RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 26 novembre 2021 la Corte d'appello di Trento, per quanto ancora rileva, ha confermato la decisione di primo grado che aveva condannato M.M. alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, avendolo ritenuto responsabile del reato di atti persecutori e di lesioni in danno della ex-coniuge.
2. Nell'interesse degli imputati è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo si lamenta violazione di legge, per avere la Corte territoriale ritenuto che le lesioni del 17 dicembre 2017 possano essere ricondotte al concetto di minaccia o molestia, al fine di integrare l'abitualità della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612-bis c.p..
2.2. Con il secondo motivo, prospettato in via subordinata, si lamenta violazione dell'art. 192 c.p., per avere la Corte territoriale ritenuto integrato l'evento di danno richiesto dall'art. 612-bis c.p., sulla base di fatti inidonei ad essere qualificati come indizi, in tal modo eludendo la questione, posta con l'atto di appello, della sussistenza dello stato di ansia della persona offesa e comunque della sua riconducibilità alla condotta dell'imputato.
2.3. Con il terzo motivo si sottolineano le conseguenze dell'accoglimento del primo o del secondo rispetto al capo della sentenza relativo alle statuizioni civili.
3. Sono state trasmesse, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8, conv. con L. 18 dicembre 2020, n. 176, le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Dott. Nicola Lettieri, il quale ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Rilevato che la condanna per lesioni non è oggetto di impugnazione, si osserva che il primo motivo è infondato.
Come di recente ribadito da questa Corte, pur occupandosi specificamente del tema della necessaria reiterazione degli atti persecutori, integrano il delitto di cui all'art. 612-bis c.p. anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, ancorché commesse in un breve arco di tempo, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale (Sez. 5, n. 33842 del 03/04/2018, P., Rv. 273622 - 01: in motivazione si legge che, nel caso di specie, l'imputato aveva posto in essere nei due giorni individuati dalla contestazione azioni certamente moleste, anche gravemente minacciose, lesive dell'incolumità fisica della persona offesa, con cui intendeva ripristinare la precedente relazione sentimentale, e di danneggiamento della sua auto, nonché di violenta minaccia anche nei confronti di familiari della vittima). Sul punto si registra anche l'intervento di Sez. 5, n. 1753 del 16/09/2021, dep. 2022, Q., Rv. 282426 - 01, che, muovendo dall'elaborazione giurisprudenziale della nozione di molestia di cui all'art. 660 c.p., è giunta alla conclusione in forza della quale rientra in tale ambito qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica. Nella motivazione della sentenza appena citata si legge, altresì, che, nell'indicata prospettiva, anche le lesioni personali volontarie arrecate dal soggetto attivo del reato a familiari della persona offesa dal reato ex art. 612-bis c.p., rientrano, al tempo stesso, nella nozione di molestia e di minaccia, in quanto, da un lato, costruiscono intorno alla persona offesa dal reato di atti persecutori un clima intimidatorio e ostile e, dall'altro, rendono concreta la possibilità di analoghi atti dannosi, desumibile dalla precedente condotta (cfr., in questo senso, con riferimento alla condotta di danneggiamento, Sez. 5, n. 10994 del 12/12/2019, C., Rv. 27885701).
La soluzione è coerente con la stessa formulazione dell'art. 612-bis, comma 1, che pone l'accento sulla realizzazione di "condotte", caratterizzate per la loro portata minacciosa o molesta, idonea a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero a ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero a costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La norma incriminatrice, in realtà, focalizza la sua attenzione sull'effetto delle condotte persecutorie, che vengono identificate in quanl:o si traducano nell'intimidazione o nell'invasione della sfera di autodeterminazione della vittima. Anche Corte Cost., sent. 172 del 2014, nel respingere la questione di legittimità costituzionale dell'art. 612-bis c.p., in relazione alla dedotta violazione del principio di determinatezza delle fattispecie penali codificato dall'art. 25 Cost., comma 2, ha, infatti, puntualmente osservato, per quanto rileva in questa sede, che "molestare significa, invece, sempre secondo il senso comune, alterare in modo fastidioso o importuno l'equilibrio psichico di una persona normale. E questo è sostanzialmente il significato evocato dall'art. 660 c.p., in cui viene fatto riferimento alla molestia per definire il risultato di una condotta".
Quest'ultima precisazione, coerente con la ratio dell'incriminazione, è in linea con le indicazioni Eurounitarie, se si considera che la direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, all'art. 2, par. 1, lett. c), definisce le molestie sempre in chiave finalistica come "situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo".
Alla luce delle superiori considerazioni, deve ritenersi che esattamente la Corte territoriale abbia ricondotto l'episodio, lesivo del quale si tratta alle molestie rilevanti ai fini dell'integrazione del delitto de quo.
2. Il secondo motivo è inammissibile, perché, attraverso un'analisi atomistica delle risultanze istruttorie, aspira ad una rivalutazione di queste ultime, preclusa in sede di legittimità.
Va premesso che la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sez. 5, n. 24135 del 9/5/2012, G., Rv. 253764) e, più in generale, può essere desunta da elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (cfr., ex multis, Sez. 5, n. 17795 del 2/3/2017, S., Rv. 269621; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C., Rv. 261535; Sez. 5, n. 14391 del 28/2/2012, S., Rv. 252314).
Ora, come anche di recente ribadito (v. Sez. 5, n. 17568 del 22/03/2021) è estraneo all'ambito applicativo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ogni discorso confutativo sul significato della prova, ovvero di mera contrapposizione dimostrativa, considerato che nessun elemento di prova, per quanto significativo, può essere interpretato per "brani" né fuori dal contesto in cui è inserito, sicché gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa. Sono, pertanto, inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio (Sez. 5, n. 8094 del 11/01/2007, Ienco, Rv. 236540; conf. ex plurimis, Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168). Così come sono estranei al sindacato della Corte di cassazione i rilievi in merito al significato della prova ed alla sua capacità dimostrativa (Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, Bevilacqua, Rv. 234605; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 36546 del 03/10/2006, Bruzzese, Rv. 235510). Pertanto, il vizio di motivazione deducibile in cassazione consente di verificare la conformità allo specifico atto del processo, rilevante e decisivo, della rappresentazione che di esso dà la motivazione del provvedimento impugnato, fermo restando il divieto di rilettura e reinterpretazione nel merito dell'elemento di prova (Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006, Stojanovic, Rv. 234167).
Ciò posto, a fronte della certificazione attestante la presenza di una sindrome ansiosa reattiva, l'ipotesi di una spiegazione alternativa a fronte delle condotte accertate, una delle quali tradottasi nel contatto fisico con la vittima, mentre si trovava con la figlia minore, e', per un verso, del tutto assertiva, nel senso che non viene correlata dal ricorso ad alcuna risultanza processuale e, per altro verso, inidonea a incrinare la logicità del percorso argomentativo dei giudici di merito.
Infatti, il dubbio ragionevole di cui all'art. 530 c.p.p., comma 1, deve identificarsi in una ricostruzione della vicenda non solo astrattamente ipotizzabile in rerum natura, ma la cui plausibilità nella fattispecie concreta risulti ancorata alle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza. E' dunque necessario che il dubbio ragionevole risponda non solo a criteri dotati di intrinseca razionalità, ma sia suscettibile di essere argomentato con ragioni verificabili alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 03/04/2018, Troise, Rv. 272430), non potendo il dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P. Rv. 281647 - 04).
3. Il terzo motivo, logicamente dipendente dai primi due, ne segue la sorte e va, pertanto, nel suo complesso, rigettato.
4. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2023.
Depositato in Cancelleria il 13 aprile 2023