazione giuridica del fatto contestato, ha ammonito dal rischio che l'esercizio del relativo potere da parte del giudice possa determinare una violazione del principio di tassatività sancito dall'art. 25 Cost., che impone che "in materia penale il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione": e ciò la Consulta ha fatto proprio con riferimento al rapporto tra le due norme incriminatrici previste dagli artt. 572 e 612-bis c.p., sottolineando come "il divieto di analogia in malam partem impon(ga) di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di "convivenza"...(e se)... davvero possa sostenersi che la sussistenza di una (tale) relazione consenta di qualificare quest'ultima come persona appartenente alla medesima "famiglia" dell'imputato (...) In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 c.p. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis c.p., comma 2, che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona "legata da relazione affettiva" all'agente - apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice" (Corte Cost., sent. n. 98 del 2021).
Pertanto, con riferimento al caso di specie non è ravvisabile la lamentata violazione di legge nella decisione contenuta nella sentenza gravata nella parte in cui è stata confermata la condanna dell'imputato per il delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni della convivente per il periodo fino al luglio del 2014, in cui vi era stata una stabile convivenza tra gli stessi, e il delitto di atti persecutori ai danni della stessa donna per le condotte tenute dal prevenuto dal momento successivo alla cessazione di quella convivenza di fatto.
4. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 17 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2021